Il risarcimento danno per nascita non desiderata – indice:
- Nascita non desiderata
- Insussistenza danno morale
- Volontà abortiva
- Risarcimento danno non patrimoniale
- Duplicazione del danno
- Quantificazione del danno biologico
- Danno psichico
- Danno alla persona
- Misura invalidità temporanea
- Risarcimento danno patrimoniale
- Perdita capacità lavorativa
Ipotizzare un risarcimento del danno non patrimoniale che consegue alla lesione di interessi costituzionalmente protetti non è seempre facile. E, per poterlo efficacemente effettuare, il giudice non potrà che valutare sul piano della prova, sia il danno in re ipsa, sia l’impatto che il pregiudizio determina sulla vita quotidiana del danneggiato.
Così introducendo, ne deriva che il danno risarcibile sarà (anche) la sofferenza patita dal danneggiato conseguente alla lesione di un diritto tutelato costituzionalmente, che può concretizzarsi sia come danno biologico, che come danno dinamico relazionale. Ma con quali profili di risarcimento autonomo?
Nascita non desiderata
Per poter ricostruire le interessanti valutazioni della Suprema Corte con sentenza n. 19151/2018, giova rammentare brevemente il caso su cui gli Ermellini si sono espressi, a cominciare dalla sintesi del primo grado di giudizio.
In tale sede, infatti, il tribunale dichiarava solidamente responsabili il medico curante e la struttura sanitaria in cui il medico esercitava la propria professione, per il danno morale, biologico e patrimoniale che viene determinato dalla nascita non desiderata di una bimba affetta da sindrome di Down, dopo che il medico si era rifiutato di svolgere esami e test prenatali sulla gestante a causa del “cerchiaggio” che le era stato praticato, a causa del quale il medico aveva sconsigliato ogni pratica invasiva sul feto.
Sia il medico che la struttura sanitaria condannati impugnavano la sentenza, con la madre della bimba che invece svolgeva appello incidentale. La Corte d’appello confermava la sentenza sulla tutela del diritto, e sull’assunto che le insistenti richieste della madre, rivolte al medico curante, di effettuare test clinici sul nascituro, sono rimaste del tutto inascoltate, e fossero sufficientemente sintomatiche dell’intento di abortire nel caso in cui fosse stata riscontrata una grave anomalia nel feto, sussistendo le condizioni legittimanti l’interruzione di gravidanza.
Insussistenza del danno morale
La Corte d’appello accertava tuttavia in misura minore il danno biologico e patrimoniale conseguente alla omessa effettuazione di test diagnostici richiesti durante la gravidanza al proprio medico curante e, inoltre, negava la sussistenza del danno morale riconosciuto dal Tribunale come ulteriore voce di danno alla persona, intendendolo assorbito nel danno biologico, di tipo psichico e permanente, riconosciuto nella misura del 20% alla madre.
A margine di ciò, la sentenza dei giudici di appello assegnava quindi alla madre della bimba nata con sindrome di Down non diagnosticata 1/3 del danno biologico accertato nella misura del 20%, con punto d’inabilità permanente valutato secondo le tabelle milanesi e aumentato fino al massimo. L’assunto in sede d’appello è che gli altri due terzi di danno biologico, di tipo psichico, hanno cause diverse da quelle inerenti allo stress da nascita indesiderata, “essendo collegati allo stress da lunghezza del processo e alla pregressa condizione di compromissione psichica della madre, diagnosticata come soggetto distimico”.
Dunque, la Corte d’appello riconosceva sì il danno, ma nei limiti di 1/3 del danno biologico accertato; per quanto riguarda il danno patrimoniale, la Corte seguiva la stessa logica per la liquidazione del danno, riconoscendone la quota di 1/3. Riteneva inoltre non dovuto il danno morale, in considerazione del riconoscimento del danno biologico. La donna ricorre dunque in Cassazione.
Volontà abortiva
Nella complessa serie di motivazioni espresse dai giudici della Suprema Corte, trova in primo luogo chiarezza l’accertamento del fatto che la volontà abortiva della donna fosse ben desumibile dalle insistenti richieste della gestante, all’epoca trentaseienne, di effettuare una diagnosi prenatale, rifiutate dal medico curante a causa del c.d. cerchiaggio praticato come terapia antiabortiva, e dalle statistiche sul ricorso a interruzione in caso di feti malformati che mostrano un’alta percentuale di richieste di interruzione della gravidanza in caso di preventiva conoscenza di malformazioni di tal tipo.
La Corte richiama su questo punto il proprio precedente orientamento in tema di responsabilità medica da nascita indesiderata, per il quale il genitore che agisce per il risarcimento del danno ha l’onere di provare che la madre avrebbe esercitato la facoltà d’interrompere la gravidanza, ricorrendone le condizioni di legge, ove fosse stata tempestivamente informata dell’anomalia fetale.
Per i giudici, l’onere può essere assolto tramite presunzione, in base a inferenze desumibili dagli elementi di prova, quali il ricorso al consulto medico proprio per conoscere lo stato di salute del nascituro, le precarie condizioni psico-fisiche della gestante o le sue pregresse manifestazioni di pensiero propense all’opzione abortiva gravando sul medico la prova contraria, che la donna non si sarebbe determinata all’aborto per qualsivoglia ragione personale. Nel caso in esame non sussisterebbe una violazione degli oneri probatori.
Risarcimento danno non patrimoniale
In tema di risarcimento del danno non patrimoniale, che consegue alla lesione di interessi costituzionalmente tutelati, la Suprema Corte rammenta come il giudice di merito, dopo aver identificato la situazione soggettiva protetta a livello costituzionale, debba rigorosamente valutare, sul piano della prova, tanto l’aspetto interiore del danno (c.d. danno morale), quanto il suo impatto modificativo in pejus con la vita quotidiana (il danno c.d. esistenziale, o danno alla vita di relazione, da intendersi quale danno dinamico-relazionale).
Gli Ermellini sottolineano infatti che l’oggetto dell’accertamento e della quantificazione del danno risarcibile è la sofferenza umana conseguente alla lesione di un diritto costituzionalmente protetto. E che questa, nella sua realtà naturalistica, si può connotare in concreto di entrambi tali aspetti essenziali.
Gli aspetti essenziali di cui sopra costituiscono dunque danni diversi e, dunque, autonomamente risarcibili. Tuttavia, la risarcibilità è perseguibile solo se i danni sono provati caso per caso con tutti i mezzi di prova normativamente previsti.
Duplicazione del danno
Conseguentemente a quanto sopra, costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione del “danno biologico” e del “danno dinamico relazionale“. Con quest’ultimo, infatti, si individuano pregiudizi di cui è già espressione il grado percentuale di invalidità permanente. Si pensi, in tal senso, i pregiudizi alle attività quotidiane, personali e relazionali, indefettibilmente dipendenti dalla perdita anatomica o funzionale.
Di contro, costituisce invece duplicazione del danno la congiunta attribuzione del “danno biologico” e di una ulteriore somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi che non hanno fondamento medico-legale. In questo caso, infatti, non avendo base organica ed essendo estranei alla determinazione medico-legale del grado di percentuale di invalidità permanente, sono ben riconducibili alla sofferenza interiore. Anche in questo caso, si pensi agli esempi citati: dolore dell’animo, vergogna, disistima di sé, paura, disperazione.
A margine di quanto sopra, ne deriva che se viene dedotta e provata l’esistenza di uno di tali pregiudizi non aventi base medico-legale, essi dovranno formare oggetto di separata valutazione e liquidazione.
Quantificazione del danno biologico
Nel ricorso viene altresì criticata la quantificazione pari a un terzo del danno biologico permanente, derivante da lesione nella sfera psichica, operata – come abbiamo visto – dalla Corte di merito.
In sede di appello i giudici hanno tenuto conto di diverse concause non collegate all’evento lesivo direttamente imputabile al medico, quanto alla fragile struttura psichica della vittima della lesione.
Il giudice a quo ha valutato dapprima il danno psichico, pari al 20% di danno biologico, in relazione all’età della persona e lo ha personalizzato secondo i valori indicati dalle tabelle milanesi, correntemente in uso dai giudici di merito per tradurre in termini monetari il risarcimento del danno, non determinabile in un preciso ammontare secondo il criterio equitativo ex art. 1226 cod. civ., aumentando il c.d. “valore punto” fino al massimo in relazione alla particolare sofferenza inferta dall’evento subìto, e quindi ha operato una scomposizione del danno in tre parti, riconoscendone la misura di 1/3.
Per la Cassazione, il motivo è fondato, nei limiti di cui si dirà.
Danno psichico
La Corte osserva infatti che il danno psichico è soggettivo e può acquisire una diversa dimensione a seconda del soggetto su cui incide.
In materia di nesso di causalità nella responsabilità civile, se le condizioni ambientali o i fattori naturali che caratterizzano la realtà fisica su cui incide il comportamento imputabile all’uomo sono sufficienti a determinare l’evento di danno indipendentemente dal comportamento medesimo, l’autore dell’azione o della omissione resta sollevato, per intero, da ogni responsabilità dell’evento, non avendo posto in essere alcun antecedente dotato in concreto di efficienza causale.
Se invece quelle condizioni non possano dar luogo, senza l’apporto umano, all’evento di danno, l’autore del comportamento imputabile è responsabile per intero di tutte le conseguenze da esso scaturenti secondo un criterio di normalità, non potendo, in tal caso, operarsi una riduzione proporzionale in ragione della minore gravità della sua colpa, in quanto una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non tra una causa umana imputabile ed una concausa naturale non imputabile.
Ne consegue che “ai fini della configurabilità del nesso causale tra un fatto illecito ed un danno di natura psichica non è necessario che quest’ultimo si prospetti come conseguenza certa ed inequivoca dell’evento traumatico, ma è sufficiente che la derivazione causale del primo dal secondo possa affermarsi in base ad un criterio di elevata probabilità, e che non sia stato provato l’intervento di un fattore successivo tale da disconnettere la sequenza causale così accertata”.
Danno alla persona
Prendendo spunto da quanto sopra, e giungendo alle definitive motivazioni, la Corte sottolinea come la ricorrente sia risultata menomata nella sua sfera psichica in ragione dell’evento lesivo riconducibile all’operato del medico. E come, per più fattori non autonomamente concorrenti, tale lesione non le ha permesso di rielaborare psicologicamente il fallimento dato da una nascita indesiderata, di reggere la lunghezza e complessità di un accertamento giudiziale di un evento lesivo interferente nella sua vita personale di donna, moglie e madre, e di sopportare il peso di una vita sociale compressa e dedicata esclusivamente a una figlia diversamente abile che non sarà mai in grado di diventare autonoma.
Quanto è stata accertata è dunque la misura del danno alla persona eziologicamente collegato all’evento lesivo. E proprio a tale aspetto la Corte d’appello avrebbe dovuto attenersi, senza operare operazioni di scomposizione matematica in base alle diverse concause concomitanti o successive che lo hanno ipoteticamente determinato. Concause che, concludono gli Ermellini, non risultano avere avuto una incidenza autonoma e indipendente sul danno complessivamente ricevuto.
Misura dell’invalidità temporanea
Per quanto poi concerne la misura di invalidità temporanea non accolta, risulterebbe dagli atti che la Corte ha rigettato la domanda per mancanza di specifica prova. E che pertanto tale giudizio è insindacabile sotto il profilo di violazione di legge dedotto.
Risarcimento danno patrimoniale
Riepilogando, la Corte d’appello ha suddiviso in tre parti il danno patrimoniale, calcolato in prospettiva delle spese da affrontare per le cure e per il mantenimento della figlia diversamente abile e affetta da gravi patologie. Così facendo, non ha fornito una ragionevole e condivisibile motivazione, riconoscendone anche in tal caso solo la misura di 1/3.
Per gli Ermellini, tale scomposizione è priva di ogni logica. Si tratta infatti di un danno patrimoniale riconducile alla nascita non voluta, che vale nella sua entità oggettiva di doversi la madre occupare a vita di un soggetto diversamente abile e di doverne affrontare gli oneri economici prevedibili e conseguenti. Dunque, viene definita “illogica” e “immotivata” la riduzione sino a un terzo.
Perdita di capacità lavorativa
Infine, si tenga conto come non si sia correttamente tenuto conto, in sede di merito, della perdita di capacità lavorativa generica accertata con CTU.
Anche per gli Ermellini l’operato della Corte d’appello è corretto. Per i giudici di legittimità il danno patrimoniale sarebbe risarcibile solo se sia riscontrabile la eliminazione o la riduzione della capacità del danneggiato di produrre reddito.
Di contro, se il danno è da lesione della “cenestesi lavorativa” – ovvero nella maggiore usura, fatica e difficoltà incontrate nello svolgimento dell’attività lavorativa – tale non è incidente sotto il profilo delle opportunità sul reddito della persona offesa. In questo caso, infatti, si risolverebbe in una compromissione biologica dell’essenza dell’individuo. E in questo modo sarebbe liquidabile in via onnicomprensiva come danno alla salute.
Il giudice che abbia adottato per la liquidazione il criterio equitativo del valore differenziato del punto di invalidità, può dunque anche ricorrere ad un appesantimento del valore monetario di ciascun punto. Non è invece consentito il ricorso al parametro del reddito percepito dal soggetto leso.
Dunque, la perdita della capacità lavorativa generica può essere valutato come danno biologico.