Le sanzioni per la banca che si discosta dal benchmark – indice:
La recente sentenza n. 24/2017 della Prima sezione civile della Corte di Cassazione ha punito un istituto di credito che nella gestione degli investimenti finanziari di un proprio cliente si era discostata eccessivamente dal benchmark stabilito per contratto. Una fattispecie che, secondo i giudici, sarebbe sufficiente per poter integrare l’inadempimento dell’intermediario, dando così origine al diritto al risarcimento del danno subito dall’investitore.
La gestione del rischio
La pronuncia della Suprema Corte depositata pochi giorni fa ribadisce pertanto ulteriormente il concetto di centralità del criterio della gestione del rischio, stabilito consensualmente tra le parti, attribuendo al benchmark il valore di obbligazione di risultato, sovraordinata a tutte le altre pattuizioni relative alla gestione patrimoniale del cliente.
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Il rischio lontano dal benchmark
La vicenda sulla quale si è espressa la Corte di Cassazione è giunta sulle scrivanie degli ermellini sulla base del ricorso di Banca Sella Holding, istituto di credito condannato dalla Corte d’appello di Torino a risarcire i danni che erano stati provocati a due clienti a causa dello scostamento della gestione patrimoniale dai benchmark pattuiti per l’investimento (il 30% della gestione avrebbe dovuto essere investito su un indice di titoli di Stato Jp Morgan Globale in euro, mentre il 70 per cento avrebbe dovuto essere impianto nell’indice mondiale Msci in euro).
Stando alla Corte d’appello, la banca aveva dato seguito a una gestione non coerente con i rischi assunti per via contrattuale. L’istituto preferiva – per un periodo di tempo di almeno sei mesi – la misura azionaria in percentuale superiore in modo ampio rispetto a quella prevista contrattualmente, con caratteristiche di volatilità da classe di rischio 5 invece della congruente classe 4.
Nel suo ricorso, l’istituto di credito sottolineava invece come il benchmark avrebbe dovuto intendersi come “un indicatore statico e solo approssimativo” non presupponendo pertanto l’obbligo da parte del gestore di acquistare titoli “nelle proporzioni indicate”, perchè in questo modo assorbirebbe ogni discrezionalità dell’intermediario nella ottimizzazione dell’investimento.
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Il tribunale di merito aveva tuttavia incaricato il Ctu, che aveva rilevato un significativo scostamento per la durata di almeno per sei mesi, rispetto a quelle che erano state le politiche di investimento concordate. Un comportamento che avrebbe provocato al cliente delle perdite non certo attese sulla base delle linee guida sulle quali avrebbe dovuto ispirarsi la gestione patrimoniale.
Rapporto fra benchmark e discrezionalità dell’istituto
Dopo l’esame di legittimità, la Cassazione ha stabilito che il criterio guida è da ricercare in una “certa discrezionalità dell’intermediario nella valutazione delle operazioni da compiere (ma) tale discrezionalità va coniugata con le linee di gestione scelte e comunque indicate nel contratto”, differenziandosi proprio in ciò la gestione individuale rispetto a quella collettiva. I giudici della Suprema Corte hanno poi evidenziato come il regolamento prescriva come obbligatoria l’indicazione della tipologia di operazioni suscettibili di essere effettuate e la misura massima della leva finanziaria utilizzabile. Pertanto, conclude la Cassazione, “il benchmark rappresenta il termine di paragone per valutare l’operato del gestore” e, quindi, allontanarsi da esso comporta una responsabilità per danni all’esito di una gestione ritenuta non soddisfacente, come nel caso in esame.