Detenzione materiale pedopornografico e disponibilità dei file – guida rapida
- I fatti
- L’art. 600 quater c.p.
- Il reato di detenzione di materiale pornografico
- Il supporto di memorizzazione dei file
- La correlazione tra l’accusa e la sentenza
- La responsabilità dell’imputato
- Il trattamento sanzionatorio
Con la sentenza n. 4212 del 1 febbraio 2023, la Terza Sezione della Corte di Cassazione ha affermato che in riferimento al reato ex art. 600-quater cod.pen., nel concetto di detenzione di materiale pedopornografico rientra anche la disponibilità di file fruibili, senza limiti di tempo e di luogo, attraverso l’accesso ad un archivio virtuale integralmente consultabile con credenziali di autenticazione esclusive o comunque note a chi le utilizzi.
Cerchiamo di ricostruire brevemente i fatti e gli elementi che hanno poi condotto alle valutazioni da parte della Corte di Cassazione, di cui si dirà nella seconda parte di questo approfondimento.
I fatti
Con sentenza dello scorso 18 maggio 2022 la Corte d’appello di Napoli ha respinto l’impugnazione proposta dall’imputato nei confronti della sentenza del precedente 24 marzo 2021 del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli, con cui – a seguito di giudizio abbreviato – lo stesso era stato condannato alla pena di un anno di reclusione e 800 euro di multa in relazione al delitto di cui all’art. 600 quater, comma 1, cod. pen., ascrittogli per essersi consapevolmente procurato e detenuto materiale pedopornografico realizzato usando minori di 18 anni, consistente in 4082 file di natura pedopornografica, di cui 1285 video ritraenti bambine di età compresa tra i 3 e i 14 anni intente in attività sessuali con adulti o di autoerotismo.
Contro tale sentenza l’imputato ha proposto ricorso in Cassazione, su cinque motivi. Il ricorso viene però giudicato complessivamente infondato. Vediamo perché.
L’art. 600 quater c.p.
Rubricato Detenzione o accesso a materiale pornografico, l’art. 600 quater c.p. stabilisce che:
Chiunque, al di fuori delle ipotesi previste nell’articolo 600ter, consapevolmente si procura o detiene materiale pornografico realizzato utilizzando minori degli anni diciotto è punito con la reclusione fino a tre anni o con la multa non inferiore a euro 1.549.
La pena è aumentata in misura non eccedente i due terzi ove il materiale detenuto sia di ingente quantità.
Fuori dei casi di cui al primo comma, chiunque, mediante l’utilizzo della rete internet o di altre reti o mezzi di comunicazione, accede intenzionalmente e senza giustificato motivo a materiale pornografico realizzato utilizzando minori degli anni diciotto è punito con la reclusione fino a due anni e con la multa non inferiore a euro 1.000.
Ricordiamo che per materiale pornografico, ai sensi del precedente art. 600 ter c.p., si intende la rappresentazione fotografica o cinematografica che implichi la partecipazione di un minore a scene o contesti a sfondo sessuale, escludendosi tuttavia la rilevanza della mera rappresentazione della nudità in se e per sé considerata, ovvero senza attinenza alla sfera sessuale.
Il tenore della norma punisce la mera detenzione di materiale pedopornografico, con il dolo generico che è costituito dalla coscienza e dalla volontà della natura del materiale. La circostanza aggravante specifica è legata alla detenzione di materiale in ingente quantità. Come sancito dalla sentenza Cass. pen. n. 48175/2017, poi, la prova del dolo del reato di detenzione di materiale pedopornografico può desumersi anche dal solo fatto che quanto scaricato sia stato collocato in supporti informatici diversi (come il cestino del sistema operativo) evidenziando così un’attività di selezione consapevole dei file, senza che abbia avuto alcuna rilevanza il fatto che non siano stati effettivamente visionati.
Il primo comma di tale articolo sanziona penalmente lo sfruttamento sessuale del minorenne in chiave pornografica e l’induzione attuata nei confronti del minore per prendervi parte, reclutare e ricavarne profitto. Il reato si consuma dunque nel momento dell’esibizione del minore, senza che assuma alcuna rilevanza la produzione del materiale pornografico.
Il secondo comma dell’articolo punisce invece il commercio di materiale pornografico, in cui il momento consumativo coincide con il raggiungimento di un quantitativo di materiale venduto tale da potersi ascrivere come vero e proprio commercio. Al terzo comma invece disciplina la diffusione di materiale pedopornografico e la diffusione di notizie che sono finalizzate all’adescamento di minori.
Il reato di detenzione di materiale pedopornografico
Con il primo motivo il ricorrente denunciava la violazione e l’erronea applicazione dell’art. 600 quater c.p., per avere la Corte d’Appello ritenuto sussistente la fattispecie di reato di detenzione di materiale pornografico in assenza di elementi essenziali della condotta punibile. In particolare, proseguono i legali dell’imputato, aveva ritenuto sufficiente, ai fini della sua configurabilità, il rinvenimento di uno dei dispositivi sequestrati di diciotto tracce di navigazione verso un sito internet.
Dalla sentenza di primo grado, risulta che a seguito delle perquisizioni disposte dal pubblico ministero ed eseguite dalla polizia postale era stato accertato l’uso delle credenziali di accesso fornite dal ricorrente, verso un account di cloud storage in cui erano stati archiviati 4082 file di natura pedopornografica.
La consulenza tecnica poi disposta dal pubblico ministero per accertare la presenza di ulteriore materiale pedopornografico nei dispositivi elettronici (cellulare e PC) sequestrati all’imputato, aveva escluso la presenza in tali dispositivi di file di natura pedopornografica.
Nella sentenza di primo grado si dà atto anche delle ammissioni sostanziali dell’imputato, che aveva riconosciuto l’accesso al sito dove aveva reperito le immagini rinvenute poi dalla polizia giudiziaria, spiegando che la visione di tali immagini aveva attirato la sua curiosità fino a degenerare in un interesse che aveva poi coinvolto nelle attività ora oggetto di contestazione, sia pure per un breve periodo di tempo, di transitoria fragilità psicologica, avendo poi provato repulsione per gli stessi contenuti, discostandosene e rimuovendoli.
Il giudizio di responsabilità per materiale pedopornografico
Le doglianze del ricorrente non servono però a cambiare il giudizio. I giudici della Suprema Corte evidenziano infatti come la sua responsabilità non sia stata affermata a causa e in conseguenza del rinvenimento delle tracce di navigazione verso i siti internet di cloud storage, che da sole sono inidonee per configurare la detenzione di materiale pedopornografico, bensì a causa della disponibilità – e, dunque, della detenzione – degli stessi file nel sito di cloud storage, nell’account di disponibilità del ricorrente.
Dunque, in questo ambito le tracce di navigazione sono state considerate solamente come elementi di conferma della disponibilità e dell’uso di questi account, riferibili all’imputato, presenti in tali siti di cloud storage e, inoltre, della disponibilità da parte sua delle immagini e dei video di contenuto pedopornografico qui archiviati.
L’esclusione dell’aggravante dell’ingente quantità del materiale pedopornografico, fondata sull’accertamento di sole 18 tracce di navigazione verso il sito di cloud storage è invece in contrasto con l’affermazione di responsabilità per la detenzione di tutte le immagini presenti nell’account riferibile all’imputato. Risulta dunque chiaro e univoco l’accertamento della disponibilità delle immagini da parte dell’imputato. Non rileva il numero degli accessi verso le stesse.
L’accertamento della detenzione del materiale pedopornografico
Dunque, risultano infondati i rilievi sollevati come tale motivo di ricorso, essendo accertata la detenzione da parte del ricorrente di immagini e video di contenuto pedopornografico, in archivi di storage in cloud nella sua esclusiva disponibilità, da lui consultabili in via esclusiva e incondizionatamente, senza limitazione, accedendovi con le proprie credenziali elettroniche.
Per i giudici di legittimità è dunque stata affermata correttamente la configurabilità del reato contestato. È stata infatti compresa nel concetto di detenzione non solamente la disponibilità dei contenuti pedopornografici archiviati in modo permanente in un dispositivo informativo nel possesso materiale del detentore, quanto anche la disponibilità di file accessibili senza limiti di tempo e di luogo in un archivio virtuale consultabile senza restrizioni, attraverso credenziali di autenticazione in uso esclusivo o condiviso tra il titolare e altri utilizzatori, in modo da poterne ampiamente disporre e da compiere una vasta gamma di operazioni (ad esempio, visualizzazione e trasferimento).
Il supporto di memorizzazione dei file
Respinto il secondo motivo di ricorso, con prospettata errata applicazione ex art. 600 quater cod. pen. e un vizio della motivazione, a causa dell’affermazione della configurabilità del reato di detenzione di materiale pedopornografico. Per il ricorrente, le immagini non erano a lui riferibili. Si riporta nell’informativa di reato il possesso di un unico dvd agli atti qualificabile come materiale pedopornografico, contenente poche fotografie di nudo, per lo più parziale.
Il motivo di ricorso è però inammissibile a causa della sua genericità, essendo privo di autentico confronto critico con la motivazione delle sentenze di merito e con le risultanze processuali, da cui emerge l’accertamento da parte del ricorrente di 4082 file di natura pedopornografica.
Ancora, il motivo è ritenuto inammissibile perché è volto a censurare un accertamento di fatto in ordine al contenuto e alla natura di detti file, che non è sindacabile sul piano delle valutazioni di legittimità, essendo una valutazione di merito. In entrambe le sentenze di merito è sia dell’età dei soggetti raffigurati sia del chiaro contenuto sessuale delle immagini e dei video, essendovi ritratte bambine tra i 3 e i 14 anni, in attività sessuali con maschi adulti o in attività di autoerotismo.
La correlazione tra l’accusa e la sentenza
Si arriva così al terzo motivo di ricorso, con cui si denuncia la mancata correlazione tra accusa e sentenza.
Anche questo motivo di ricorso è manifestatamente infondato, poiché la responsabilità del ricorrente non è affermata in relazione alle tracce di navigazione verso i siti di cloud storage, come accertato dal consulente tecnico del pubblico ministero sui supporti elettronici sequestrati al ricorrente, né per la detenzione nel sito internet dei file immagini ritraenti nudi minori o in abiti succinti, bensì – come si evidenzia nel primo motivo di ricorso e come emerge dalle sentenze di merito – a causa della disponibilità nell’account riferibile all’imputato nel sito di cloud storage di 4082 file di contenuto pedopornografico.
Quindi, il riferimento alle tracce di navigazione è riconducibile alla dimostrazione della disponibilità e dell’utilizzazione dell’account riferibile all’imputato, associato all’indirizzo mail di cui era titolare e di cui possedeva le chiavi di accesso. Quindi, all’accertamento dell’effettiva e concreta disponibilità, per un periodo di tempo peraltro apprezzabile, delle immagini e dei video archiviati su tale sito nell’account riferibile all’imputato, non tale da affermarne la responsabilità in relazione a condotte ulteriori, quanto per indicare gli elementi dimostrativi della responsabilità in relazione ai comportamenti contestati.
La responsabilità dell’imputato per materiale pedopornografico
Si giunge in questo modo al quarto motivo, con cui il ricorrente denuncia l’assenza di un’adeguata motivazione sulla mancata applicazione della causa di non punibilità prevista dall’art. 131 bis cod. pen., secondo cui, al primo comma:
Nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel minimo a due anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’articolo 133, primo comma, anche in considerazione della condotta susseguente al reato, l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale.
Per il ricorrente, pur in presenza di un fatto di contenuto allarme sociale, è accertata la sola presenza delle suddette tracce di navigazione.
Anche questo motivo è però infondato. Per i giudici di legittimità, infatti, la responsabilità dell’imputato è chiaramente affermata, come evidenziato dalla detenzione, nell’account di un sito di cloud storage, di 4082 immagini e video. Si tratta dunque di un fatto che non può certamente essere ritenuto di modesta o ridotta offensività. Di ciò ha peraltro tenuto debita considerazione la Corte d’appello che, a questo proposito e in accordo con il giudice di prime cure, ha escluso l’applicabilità della causa di esclusione di punibilità, soffermandosi anche sulla “ricerca e specializzazione informatica necessariamente acquisita attraverso una completa immersione della materia”.
Per i giudici di legittimità si tratta di rilievi che sono idonei a giustificare la conferma dell’esclusione dell’applicabilità della causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto, tenendo appunto conto dell’elevato numero di immagini e di video di contenuto pedopornografico detenuti dal ricorrente e anche del metodo di archiviazione dei relativi file impiegato, evidentemente proprio allo scopo di eludere eventuali controlli.
Una condotta che per la Cassazione è caratterizzata da sistematicità e organizzazione, da cui non si può certamente affermare la non abitualità o l’esiguità del pericolo, con conseguenza piena correttezza delle valutazioni compiute dai giudici di merito.
Il trattamento sanzionatorio
Si può dunque arrivare al quinto motivo, con cui il ricorrente lamenta l’errata applicazione ex artt. 133 e 175 c.p., e ulteriore vizio di motivazione della sentenza in relazione alla determinazione del trattamento sanzionatorio, al diniego del beneficio della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale e alla mancata conversione della pena detentiva in pena pecuniaria.
Il motivo è anche in questo caso giudicato come manifestatamente infondato, poiché è volto anch’esso a censurare le valutazioni di merito in ordine all’adeguatezza della pena e alla sussistenza dei presupposti per riconoscere il beneficio della non menzione della condanna, e a prospettare violazioni di legge e vizi di motivazione in rapporto alla sostituzione della pena, in precedenza non dedotte, non essendo state oggetto di motivo di appello e di cui, pertanto, è preclusa la deduzione mediante il ricorso per cassazione.
I giudici della Suprema Corte rammentano come la Corte di appello abbia concordato con il primo giudice nella valutazione di gravità della condotta. È dunque considerata la sua oggettività anche alla luce delle modalità con cui la stessa è realizzata. Considerata è stata inoltre la sua reiterazione, anche nel giudizio negativo sulla personalità dell’imputato. E’ così esclusa la possibilità di riconoscere il beneficio della non menzione.
Si tratta, per i giudici della Corte di cassazione, di motivazione idonea a giustificare la determinazione della pena in misura superiore al minimo edittale e l’opportunità di escludere il beneficio della non menzione, in funzione di prevenzione della ripetizione di condotte analoghe, che il ricorrente ha censurato sul piano delle valutazioni di merito, dunque in modo non consentito in tale sede di legittimità.
Il ricorso è dunque rigettato per l’infondatezza del primo motivo e per l’inammissibilità degli altri.