Cane nella coppia: a chi va in caso di fine della relazione – guida rapida
Con la Cass. civ., sez. II, ord., 24 marzo 2023, n. 8459, i giudici di legittimità hanno chiarito alcuni concetti molto utili per comprendere a chi vada il cane nella coppia in caso di fine della relazione.
Cerchiamo di ricostruire in brevità i fatti di causa e le valutazioni compiute dai giudici di Cassazione.
I fatti e la sorte del cane della coppia
Con atto di citazione, una donna evocava in giudizio il proprio ex compagno innanzi il Tribunale al fine di far accertare la sua qualità di comproprietaria di un cane, acquistato nel corso della precedente relazione affettiva stabile intercorsa tra le parti, e lo scioglimento della relativa comunione con affidamento dell’animale e risarcimento dei danni, emotivi e patrimoniali.
L’uomo si costituiva negando la sussistenza della comunione e sostenendo la carenza di legittimazione attiva dell’attrice.
Dinanzi a ciò, il Tribunale di prime cure con accoglieva parzialmente la domanda della donna, ritenendo dimostrata la proprietà del cane in capo all’uomo ma riconoscendo, nell’interesse dell’animale, il diritto della donna alla frequentazione del cane.
Contro questa decisione l’uomo proponeva appello, mentre la donna spiegava appello incidentale in relazione alla domanda di affidamento. Con sentenza della Corte di Appello, ora oggetto di impugnazione, in parziale riforma della pronuncia di primo grado i giudici rigettavano le domande della donna condannandola al pagamento delle spese.
Propone ricorso per la cassazione di tale decisione la donna, con l’ex compagno che resiste con controricorso.
L’uso delle prove
La donna ricorre in Cassazione con cinque motivi. In brevità, con il primo censura la sentenza impugnata per violazione di legge e omessa motivazione. Per la parte ricorrente, infatti, la Corte di Appello avrebbe erroneamente escluso il diritto di proprietà della donna sul cane senza ammettere l’interrogatorio formale richiesto dalla ricorrente ai fini della dimostrazione della comproprietà dell’animale, disattendendo il diritto della parte a ricorrere a prove costituende.
Il ricorso è però inammissibile perché la valutazione circa l’ammissione dei mezzi di prova rientra nei poteri discrezionali del giudice, che non è tenuto ad ammetterli qualora li ritenga superflui.
In tema di interrogatorio formale, infatti, la parte richiedente può solamente invocare il potere discrezionale del giudice di merito di ammettere tale mezzo di prova. Rientra però nelle sue facoltà il rigetto della richiesta, non sindacabile in Cassazione, se ritiene sussistenti elementi di prova sufficienti a fondare la propria decisione.
Ora, come si desume dalla lettura della sentenza, la Corte di Appello ha legittimamente escluso l’ammissione del mezzo di prova richiesto dalla ricorrente, ritenendo lo stesso non indispensabile e già sufficientemente provata la proprietà dell’animale in capo all’uomo.
Si legge di fatti, in motivazione, che “il primo elemento attiene alla proprietà del cane […] che è pacificamente da ricondurre al sig. B. (…) in considerazione della copiosa documentazione da questi prodotta comprovante l’acquisto dell’animale, la sua assicurazione, il rilascio dei documenti attestanti la proprietà (…), le numerose ricevute per prestazioni veterinarie a favore del cane […]. Altrettanto non può dirsi rispetto ai documenti prodotti dalla appellata che si limitano a rappresentazioni fotografiche del cane (…) che, tuttavia, non sono in grado di scalfire quanto risulta provato dal sig. B.“.
La coppia di fatto e il destino del cane
Il secondo e il terzo motivo lamentano la violazione della l. n. 76 del 2016 e dell’art. 132, comma 2, c.p.c. Secondo la ricorrente, infatti, la Corte avrebbe omesso di valutare, senza motivare sul punto, la sussistenza di un rapporto tra le parti qualificabile come coppia di fatto e, di conseguenza, per aver escluso l’esistenza di un legame affettivo stabile con l’animale.
Anche in questo caso, però, i giudici di Cassazione ritengono inammissibili entrambi i motivi.
Le censure non si confrontano infatti con la motivazione della sentenza – che ha negato il diritto di visita della ricorrente sulla base non della insussistenza della coppia di fatto – bensì per la carenza di prova dell’instaurazione di un rapporto significativo tra la ricorrente e il cane, vista la breve relazione sentimentale che l’aveva legata al suo padrone.
Si legge di fatti nella sentenza che “la coppia non costituiva famiglia nemmeno di fatto, nè era definibile quale nucleo familiare in cui l’animale si trovava inserito. Si trattava di una relazione sentimentale molto breve che non aveva condotto le parti nemmeno alla convivenza. (…) Al di là della circostanza pacifica che la frequentazione della sig.ra F. con il cane, nell’ambito della sua relazione sentimentale con il sig. B., si sia limitata a circa 4 mesi, l’appellata non ha provato che, nonostante il breve periodo, si sia instaurato con l’animale un rapporto tale da far presumere che le possa essere riconosciuto un diritto di visita nei confronti dell’animale”).
L’interpretazione del contratto
Con il quarto motivo, invece, la ricorrente impugna la sentenza per violazione delle norme in materia di interpretazione del contratto.
Per la donna, infatti, la Corte d’appello avrebbe erroneamente interpretato la transazione sottoscritta dalle parti ritenendo che la stessa, invece di disciplinare meri rapporti obbligatori, avesse ad oggetto il riconoscimento anche il diritto di proprietà del cane.
Anche in questo caso, però, i giudici di respingono i motivi ritenendo inammissibile la censura per violazione del principio di specificità. La ricorrente ha infatti omesso di trascrivere o allegare il testo delle clausole contrattuali che, secondo la stessa, sarebbero state erroneamente interpretate dalla Corte distrettuale.
Sul punto, i giudici di legittimità ribadiscono il principio secondo cui “quando il ricorrente censuri l’erronea interpretazione di clausole contrattuali da parte del giudice di merito, per il principio di autosufficienza del ricorso, ha l’onere di trascriverle integralmente perché al giudice di legittimità è precluso l’esame degli atti per verificare la rilevanza e la fondatezza della censura”.
Le spese
Con ultimo motivo la ricorrente impugna la decisione in relazione alle spese. Si lamenta infatti del presunto errore della Corte d’appello che, nel liquidare le spese del secondo grado di giudizio, avrebbe liquidato somme superiori a quelle che sarebbero risultate dalla corretta applicazione dei parametri previsti dal D.M. n. 55 del 2014, in riferimento al valore della materia del contendere, e senza fornire alcuna motivazione sul punto.
Per i giudici di legittimità la censura è fondata, considerato che il valore della controversia avrebbe dovuto essere parametrato alla domanda, che in prime cure aveva ad oggetto la comproprietà dell’animale e la pretesa risarcitoria dell’attrice, odierna ricorrente, mentre in appello – per effetto della mancata riproposizione del motivo di censura relativo al rigetto della ridetta domanda risarcitoria – era limitato al solo valore dell’animale.
Ora, non essendo quest’ultimo stato determinato in nessuna maniera, e considerato che la dichiarazione di valore fatta dalle parti all’atto della redazione dell’atto introduttivo del giudizio e della sua iscrizione al ruolo, non è vincolante per il giudice, si sarebbe dovuto applicare lo scaglione della tariffa allegata al D.M. n. 55 del 2014 previsto per le cause di valore indeterminabile di bassa complessità.
Il principio di diritto
Sul punto, i giudici di legittimità ribadiscono il principio secondo cui “in tema di liquidazione delle spese processuali ai sensi del D.M. n. 55 del 2014, l’esercizio del potere discrezionale del giudice, contenuto tra il minimo e il massimo dei parametri previsti, non è soggetto al controllo di legittimità, attenendo pur sempre a parametri indicati tabellarmente, mentre la motivazione è doverosa allorquando il giudice decida di aumentare o diminuire ulteriormente gli importi da riconoscere, essendo in tal caso necessario che siano controllabili le ragioni che giustificano lo scostamento e la misura di esso“.
Pertanto, pur non essendo il giudice di merito vincolato ai parametri stabiliti dal D.M. n. 55/2014, se lo stesso intende discostarsi dagli stessi, liquidando spese superiori al massimo, o inferiori al minimo, è tenuto a fornire adeguata motivazione sulle ragioni che giustificano tale scelta.
Considerato che tale motivazione non è rinvenuta nel caso di specie, la censura è ritenuta fondata.
In sintesi, la Corte di Cassazione ha ritenuto inammissibili i primi quattro motivi di ricorso, mentre va accolto il quinto.