Il know-how non è un elemento essenziale del contratto di franchising. A sostenerlo è una recente sentenza della Corte di Cassazione (n. 11256/2018), che va dunque a porsi in contrapposizione con la dottrina maggioritaria, secondo cui il know-how sarebbe un elemento fondamentale del rapporto, e che pertanto il contratto di franchising non potrebbe sussistere in carenza del trasferimento del know-how stesso.
Ma come si è arrivati a tale valutazione? Cerchiamo di scoprirlo ripercorrendo le principali tappe della vicenda su cui gli Ermellini si sono espressi, e esaminiamo le principali motivazioni formulate dalla Suprema Corte.
Nullità del contratto di franchising in assenza di know-how
Il caso comincia con la sentenza n. 2400/13, con la quale il Tribunale accoglie la domanda di un affiliato, dichiarando la nullità del contratto di affiliazione-collaborazione avente ad oggetto la locazione dell’azienda-bar, per indeterminatezza dell’oggetto, avuto riguardo al know-how che la società si era impegnata a trasferire, a fronte del pagamento, da parte dell’affiliata, quale corrispettivo per il diritto di entrata e di apprendimento.
La società affiliante propone dunque ricorso alla Corte d’Appello, dove però l’accoglimento è solo parziale, ed è consistente in una riduzione del quantum condannatorio, e alla conferma – per il resto – della sentenza impugnata. Di qui, il ricorso in Cassazione.
Franchising valido anche senza trasferimento del know-how
Esaminando i motivi di impugnazione della sentenza di secondo grado, la Cassazione giunge alle sue conclusioni, esprimendosi sull’accessorietà o sull’essenzialità del know-how del contratto di affiliazione commerciale.
In particolare, la Corte riepiloga innanzitutto come il tema sia ben complesso, poiché vi è
da un lato, la pretesa assoluta mancanza di determinazione del contenuto del know-how in contratto, che renderebbe nulla la relativa clausola; dall’altro, la natura di contenuto accessorio del know-how rispetto al contratto di franchising, che potrebbe quindi sussistere anche senza detto elemento.
Proprio iniziando da questo ultimo profilo, sostiene la Suprema Corte ricordando che il contratto in questione è un rapporto di affiliazione commerciale e che come tale è soggetto alla disciplina di cui alla legge n. 129/2004,
occorre muovere dalla definizione normativa contenuta dall’art. 1, comma 3, lett. a) della detta legge, secondo cui si intende “per know-how, un patrimonio di conoscenze pratiche non brevettate derivanti da esperienze e da prove eseguite dall’affiliante, patrimonio che è segreto, sostanziale ed individuato.
Partendo da ciò, si giunge ad affermare che il requisito del know-how, ai fini della stipula del contratto di franchising, non è elemento indefettibile, considerato che la stessa legge, all’art. 1 comma 1 chiarisce che:
L’affiliazione commerciale (franchising) è il contratto, comunque denominato, fra due soggetti giuridici, economicamente e giuridicamente indipendenti, in base al quale una parte concede la disponibilità all’altra, verso corrispettivo, di un insieme di diritti di proprietà industriale o intellettuale relativi a marchi, denominazioni commerciali, insegne, modelli di utilità, disegni, diritti di autore, know-how, brevetti, assistenza o consulenza tecnica e commerciale, inserendo l’affiliato in un sistema costituito da una pluralità di affiliati distribuiti sul territorio, allo scopo di commercializzare determinati beni o servizi.
Sulla base di tale disposto normativo, pertanto, ne deriva che il contratto di affiliazione commerciale non deve necessariamente riguardare in maniera cumulativa tutti gli aspetti che possono essere regolati dalla norma, poiché rileva solo la concessione dall’affiliante all’affiliato, della disponibilità di un insieme di diritti di proprietà industriale o intellettuale, che possano favorire l’inserimento dell’affiliato nell’impresa, in una rete territoriale riferibile all’affiliante e composta da una pluralità di altri affiliati, con l’obiettivo di commercializzare determinati beni o servizi.
Valutato ciò, la Corte rammenta come possa ben configurarsi un contratto di franchising privo della clausola che concerne la trasmissione del know-how dal franchisor (affiliante) al franchisee (affiliato). Di contro, gli stessi giudici ricordano come l’orientamento contrario, sostenuto dalla dottrina maggioritaria, ritenesse il know-how un elemento indefettibile del contratto di affiliazione commerciale: una posizione che per gli Ermellini non tiene tuttavia in considerazione del già citato art. 1. comma 1, che non prevede tale indefettibilità. Né, tanto meno, tale indefettibilità può ricavarsi dall’art. 3, comma 4, lett. d) della stessa legge n. 129/2004, sulla base del quale il contratto deve indicare “la specificità del know-how fornito dall’affiliante all’affiliato”.
Per i giudici questa previsione normativa non può far assurgere il requisito in discorso ad elemento essenziale del tipo, ma solamente a disciplinare il contenuto della relativa clausola, qualora prevista in contratto. Del resto, aggiunge poi la Corte,
la tesi in discorso – fondamentalmente basata su una ricognizione dell’id quod plerumque accidit, avuto riguardo al mondo in cui il franchising s’è affermato nella prassi commerciale (nel senso, cioè, che di norma il contratto in discorso prevede la trasmissione del know-how), nonché sulla definizione contenuta nell’ormai abrogato Reg. CEE n. 4087/88 (che attribuiva invece al know-how vero e proprio carattere strutturale del negozio) – non considera adeguatamente lo sviluppo diacronico dell’istituto, specie a seguito della sua tipizzazione ad opera della ripetuta legge n. 129 del 2004, dalla cui definizione non può ovviamente prescindersi.
Posto ciò sul piano generale, motiva ancora la corte, risulta evidente come nel momento in cui le parti (concludendo un contratto di franchising) fanno espresso riferimento ad istituti caratteristici di questo tipo, quale il diritto di entrata il know-how, affermare che la relativa clausola contrattuale non sia specifica, o che in realtà avessero inteso qualcosa di diverso rispetto al nomen utilizzato, implica la necessità di confrontarsi con le norme in tema di interpretazione del contratto, e con i relativi limiti entro i quali ne è possibile la denuncia in sede di legittimità, noto essendo che:
La parte che, con il ricorso per Cassazione, intenda denunciare un errore di diritto o un vizio di ragionamento nell’interpretazione di una clausola contrattuale, non può limitarsi a richiamare le regole di cui agli artt. 1362 e ss. c.c., avendo invece l’onere di specificare i canoni che in concreto assuma violati, e in particolar modo il punto e il modo in cui il giudice di merito si sia dagli stessi discostato, non potendo le censure risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, poiché quest’ultima non deve essere l’unica astrattamente possibile, ma solo una delle plausibili interpretazioni, sicchè, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra (Cass. n. 28319/2017).