Recesso ad nutum nelle società per azioni – guida rapida
La sentenza del 29 gennaio 2024, n. 2629 della Corte di Cassazione ha statuito la liceità della clausole statutaria di una società per azioni che non fa ricorso al mercato del capitale di rischio, che prevede come ulteriore causa di recesso la facoltà dei soci di recedere dalla società ad nutum con un termine di preavviso congruo.
Vediamo dunque quali sono state le valutazioni compiute dai giudici della Suprema Corte riassumendo lo svolgimento del caso.
Il legittimo recesso e la liquidazione della quota
Il caso trae origine dal lodo emesso il 30 aprile 2018, con cui il collegio arbitrale ha respinto le domande proposte dal socio, finalizzate ad accertare il legittimo recesso da una società per azioni e la conseguente liquidazione della quota.
Con sentenza del 25 giugno 2019, la Corte d’appello aveva respinto l’impugnazione del socio. Ricorda in tali premesse la Corte che la clausola di cui all’art. 11 dello statuto della società prevedeva che
Anche al di fuori dei casi di cui sopra i soci possono comunque recedere con un preavviso di almeno centottanta giorni: in tal caso, il recesso produrrà effetti dallo scadere dei centottanta giorni.
Ebbene, la Corte territoriale ha ritenuto che non sia lecita, bensì affetta da nullità ex artt. 1418 e 1419 c.c., la clausola statutaria che introdotta ex art. 2437, comma 4, c. c., preveda il diritto di recedere dei soci ad nutum nelle società per azioni costituite a tempo determinato.
Per la corte territoriale, il terzo comma dell’art. 2437 c.c. contempla il recesso anche senza giusta causa e con preavviso solo nelle società costituite a tempo indeterminato. Di contro, lo stesso non può disporsi per le società costituite a tempo determinato.
Tutto ciò premesso, stando alla ratio della riforma del 2003, il recesso è essenzialmente una tutela per il socio dissenziente, dunque esclusivamente come reazione di questi a ragioni ricollegabili alla vita societaria tali da giustificare la sua uscita. Dunque, il terzo comma dell’art. 2437 c.c. avrebbe natura eccezionale, quanto alla previsione di un recesso ad nutum. La conclusione è indotta dalla tutela sia del capitale sociale, sia dei terzi, dovendosi rinvenire un principio di ordine pubblico, il quale esclude la liceità di un recesso ad nutum dalla società quando il contratto sia a tempo determinato, con conseguente dichiarazione di nullità della clausola di cui all’art. 11 dello statuto della società per azioni.
Disatteso anche il secondo motivo proposto dal socio, quello che riguarda l’equiparazione del termine di durata particolarmente lungo ad una durata indeterminata. Si tratterebbe di una nuova ed inammissibile ex art. 345 c.p.c., infondata, dal momento che il termine è stato fissato al 2050 e comunque non può estendersi alle società di capitali il diverso principio posto per le società di persone.
Quanto poi all’argomento secondo cui la società è stata costituita nel 1967 e dunque oltrepasserebbe ogni orizzonte temporale previsionale di un soggetto collettivo, si tratta di deduzione tardiva e infondata, comportando di fatto la sua applicazione un’eccessiva aleatorietà.
Contro tale decisione il socio ha proposto ricorso per Cassazione
Il recesso nelle società per azioni
La Corte nell’esame del caso rammenta come le ipotesi di recesso dalla società per azioni sono state previste dal legislatore per far fronte a molteplici tutele.
La tutela del socio assente, dissenziente o astenuto
L’art. 2437 c.c. attribuisce il diritto di recesso ai soci che non abbiano concorso con il loro voto alla deliberazione.
La ragione di ciò serve a tutelare il mancato consenso, come contrappeso al ridotto potere del socio di minoranza di influire sulle scelte societarie, finalizzate a ad avere un particolare impatto sulla vita sociale (si pensi a modifica dell’oggetto sociale, trasformazione, trasferimento della sede all’estero, revoca dello stato di liquidazione, eliminazione di cause di recesso e modifica dei criteri di liquidazione delle azioni, modifiche dei diritti di voto o di partecipazione). Si ammette altresì la deroga, con l’esclusione della facoltà di recedere, in talune ipotesi (proroga del termine, vincoli alla circolazione delle azioni).
La tutela dei rapporti di gruppo
Il quinto comma dell’art. 2437 c.c. rinvia alle disposizioni dettate in tema di recesso per le società soggette all’attività di direzione e coordinamento, l’art. 2497 quater c.c., che attribuisce la facoltà di recesso al socio della società eterodiretta in talune evenienze.
La tutela della libertà del socio da vincoli perpetui
Il terzo comma dell’art. 2437 c.c. prevede, per le società non quotate costituite a tempo indeterminato, il diritto di recesso con preavviso di almeno centottanta giorni.
Per le società quotate, dove la scelta di disinvestimento è evidentemente più agevole, il legislatore non ha previsto analoga facoltà di recesso.
La tutela della libertà del socio
Nelle società chiuse, lo statuto può prevedere anche ulteriori cause di recesso. È proprio questa, secondo la Suprema Corte, la disposizione da interpretare.
L’insufficienza dell’interpretazione letterale
La Corte rileva come, in relazione a quest’ultima disposizione, la sola lettera non è dirimente.
La previsione secondo cui
lo statuto delle società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio può prevedere ulteriori cause di recesso
non depone infatti in modo univoco nel senso che tali ulteriori cause debbano essere anche singole e specifiche, né che debbano tendere esclusivamente a tutelare il dissenso.
Allo stesso modo, il giudice non ritiene neppure sufficiente il richiamo alla legge delega del 3 ottobre 2001, n. 366, Delega al Governo per la riforma del diritto societario, che all’art. 4, comma 9, lett. d), in tema di disciplina delle modificazioni statutarie, ha disposto di rivedere la disciplina del recesso, prevedendo che lo statuto possa introdurre ulteriori fattispecie di recesso a tutela del socio dissenziente, anche nell’ipotesi di proroga della durata della società. Ha poi disposto di individuare in proposito criteri di calcolo del valore di rimborso adeguati alla tutela del recedente, salvaguardando in ogni caso l’integrità del capitale sociale e gli interessi dei creditori sociali.
Per la Suprema Corte vale sempre il principio generale di cui al medesimo art. 4, comma 1, in tema di società per azioni, secondo cui
la disciplina della società per azioni è modellata sui principi della rilevanza centrale dell’azione, della circolazione della partecipazione sociale e della possibilità di ricorso al mercato del capitale di rischio. Essa, garantendo comunque un equilibrio nella tutela degli interessi dei soci, dei creditori, degli investitori, dei risparmiatori e dei terzi, prevederà un modello di base unitario e le ipotesi nelle quali le società saranno soggette a regole caratterizzate da un maggiore grado di imperatività in considerazione del ricorso al mercato del capitale di rischio.
Vale anche l’osservazione secondo cui quell’espressione restrittiva è relativa al recesso. Esso può derivare infatti da una modifica dello statuto, ma non impedisce di prevedere ipotesi di recesso non derivanti da singole deliberazioni statutarie. Bensì, ricorre da un più generico “dissenso” con l’intrapresa comune.
La ratio del sistema del recesso nelle società per azioni
Si giunge così a discutere quale sia la ratio del sistema del recesso nelle società per azioni e quale la tesi accolta dai giudici.
Per la sentenza, è opinione condivisa fra gli interpreti che la riforma del diritto societario del 2003 abbia superato i due principi che in precedenza connotavano l’art. 2437 c.c. Da un lato, la tassatività delle cause di recesso. Dall’altro lato, la preferenza per l’interesse all’integrità del patrimonio sociale ed alla prosecuzione dell’impresa, con la conseguente liquidazione “punitiva” per il socio uscente.
Con la riforma del 2003, però, questa prospettiva è mutata.
Se l’intento centrale della riforma del diritto societario del 2003 fu quello di favorire la competitività delle imprese tramite l’accesso delle società al mercato dei capitali, uno dei mezzi per conseguire questo intento fu l’ampliamento delle ipotesi di recesso. Si considera infatti un dato acquisito che la propensione all’investimento tanto più aumenta, quanto più l’investitore sia certo della possibilità di un rapido disinvestimento.
Di fianco alla limitazione della responsabilità dei soci al solo conferimento, proprio la possibilità di un agevole disinvestimento costituisce uno dei caratteri di favor per le società di capitali.
In particolare, la riforma delle società di capitali del 2003 ha ampliato le ipotesi in cui il recesso è consentito.
Da un lato, infatti, la riforma ha ampliato i casi legali di recesso. Dall’altro lato, invece, ha posto più rilievo sul piano sistematico, con il legislatore che ha voluto assicurare al socio, al momento dell’ingresso in società, che le possibilità di exit dalla stessa non possano essere ridotte senza che allo stesso sia consentito di uscire dalla società ad un prezzo tendenzialmente corrispondente al valore di mercato delle azioni o della quota.
Dunque, la firma ha superato la visione di recesso fondato esclusivamente sulla reazione del socio avverso alcune deliberazioni decise dalla maggioranza. L’istituto del recesso nelle società per azioni considera invece ora la possibilità di assecondare la scelta dell’investitore che decida di vendere i propri titoli per ragioni anche diverse ed indipendenti dalle altrui decisioni non condivise, come può avvenire in caso di ottenimento di un profitto ritenuto soddisfacente.
Peraltro, si consideri anche che la visione di cui sopra vale non solamente per il recesso totale, ovvero quello che è propedeutico all’uscita dalla società. Vale invece anche per il socio che intende esercitare un recesso parziale, accedendo alla più ampia gamma di possibili opzioni.
Insomma, con la riforma il legislatore è sembrato interessarsi in senso lato alle esigenze del socio-investitore, e non solo a quelle del socio interessato alla gestione della società, per cui il recesso costituirebbe sostanzialmente la massima espressione del suo dissenso da una scelta della maggioranza.
Ecco dunque che, nella contemporanea accezione, il recesso societario non può più essere considerato come un istituto avente carattere eccezionale.
Un altro tema di cui si parla oggi in relazione alla fattispecie di cui si è occupata la Corte è l’estensibilità o meno del recesso legale ad nutum, previsto per le società per azioni costituite a tempo indeterminato dall’art. 2437, comma 3, c.c., e quello della clausola relativa, con la Corte che in passato ha già stabilito che non sono assimilabili durata indeterminata e durata lunga, non essendo alla seconda vicenda estensibile la fattispecie normativa dettata per la prima.
Il fondamento di tale orientamento, si legge nella pronuncia, nella
necessità di assicurare carattere di certezza e univocità alle informazioni desumibili dalla consultazione degli atti iscritti nel registro delle imprese, senza imporre ai terzi un ‘attività di valutazione e interpretazione delle stesse connotata da un margine di opinabilità e, dunque, dall’esito non concludente, ed esporli ai rischi connessi alla indeterminatezza dei relativi dati
e, in relazione al criterio della durata del progetto imprenditoriale, nella
tendenziale difficoltà di individuare l ‘arco temporale entro il quale l’oggetto sociale può plausibilmente essere conseguito, laddove non consistente in attività suscettibile di ripetizione potenzialmente all’infinito, e, dunque, all’opinabilità e alla conseguente incertezza che il ricorso a un siffatto criterio (così Cass. n. 26060/2022).
Ancora diverso, si legge ancora nella pronuncia, l’ipotesi in cui una delibera assemblare della società per azioni non quotata abbia ridotto il tempo di durata della società statutariamente previsto. Nel caso, la corte territoriale lo aveva ritenuto assimilabile alla durata indeterminata per quanto i relativi ragionamenti fossero estranei alla questione ora all’esame, in cui al creditore non si richiede nessuna previa valutazione circa l’esistenza del diritto di recesso in quanto ancorata alla vita del socio o ad un progetto imprenditoriale più o meno specifico.
Peraltro, per favorire l’accesso della società ai finanziamenti, il legislatore ha assicurato ai potenziali investitori la possibilità di uscire dalla società stessa con facilità. È in tal senso leggibile il fatto che il legislatore abbia inteso slegare il socio dai vincoli e di preservarne l’autonomia negoziale, prevedendo ad esempio il diritto di recesso nelle società contratte a tempo indeterminato.
Il legislatore, poi, attuando la legge delega ha mirato più in generale ad ampliare l’autonomia statutaria in materia di recesso. Dinanzi all’aumento delle ipotesi legali inderogabili ha previsto la novità consistente nel fatto che lo statuto possa prendere in considerazione ulteriori cause di recesso o non prevederne altre, indicate dalla legge ma considerate derogabili.
Il rischio di depatrimonializzazione della società
Di fronte a questa apertura da parte del legislatore a un recesso più facile da parte del socio, la Corte non ha certamente rinunciato nel parlare del rischio di depatrimonializzazione della società insito nel recesso del socio, come da alcune critiche.
In particolare, la Cassazione invita a considerare un duplice rilievo. Da una parte il fatto che il capitale sociale svolge un ruolo meno decisivo rispetto al passato. Si pensi, ad esempio, al ridotto capitale minimo di società per azioni e società a responsabilità limitata. O ancora le il versamento di solo il 25% dei conferimenti in danaro alla sottoscrizione dell’atto costitutivo.
Dall’altro lato, il procedimento stabilito per la liquidazione della partecipazione sociale a seguito del recesso. L’art. 2437 quater c.c. prevede l’offerta in opzione delle azioni agli altri soci. Dunque, in successione, la possibilità di collocarle presso terzi e l’acquisto di azioni proprie mediante le riserve disponibili. Solamente all’esito, sarà convocata l’assemblea straordinaria per deliberare la riduzione del capitale sociale o lo scioglimento della società.
Insomma, il meccanismo disegnato garantisce all’esito dell’esercizio del diritto di recesso che la società pervenga solo come extrema ratio alla riduzione del capitale sociale, laddove si siano già sperimentate diverse opzioni alternative.
Rimane fermo che le scelte statutarie potranno ricercare l’equilibrio tra queste esigenze e la preservazione del capitale sociale. Ad esempio, la società potrà prevedere un termine di preavviso anche superiore ai centottanta giorni. O, ancora, il suo possibile allungamento statutario fino ad un anno, o un termine iniziale di preclusione dell’esercizio del diritto di recesso, sulla falsariga di quanto dispone l’art. 2328, comma 2, n. 13, c.c.
Le valutazioni sul caso di specie
Passando poi al caso di specie, la Corte evidenzia come quanto sopra esposto assuma ulteriori sfumature e conferme proprio nel caso concreto.
Di fatti, come deducibile nel ricorso e come esplicitato nella sentenza oggetto di impugnazione, la clausola fu prevista dai soci ed inserita nello statuto con specifico riguardo all’oggetto ed alla composizione della compagine sociale, considerato che la società vede da un lato una partecipazione di assoluta maggioranza e, dall’altro partecipazioni di minima entità.
Lo statuto ha reputato di attribuire il diritto di recesso, ove la partecipazione nella comune intrapresa ed il perseguimento di quei vantaggi si rivelasse non più conveniente per gli interessi del socio stesso.
Considerato questo specifico oggetto societario, entra qui in considerazione la funzione del recesso ad nutum. L’obiettivo è infatti quello di assicurare ai soci la facoltà di uscita dalla società, se il permanere non più rispondente ai propri interessi.
Di qui, risulta particolarmente lesiva della posizione del socio, senza che possa giustificarlo nessun interesse preteso superiore, la declaratoria di nullità della clausola statutaria. La statuizione viene infatti definita dalla Corte come in grado di arrecare irragionevolmente nel pregiudizio proprio all’affidamento nell’agevole uscita dalla società, implicito presupposto, insieme agli altri caratteri dell’impresa comune, per l’adesione iniziale del socio al contratto sociale.
Alla luce di quanto esposto, la sentenza impugnata viene cassata e viene formulato il seguente principio di diritto:
È lecita la clausola statutaria di una società per azioni che non fa ricorso al mercato del capitale di rischio, la quale, ai sensi dell’art. 2437, comma 4, c.c., preveda, quale ulteriore causa di recesso, la facoltà dei soci di recedere dalla società ad nutum con un termine congruo di preavviso.