Limite possesso di animali domestici – guida rapida
- I fatti
- La Corte d’appello
- La competenza del giudice di pace
- Il numero massimo di cani
- La motivazione del giudice
- Il risarcimento del danno non patrimoniale
C’è un limite agli animali domestici che si possono tenere in casa? La risposta è positiva e la recente ordinanza n. 1823/2023 da parte della Corte di Cassazione sembra confermarlo, ribadendo le conclusioni cui era già giunto il giudice di secondo grado, che condannava alcune persone a risarcire il danno causato ai vicini dai rumori e dai cattivi odori che erano causati dai numerosi cani e gatti posseduti in giardino.
Insomma, se è vero che l’art. 1138 c.c. stabilisce che una norma del regolamento condominiale non può certo vietare il possesso di animali domestici da compagnia, è anche vero che la loro presenza può determinare dei disagi di varia natura su cui il giudice è spesso chiamato a intervenire.
I fatti: animali domestici e abitazioni
Come sempre, cerchiamo di riassumere quanto accaduto partendo da una breve ricostruzione dei fatti. Per far ciò, riepiloghiamo come la causa sia partita dalle lamentele di un gruppo di proprietari delle abitazioni site in un condominio che confinava con un fabbricato e con un terreno di proprietà degli eredi dell’originario proprietario. Le lamentele erano riconducibili alla sussistenza di rumori e di cattivi odori provenienti da tale fabbricato, determinati a sua volta dalla presenza di un numero considerevole di cani e gatti che qui gli eredi custodivano.
I giudici di prime cure avevano accolto il ricorso, ordinando agli eredi di allontanare i cani da tale abitazione, riducendone il numero a non più di quattro unità, e ordinando subito di provvedere alla bonifica del giardino.
Il reclamo degli eredi permetteva tuttavia di dichiarare nulla tale ordinanza. Veniva così proposto un nuovo ricorso ex articolo 700 c.p.c., accolto dal Tribunale che ordinava agli eredi di ridurre ad un massimo di sei unità il numero dei cani ospitati nel fabbricato. Il conseguente reclamo veniva rigettato e gli stessi attori citavano in giudizio gli eredi domandando la conferma di quanto disposto in sede cautelare e la condanna al risarcimento dei danni alla salute e morali patiti dagli attori.
Gli eredi si costituivano dunque in giudizio ed eccepivano il difetto di competenza del Tribunale in favore del giudice di pace e concludevano per il rigetto della domanda.
La Corte d’appello
Giunta in appello, i giudici di seconde cure rigettavano l’appello degli eredi e confermavano la sentenza del Tribunale di primo grado, rigettando in primo luogo l’eccezione di incompetenza per materia già eccepita in primo grado e ritualmente riproposta in appello quale motivo di impugnazione.
Per la Corte d’Appello, infatti, la domanda giudiziale aveva ad oggetto un’immissione che non poteva dirsi generata da un ordinario uso per civile abitazione dell’immobile. L’immobile è di fatto adibito a ricovero per cani, considerato l’elevato numero di cani custoditi. Una destinazione idonea a radicare la competenza del Tribunale, a nulla rilevando il carattere non commerciale dell’attività.
Ancora, la Corte d’appello confermava la statuizione circa il superamento della tollerabilità delle immissioni del giudice di primo grado, su fondamento delle caratteristiche dei luoghi, sui fatti di causa e sulle nozioni di comune esperienza che erano avvalorate dalle deposizioni dei testimoni escussi, i quali avevano riferito di un continuo e assordante latrare proveniente dal fondo.
Ulteriormente, la Corte d’appello rigettava anche il gravame sulla non risarcibilità del danno non patrimoniale, consistente nella modifica delle abitudini di vita dei danneggiati in quanto il danno non patrimoniale che conseguiva ad immissioni illecite doveva ritenersi risarcibile indipendentemente dalla sussistenza di un danno biologico documento. È infatti riferibile alla lesione del diritto al normale svolgimento della vita personale e familiare all’interno di un’abitazione e, comunque, del diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita.
Per quanto poi concerne la contestazione dell’entità del risarcimento, non vi era motivo d’appello sul punto. La contestazione era dunque avvenuta solamente con comparsa conclusionale, tardivamente. Infine, la limitazione a un numero di cani pari a sei era ritenuta ragionevole, considerato il bilanciamento degli interessi opposti delle parti.
Gli eredi hanno dunque proposto ricorso per Cassazione.
Animali domestici e immissioni: la competenza del giudice di pace
Per la ricorrente la competenza della causa era del giudice di pace. Non si poteva dunque intendere alla stregua di un’attività commerciale o professionale la detenzione dei cani, di proprietà della parte ricorrente, regolarmente iscritti all’anagrafe canina, municipi di microchip identificativi.
La competenza del tribunale sussisterebbe infatti solamente per le emissioni che provengono da locali utilizzati per attività industriale, commerciale, artigianale o turistica, dovendosi contemperare le ragioni della produzione con quelle della proprietà. Peraltro, nessuna norma sembra imporre un limite numerico agli animali da affezione da possedere da parte del privato. Pertanto, per la parte ricorrente non dovrebbe ritenersi, come invece ha fatto la Corte d’appello, che il numero degli animali d’affezione detenuto si possa tradurre in un’attività di custodia e di cura degli animali che è tipica dei centri di ricovero autorizzati.
Per la Cassazione, però, questo motivo di ricorso è infondato. Di fatti, l’art. 7, comma terzo, n. 3 c.p.c. attribuisce alla competenza del giudice di pace le controversie sui rapporti tra proprietari e detentori di immobili adibiti a civile abitazione in materia di immissioni (fumo, calore, rumori, ecc.) che superino la normale tollerabilità.
Le cause tra proprietari e detentori di immobili ad uso abitativo
La competenza ex art. 7 c.p.c. è tassativamente circoscritta alle cause tra proprietari e detentori di immobili ad uso abitativo. Al di fuori di tali ipotesi, rivivono i criteri ordinari di competenza.
Come sottolineato in dottrina, e richiamato nelle motivazioni della sentenza, la norma processuale non copre infatti l’intero ambito dell’art 844 c.c. e non comprende dunque le controversie sulle immissioni provenienti da impianti industriali, agricoli o commerciali. È devoluta al giudice di pace la cognizione delle controversie sui rapporti di vicinato, ad esclusione di quelle che necessitano un bilanciamento della produzione con le ragioni della proprietà.
Pertanto, se sul piano oggettivo è decisiva la provenienza delle immissioni dall’utilizzo di immobili destinati ad abitazione civile, bisogna tenere conto della natura delle attività che vengono nel concreto svolte e della particolare fonte da cui provengono i disturbi. Se l’immobile, seppure a prevalente destinazione abitativa, sia utilizzato anche per scopi differenti, e le relative attività siano all’origine delle immissioni illecite, allora bisognerà dare rilievo alla destinazione prevalente dell’immobile e alla fonte dei fenomeni denunciati. Se questi sono dedotti come effetto di attività non connesse all’uso dell’immobile come abitazione civile da parte degli occupanti, sarà dunque esclusa l’applicazione ex art. 7 comma terzo n. 3 c.p.c.
Ora, in questo caso la Corte d’appello ha motivato il fatto che la domanda avesse come oggetto un’immissione che non poteva dirsi generata da un uso ordinario dell’abitazione civile. La casa era infatti sostanzialmente adibita a ricovero per cani, considerato proprio l’elevato numero di esemplari qui custoditi.
Tale destinazione dell’immobile, consistendo di fatto in un’attività di custodia e di cura degli animali, poteva pertanto radicare la competenza del Tribunale, non potendo ricorrere alla competenza stabilita ex art. 7 comma terzo n. 3 c.p.c. A nulla rileva il carattere non commerciale dell’attività.
Il numero massimo di animali domestici all’interno delle case
Tra gli altri motivi di maggiore interesse in questa sede di commento, spicca il sesto, per error in giudicando per violazione dell’art. 844 c.c.
In particolare, per il ricorrente la sentenza sarebbe erronea nella parte in cui conferma quella di primo grado limitando a sei il numero massimo di cani da detenere all’interno dell’abitazione e al fondo annesso.
La censura riguarda in modo più specifico la parte della sentenza che conferma la limitazione dei cani detenibili senza il ricorso ad altre misure o accorgimenti che avrebbero potuto assicurare il temperamento tra i diversi interessi e diritti, e tenendo conto anche dello spazio a disposizione del ricorrente.
Tuttavia, questo motivo è, per la Corte di Cassazione, infondato.
In proposito, i giudici della Suprema Corte richiamano l’orientamento consolidato della stessa Cassazione secondo cui la domanda di cessazione delle immissioni che superano la normale tollerabilità non vincola necessariamente il giudice ad adottare una misura determinata. Può infatti il giudice ordinare l’attuazione di quegli accorgimenti che siano concretamente idonei a eliminare la situazione di pregiudizio.
In altre parole, il limite di tollerabilità delle immissioni non ha alcun carattere assoluto. È invece relativo alla situazione ambientale che, come tale, varia da luogo a luogo, a seconda delle caratteristiche della zona e delle abitudini degli abitanti. Spetterà dunque al giudice di merito accertare nel concreto il superamento della normale tollerabilità. E spetterà sempre al giudice individuare gli accorgimenti idonei a ricondurre le immissioni nell’ambito della stessa.
La motivazione del giudice
Un altro motivo di ricorso ha riguardato la violazione dell’art. 112 c.p.c., sulla mancata di motivazione in ordine ai rilievi del ricorrente svolti con l’appello sulla mancanza di adeguata motivazione nella scelta del primo giudice di disporre l’allontanamento dei cani.
Il motivo è però inammissibile. Il ricorrente lamenta infatti l’omesso esame di un motivo di appello, senza riportare il contenuto della censura proposta con il mezzo di gravame. Ancora, la Corte sottolinea come non ricorra il vizio di omessa pronuncia se la decisione adottata comporta una statuizione implicita di rigetto della domanda o eccezione formulata dalla parte, dovendo invece ravvisarsi una statuizione implicita di rigetto se la pretesa avanzata con il capo di domanda non espressamente esaminato risulta incompatibile con l’impostazione logico-giuridica della pronuncia.
Analogamente, prosegue la sentenza, non si configura il vizio di omessa pronuncia, pur in difetto di un’espressa statuizione da parte del giudice in ordine ad un motivo di impugnazione, se la decisione adottata comporta necessariamente la reiezione di tale motivo, dovendosi ritenere che tale vizio sussista solo nel caso in cui sia stata completamente omessa una decisione su di un punto che si palesi indispensabile per la soluzione del caso concreto.
Il risarcimento del danno non patrimoniale
L’ottavo motivo di ricorso riguarda il risarcimento del danno non patrimoniale che viene riconosciuto anche se il motivo di appello conteneva implicitamente la contestazione del quantum.
In altre parole, secondo il ricorrente la censura riguardava la condanna al risarcimento del danno in difetto di prova, e comprendeva anche la censura sulla quantificazione del danno.
Anche questo motivo, per i giudici della Suprema Corte, è però inammissibile. La censura viene ritenuta infatti generica, senza riferimento concreto alle contestazioni svolte nel giudizio di merito rispetto alla quantificazione del danno e alla motivazione del giudice di primo grado. La Cassazione sottolinea infatti come il ricorrente si sia limitato a indicare l’erroneo utilizzo del criterio equitativo ex art. 1226 c.c. rispetto alla liquidazione stimata a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale in favore di ognuno degli attori, operata dal tribunale e poi confermata dalla Corte d’appello.
Nella sentenza oggetto di impugnazione, peraltro, si legge come il tribunale avesse condannato il ricorrente al pagamento di una somma a titolo di risarcimento del danno e delle spese processuali, anche relative alla fase cautelare. Il ricorrente non chiarisce però nemmeno se la somma indicata si riferisca al solo danno non patrimoniale o anche alla condanna al pagamento delle spese processuali.
In ogni caso, proseguono i giudici, la contestazione sul quantum del risarcimento per aver fatto ricorso al criterio equitativo non può definirsi compresa nel motivo di appello, con cui si è contestata la non risarcibilità del danno non patrimoniale.
Il potere discrezionale di liquidare il danno
L’esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa ex artt. 1226 e 2056 c.c., dà luogo ad un mero giudizio di diritto, caratterizzato da equità giudiziale correttiva o integrativa. Pertanto, da un lato è subordinato alla condizione che per la parte interessata risulti chiaramente impossibile o difficile provare il danno nel suo ammontare, e dall’altro non ricomprende l’accertamento del pregiudizio della cui liquidazione si tratta. Si presuppone infatti assolto l’onere della parte di dimostrare la sussistenza e l’entità materiale del danno.
Di fatti, concludono i giudici, il potere della liquidazione in via equitativa del danno ex artt. 1226 e 2056 c.c., costituisce espressione del più generale potere di cui all’art. 115 c.p.c. ed il suo esercizio rientra nella discrezionalità del giudice di merito, senza necessità della richiesta di parte, dando luogo a un giudizio di diritto caratterizzato dalla equità giudiziale correttiva o integrativa, con il solo limite di non potere surrogare il mancato accertamento della prova della responsabilità del debitore o la mancata individuazione della prova del danno nella sua esistenza, dovendosi peraltro intendere l’impossibilità di provare l’ammontare preciso del danno in senso relativo e ritenendosi sufficiente anche una difficoltà solo di un certo rilievo.
In questi casi non è consentita la giudice del merito una decisione di non liquet, risolvendosi tale pronuncia nella negoziazione di quanto già definitivamente accertato in termini di esistenza di una condotta generatrice di un danno ingiusto e di conseguente legittimità della relativa richiesta risarcitoria.
Il principio di diritto
Si evidenzia ulteriormente che la decisione della Corte d’Appello è ben conforme alla giurisprudenza della Corte di Cassazione, secondo cui
L’accertata esposizione ad immissioni sonore intollerabili può determinare una lesione del diritto al riposo notturno e alla vivibilità della propria abitazione, la cui prova può essere fornita dal danneggiato anche mediante presunzioni, sulla base di nozioni di comune esperienza, senza che sia necessario dimostrare un effettivo mutamento delle proprie abitudini di vita (Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 11930 del 13/04/2022, Rv. 664838 – 01).
Si ribadisce dunque il principio di diritto già affermato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 2611 del 01/02/2017, secondo cui
Pur quando non rimanga integrato un danno biologico, non risultando provato alcuno stato di malattia, la lesione del diritto al normale svolgimento della vita familiare all’interno della propria casa di abitazione, tutelato anche dall’art. 8 della Convenzione europea dei diritti umani, nonché dal diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane, integra una lesione che non costituisce un danno in “in re ipsa”, bensì un danno conseguenza e comporta un pregiudizio ristorabile in termini di danno on patrimoniale”.