Un messaggio pubblicato su Facebook con un post aperto a tutti, con un richiamo ai difetti fisici di un’altra persona, accompagnato da emoticon, può costituire diffamazione online. Vediamo che cosa è emerso dalla recente Cass. pen. Sez. 5 sent. 2251/2023.
I fatti sulla diffamazione online
Il Tribunale di Varese aveva condannato l’imputato per il reato ex art. 595 terzo comma cod. pen. (Diffamazione) alla pena di 800 euro di multa e al risarcimento di danni per 2.000 euro. La Corte d’appello ha però riqualificato il fatto ai sensi dell’art. 594 c.p., assolvendo così l’imputato perché il fatto non costituisce più reato.
Per il capo di imputazione, l’imputato offendeva la reputazione di un’altra persona comunicando mediante il social network Facebook pubblicando opinioni in un post pubblico dedicato ai problemi di viabilità di un comune, facendo qui espresso riferimento ai deficit visivi della parte civile, a scopo di dileggio. Tra i principali termini utilizzati, diversi intendimenti ai disturbi visivi della persona diffamata, come “punti di vista”, “mi verrebbe da scrivere la lince, ma ho rispetto per la gente sfortunata”, ecc., seguiti da diverse emoticon simboleggianti le risate.
Il ricorso in Cassazione per diffamazione online
A proporre ricorso in Cassazione è la parte civile, tramite il proprio difensore di fiducia, con un unico motivo di ricorso con cui deduce ex art. 606 comma 1, lett. b) e e) del codice di rito, l’erronea applicazione del codice penale e il vizio di motivazione, per avere la Corte di appello riqualificato il fatto alla luce dell’art. 594 c.p.
Per la difesa della parte civile, infatti, il presupposto da cui la Corte territoriale ha preso le mosse per fondare la propria decisione di riforma è inidoneo a descrivere la condotta dell’imputato, perché condividere tale presupposto significherebbe trascurare i più precipui contenuti che caratterizzano la reputazione di una persona.
Inoltre, la Corte di appello sarebbe giunta alla riqualificazione del fatto da diffamazione a ingiuria sulla base di un altro presupposto ritenuto erroneo dal legale della parte civile, quale la possibilità, di cui la parte offesa poteva avvantaggiarsi, di replicare immediatamente alle espressioni offensive su una chat.
Così argomentando, la Corte d’appello avrebbe però trascurato un aspetto importante: i messaggi lesivi della reputazione della parte civile avevano raggiunto non solamente questo destinatario, quanto anche una moltitudine di persone. Dunque, non rileva che la parte offesa abbia avuto la possibilità di interloquire con l’imputato in tale contesto comunicativo.
Le considerazioni della Corte di Cassazione sulla diffamazione online
Per la Corte di Cassazione il ricorso è fondato. Proviamo a riepilogare per quali considerazioni.
In primo luogo, la Corte ricorda come la parte iniziale della motivazione della sentenza impugnata non è di immediata comprensione. Si sottolinea come il legale della parte civile abbia correttamente rilevato l’incongruenza motivazionale laddove la Corte di appello ha affermato prima che
l’imputato ha rivolto grafi offese alla parte civile, denigrandola per il deficit visivo
per poi ritenere che non vi sia pregiudizio per la reputazione della parte civile perché
un deficit visivo non diminuisce il valore di una persona
e avendo l’imputato con offese siffatte
messo in cattiva luce se stesso.
Considerato che la Corte di appello ha scritto come il deficit visivo non diminuisce il valore di una persona, non è però dato comprendere se stia esprimendo una affermazione di principio oppure se con quella frase voglia escludere la configurabilità della diffamazione, intendendo forse alludere la fatto che il dileggio di una persona ipovedente non vale a scalfirne anche il valore e, dunque, a lederne la reputazione.
In ogni caso, sottolinea ancora una volta la Corte di Cassazione, l’eccezione difensiva deve essere condivisa. La condotta di chi mette alla berlina una persona per le sue caratteristiche fisiche, comunicando con più persone come avvenuto nella fattispecie in esame, può certamente considerarsi un’aggressione alla reputazione della persona.
Il richiamo espresso della Corte è alla propria sentenza n. 32789 del 13/05/2016, laddove si ricordò che integra
il reato di diffamazione il riferirsi a una persona con una espressione che, pur richiamando un handicap motorio effettivo, contenga una carica dispregiativa che per il comune sentire rappresenti una aggressione alla reputazione della persona, messa alla berlina per le sue caratteristiche fisiche.
La reputazione come diritto inviolabile
In quella occasione la Corte di Cassazione riteneva immune da censure la decisione di condanna nei confronti di un soggetto che aveva qualificato la persona offesa nel contesto di una discussione come la zoppetta.
Ciò premesso, che la reputazione individuale sia un diritto inviolabile che è strettamente legato alla dignità della persona, è stato poi ricordato di recente dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 150 del 2021. Ed è proprio tale correlazione tra dignità e reputazione, proseguono i giudici, a venire meno nella fattispecie. Le espressioni utilizzate dall’imputato sottendono infatti una deminutio della persona offesa che, poiché ipovedente, non avrebbe dignità di interlocuzione pari a quella degli altri utenti della piattaforma.
Ingiuria e diffamazione online
Si arriva così all’esame della seconda parte della motivazione, ritenuta chiara nell’esposizione delle ragioni che hanno condotto la Corte di appello a ravvisare nella condotta dell’imputato gli estremi del delitto di ingiuria depenalizzato, ma con considerazioni non condivise.
Prima di affrontarla, considerato che emergeranno diverse valutazioni tra il reato di ingiuria e quello di diffamazione, è però utile soffermarsi brevemente sul tenore letterale delle rispettive norme.
Ingiuria – art. 594 c.p. (abrogato dal D.lgs. 15 gennaio 2016, n. 7)
Chiunque offende l’onore o il decoro di una persona presente è punito con la reclusione fino a sei mesi o con la multa fino a euro 516.
Alla stessa pena soggiace chi commette il fatto mediante comunicazione telegrafica o telefonica, o con scritti o disegni, diretti alla persona offesa.
La pena è della reclusione fino a un anno o della multa fino a milletrentadue euro, se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato.
Le pene sono aumentate qualora l’offesa sia commessa in presenza di più persone.
Diffamazione – art. 595 c.p.
Chiunque, fuori dai casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a milletrentadue euro.
Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a duemilasessantacinque euro.
Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a cinquecentosedici euro.
Se l’offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza, o ad una Autorità costituita in collegio, le pene sono aumentate.
La differenza tra ingiuria e diffamazione online
Rammentato il tenore delle norme, la Corte di Cassazione ha sottolineato come intende disattendere la valutazione della Corte di appello, ricordando come l’elemento distintivo tra l’ingiuria e la diffamazione sia rappresentato dal fatto che nell’ingiuria la comunicazione – realizzata con qualsiasi mezzo – è diretta all’offeso. Di contro, nella diffamazione l’offeso è estraneo alla comunicazione offensiva che è intercorsa con più persone e non è posto in condizioni di interloquire con l’offensore.
Non sempre, naturalmente, è così facile distinguere le due ipotesi. Proprio in tali casi, in cui il limite tra ingiuria e diffamazione si fa più opaco, la questione diviene comprendere se e quando l’offeso sia stato realmente in condizioni di replicare.
In tale ambito, il Giudice d’appello evidenzia come
la parte civile ha potuto ed era in grado di replicare alle offese, diffuse sulla chat.
È tuttavia vero che questa possibilità è stata fornita in un momento successivo alla pubblicazione delle offese sul social network. La stessa Corte aveva già in passato precisato, in relazione ad un servizio di messaggistica istantanea e comunicazione e più voci (Google Hangouts) che solamente il requisito della contestualità tra la comunicazione dell’offesa e il recepimento della stessa da parte dell’offeso avrebbero potuto configurare l’ipotesi dell’ingiuria.
Il requisito della contestualità
Di contro, se manca il requisito della contestualità, come in questo caso, l’offeso rimane estraneo alla comunicazione intercorsa con più persone e non è dunque posto in condizione di interloquire tempestivamente con l’offensore. In questo caso, si profila l’ipotesi della diffamazione.
In considerazione dei tanti possibili contesti in cui l’espressione offensiva può esternarsi, si può pertanto osservare che la diffamazione avente natura di reato di evento si consuma nel momento e nel luogo in cui i terzi percepiscono l’espressione ingiuriosa, a condizione che essi siano in quel momento e in quel luogo in grado di difendersi.
Per tali ragioni il Collegio ritiene che la sentenza impugnata debba essere annullata limitatamente agli effetti civili, con rinvio al giudice civile competente.