Il giudice di lavoro può dichiarare il fallimento societario? – guida rapida
- Il ricorso dell’Inps
- La decisione della Corte
- La verifica dell’assoggettabilità al fallimento
- Lo stato di insolvenza del datore di lavoro
Con sentenza n. 470/2021 la Corte d’Appello di Salerno ha respinto l’appello dell’Inps contro la sentenza del Tribunale di Nocera Inferiore, che aveva accolto la domanda proposta dall’attore volta a ottenere l’intervento del Fondo di Garanzia per il pagamento in suo favore del trattamento di fine rapporto, ex art. 2 della legge n. 297/82, maturato alle dipendenze del datore di lavoro in liquidazione, nei confronti della quale aveva esperito un pignoramento mobiliare negativo.
Secondo il ricorrente, infatti, il patrimonio della società sarebbe per ciò solo risultato incapiente e conseguenzialmente inutile la presentazione di un’istanza di fallimento. La società non sarebbe infatti stata assoggettabile in concreto alla procedura concorsuale.
Il Tribunale riteneva tempestiva l’azione e accoglibile nel merito la domanda, ricorrendone tutti i presupposti;
- sentenza di condanna esecutiva passata in giudicato, avente ad oggetto il TFR,
- precetto
- esistenza di una procedura esecutiva di pignoramento mobiliare, con esito negativo.
La Corte d’Appello, a supporto della propria decisione di rigetto del gravame dell’Inps, dopo aver disatteso l’eccezione di prescrizione del credito per TFR e d’improcedibilità della domanda giudiziaria per mancato esperimento della fase amministrativa davanti al Comitato provinciale previsto ex lege n. 88/89, ha rigettato nel merito l’appello volto a evidenziare che il ricorrente non aveva presentato istanza di fallimento, come presupposto per accedere al Fondo di Garanzia.
Ad avviso della Corte del merito, il lavoratore aveva comunque esperito già una procedura esecutiva individuale nei confronti del datore di lavoro, che aveva avuto esito infruttuoso.
Contro la sentenza della Corte d’Appello, l’Istituto previdenziale ha proposto ricorso in Cassazione, sulla base di due motivi. Il lavoratore non ha invece spiegato difese scritte.
Il ricorso dell’Inps
Con il primo motivo di ricorso l’Inps deduce che la Corte d’Appello avrebbe erroneamente non tenuto conto che ai fini del pagamento del TFR non era sufficiente documentare l’esito di una procedura esecutiva individuale infruttuosa, perché il lavoratore avrebbe dovuto provare che il proprio datore di lavoro insolvente non fosse assoggettabile ad alcuna procedura concorsuale, per non avere i requisiti che consentissero l’apertura di una simile procedura a suo carico.
Con il secondo motivo di ricorso, invece, l’Inps lamenta che la Corte d’Appello non aveva considerato che il lavoratore non aveva fornito la prova che il proprio datore di lavoro inadempiente, non fosse assoggettabile ad alcuna procedura concorsuale.
Per la Corte di Cassazione entrambi i motivi, valutati congiuntamente, sono infondati.
La decisione della Corte sul fallimento
La Corte ricorda che secondo la propria giurisprudenza
in tema di intervento del Fondo di garanzia gestito dall’INPS, il presupposto della non assoggettabilità a fallimento dell’imprenditore, sia in astratto che in concreto, costituisce una tipica questione pregiudiziale in senso logico rispetto alla domanda giudiziale concernente la prestazione previdenziale, che può essere accertata dal giudice adito in via incidentale, ai sensi dell’art. 34 c.p.c., senza che sia necessaria una preventiva verifica da parte del Tribunale fallimentare con il concorso degli altri creditori (Cass. n. 1887/20).
Ora, per risolvere questa controversia, la prima questione è stabilire se per ritenere il datore di lavoro in liquidazione assoggettabile a fallimento (cosa che consentirebbe l’accesso del lavoratore al Fondo di garanzia), questo debba essere stabilito – sulla base dell’esame della documentazione prodotta – dal Tribunale fallimentare con efficacia di giudicato, oppure se può essere deciso incidentalmente, anche dal giudice del lavoro, chiamato a pronunciarsi sulla domanda di intervento del predetto Fondo.
In aggiunta a ciò, bisogna verificare se la procedura esecutiva intrapresa con esito infruttuoso sia sufficiente per far ritenere lo stato di insolvenza della società datrice di lavoro.
La verifica dell’assoggettabilità al fallimento
In relazione al primo profilo la Corte Suprema ricorda che rispetto alla domanda giudiziale concernente la prestazione previdenziale cui è tenuto il Fondo di garanzia la verifica della non assoggettabilità del datore di lavoro alle procedure concorsuali è tipica questione pregiudiziale in senso logico, che nessuna norma di legge impone che debba essere definita con efficacia di giudicato.
Per i giudici, dunque, è una questione che nessuna delle parti del processo potrebbe validamente chiedere che sia decisa con efficacia di giudicato considerato che – svolgendosi la controversia previdenziale tra il lavoratore assicurato e l’ente previdenziale chiamato al pagamento ed essendo il datore di lavoro terzo estraneo a tale vicenda – l’accertamento che in essa dovesse essere compiuto circa la sua non assoggettabilità a fallimento non potrebbe mai far stato nei suoi confronti, in considerazione dei limiti soggettivi del giudicato stesso.
Nella fattispecie, però, l’INPS non ha contestato la bontà dell’accertamento eseguito dal giudice di merito circa la non ricorrenza in concreto delle condizioni per l’assoggettabilità a fallimento della datrice di lavoro dell’odierna controricorrente. Ha invece censurato che a tale accertamento avesse proceduto il giudice adito, piuttosto che il Tribunale fallimentare.
In questi termini, la censura è infondata e deve essere senz’altro rigettata.
Lo stato di insolvenza del datore di lavoro
In riferimento alla seconda questione, ovvero se la procedura esecutiva intrapresa con esito infruttuoso sia sufficiente o meno per far ritenere lo stato di insolvenza della società datrice di lavoro, deve essere evidenziato come il verbale di pignoramento mobiliare negativo sia un “fatto esteriore” sintomatico della circostanza che il debitore non sia in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni, come peraltro ribadito dalla recente Cass. n. 1771/23.