Accesso abusivo alla chat del partner – indice
Negli ultimi giorni ci siamo occupati lungamente dell’accesso abusivo a sistema informatico o telematico, cercando di ipotizzarne alcune fattispecie di reato.
Ebbene, l’occasione ci è ora fornita dalla recente sentenza Cass. V pen. n. 34141/2019, che si è occupata del tema, in relazione all’accesso alla chat del partner.
In particolare, i giudici della Suprema Corte si sono pronunciati sulla vicenda di un uomo accusato di accesso abusivo al profilo Skype della moglie, e violazione di corrispondenza. L’uomo era alla ricerca di prove del tradimento, e il fatto che il profilo fosse già aperto sul computer presente in luogo comune della casa non è stata motivazione sufficiente a far decadere i giudici dalla volontà di configurare il reato.
La norma, come abbiamo avuto modo di commentare pochi giorni fa, punisce non solamente la condotta di chi si introduce nel sistema informatico o telematico, quanto anche chi si mantiene contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo. Inoltre, aggiungono i giudici della Suprema Corte, anche se la password era salvata al momento dell’accesso abusivo, il sistema informatico era comunque munito di misure di sicurezza.
La vicenda processuale
Per comprendere le motivazioni che hanno condotto i giudici in una simile valutazione, cerchiamo di ricostruire brevemente il caso.
Un uomo, dopo essere entrato sul profilo Skype della moglie, aveva stampato le chat di quest’ultima con il presunto amante. L’intenzione – cosa che, effettivamente, si è poi verificata – era quella di usare tale materiale nel procedimento di separazione con la donna.
Dinanzi alle contestazioni del partner, l’imputato evidenziava come il computer fosse già aperto su Skype. E come, peraltro, le chat fossero comparse sul monitor dopo aver urtato per sbaglio il tavolo sul quale si trovava il computer della persona offesa.
Entrambi i gradi di merito assolvono l’uomo. Ma, in Cassazione, la vicenda viene interpretata in maniera differente, con i giudici che accolgono la posizione della donna. L’ex moglie, infatti, indicava l’erronea applicazione dell’art. 615-ter c.p., trattandosi di norma che punisce non solamente l’accesso abusivo a un sistema informatico, ma anche il mantenimento nello stesso contro la volontà del titolare.
Da tale spunto, il fatto che tutte le circostanze dedotte dall’imputato siano inconferenti. Rileva infatti unicamente il comportamento dell’uomo, trattenutosi all’interno del sistema protetto da misure di sicurezza, navigando nel profilo Skype della ricorrente, leggendo e stampando le pagine con le conversazioni, pur non essendo autorizzato a farlo e, anzi, nella piena consapevolezza della contrarietà della moglie.
Illecito mantenimento nel sistema informatico
Come anticipato nelle righe precedenti, gli Ermellini hanno accolto le posizioni dei legali della donna, criticando l’operato della Corte territoriale.
I giudici della Suprema Corte si soffermano infatti sul fatto che, indipendentemente dall’aver trovato già “aperta” la chat, in computer posizionato su luogo comune, i giudici di merito non si siano soffermati sulla condotta di illecito mantenimento nel sistema informatico. La quale, ben inteso, può perfezionarsi anche nell’ipotesi in cui l’introduzione nello stesso non sia avvenuta in modo voluto, ma del tutto casuale.
Di qui una evidente carenza di motivazione della sentenza impugnata. I giudici della Corte territoriale avrebbero mancato di ravvisare, nella condotta dell’imputato, l’illecito mantenimento nel sistema informatico.
Ricordiamo infatti che l’art. 615-ter c.p. al primo comma sancisce che:
Chiunque abusivamente si introduce in un sistema informatico o telematico protetto da misure di sicurezza ovvero vi si mantiene contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo, è punito con la reclusione fino a tre anni.
Peraltro, proseguono gli stessi Ermellini, il fatto che la persona offesa avesse registrato la password per non doverla riscrivere in occasione di ogni accesso, non esclude certamente il fatto che il sistema informatico in questione non fosse sufficientemente munito di misure di sicurezza a protezione di intrusi.
Ancora, secondo quanto afferma la stessa giurisprudenza di legittimità, non rileva nemmeno la circostanza che le chiavi di accesso al sistema informatico protetto siano state comunicate all’autore del reato, in epoca antecedente rispetto all’accesso abusivo, dallo stesso titolare delle credenziali, se la condotta incriminata ha portato a un risultato in contrasto con la volontà della persona offesa, e esorbitante l’eventuale ambito autorizzatorio.
L’esistenza di una “giusta causa”
Infine, i giudici di Cassazione si esprimono altresì sulla presenza di una giusta causa, ritenuta sussistente dai giudici della Corte territoriale. I giudici di merito affermano che l’imputato non aveva deciso di divulgare le conversazioni e le foto intime e compromettenti della moglie. Si era invece limitato a diffonderle in sede di separazione, con la finalità di ottenere l’addebito della controparte.
Il riferimento alla giusta causa, tale è così espressa ex art. 616 c.p.:
Chiunque prende cognizione del contenuto di una corrispondenza chiusa, a lui non diretta, ovvero sottrae o distrae, al fine di prenderne o di farne da altri prender cognizione, una corrispondenza chiusa o aperta, a lui non diretta, ovvero, in tutto o in parte, la distrugge o sopprime, è punito, se il fatto non è preveduto come reato da altra disposizione di legge, con la reclusione fino a un anno o con la multa da trenta euro a cinquecentosedici euro.
Se il colpevole, senza giusta causa, rivela, in tutto o in parte, il contenuto della corrispondenza, è punito, se dal fatto deriva nocumento ed il fatto medesimo non costituisce un più grave reato, con la reclusione fino a tre anni.
Ebbene, per i giudici di Cassazione la nozione di cui sopra è stata delineata dai giudici in appello in termini astrattizzanti. I quali, in buona sostanza, sono correlati solo allo scopo perseguito, che è l’uso nel giudizio civile di separazione tra coniugi.
Mancherebbe invece, conclude la Suprema Corte, ogni valutazione sul mezzo usato per portare a conoscenza la corrispondenza telematica.
Conclusioni
Sotto tale profilo, proseguono le motivazioni della sentenza in esame, il vizio rilevato in relazione al capo concernente l’abusivo accesso al sistema informatico si riflette anche sulla valutazione in merito alla giusta causa.
In conclusione di quanto sopra, la sentenza viene annullata con rinvio al giudice territoriale competente per valore, in grado di appello.
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