Canone leasing indicizzato a tasso finanziario: è derivato? – guida rapida
- I fatti
- L’opposizione di cliente e garanti
- Derivati impliciti e clausole di indicizzazione
- Clausola di rischio cambio e natura del leasing
- Clausola di rischio cambio e buona fede
Con sentenza n. 5657 del 23 febbraio 2023 la Corte di Cassazione è intervenuta sulla determinazione del canone di un contratto di leasing con clausola di indicizzazione a un tasso finanziario e a un tasso di cambio, chiarendo se possa essere qualificato o meno come strumento finanziario derivato implicito.
Riassumiamo i fatti e le motivazioni della sentenza.
I fatti
In breve, nel 2006 la società Hypo Alpe Adria Leasing srl stipulava con un cliente un contratto di leasing avente ad oggetto un immobile. Il debito era garantito da cinque persone fisiche e prevedeva che:
- avesse come valuta nominale di riferimento il franco svizzero
- venisse rimborsato in euro
- il rimborso avvenisse in 15 anni, con pagamento di un anticipo, di rate mensili e di un prezzo finale di riscatto
- la rata potesse aumentare o diminuire sulla base dell’andamento del tasso LIBOR 3 mesi – CHF e del tasso di cambio tra euro e franco svizzero.
Per quanto riguarda l’ultimo punto, poi, era stabilito che:
- la variabilità del canone dipendesse dalle fluttuazioni del tasso LIBOR ma fosse illimitata in aumento e limitata in diminuzione in non più di due punti in meno dell’indice di base
- la variabilità del canone dipendente dalle fluttuazioni del cambio franco/euro fosse illimitata sia in aumento che in diminuzione, determinata sulla base di una formula matematica pari al canone, diviso per il cambio al momento del pagamento della rata, moltiplicato per la differenza tra il cambio storico e il cambio alla scadenza del canone.
Infine, il contratto prevedeva anche che eventuali variazioni del canone non avessero comportato l’aumento o la diminuzione della rata mensilmente dovuta, ma sarebbero state regolate a parte, con periodiche rimesse reciproche tra le parti.
Sei anni dopo la stipula la banca ottiene dal Tribunale il decreto ingiuntivo per inadempimento della controparte, pronunciato sia nei confronti del cliente che dei suoi garanti, per 128 mila euro, a titolo di canone scaduti e non pagati.
L’opposizione di cliente e garanti
Dinanzi al decreto cliente e garanti si opposero deducendo che il contratto di leasing andasse qualificato come strumento finanziario implicito e, come tale, andasse ritenuto nullo, poiché stipulato senza che dalla banca fossero stati assolti i preventivi obblighi di informazione ex d.lgs. 58/98. Il motivo era da ricercarsi nella particolare struttura del contratto, con la clausola di variabilità del canone nella misura sopra descritta che, secondo gli intimati, celava appunto un derivato.
Il tribunale di prime cure, con sentenza n. 314/2015, ritenne che la clausola suddetta contenesse degli strumenti finanziari derivati autonomi rispetto al contratto di leasing. Ne dichiarò pertanto la nullità, considerato che la società utilizzatrice non aveva ricevuto le informazioni precontrattuali prescritte dalla legge prima della stipula di contratti aventi ad oggetto strumenti finanziari.
Di conseguenza, il tribunale ridusse il credito a 78 mila euro, condannando a risarcire il danno patito dalla cliente utilizzatrice, quantificato in 13 mila euro.
La sentenza è stata appellata dalla banca e, con pronuncia n. 751/2018, la Corte d’appello ha rigettato il gravame con una motivazione che è però diversa da quella del tribunale. La Corte ha infatti definito il contratto nel suo intero come una sorta di swap, qualificandolo come aleatorio e dichiarandolo rientrante nel genus delle scommesse.
Ha quindi aggiunto che la clausola di ancoraggio del canone al tasso di cambio tra franco svizzero ed euro era “astrusa, macchinosa, complessa e oscura” e provocasse uno “squilibrio nelle prestazioni”, in quanto la formula di calcolo del rischio di cambio differiva a seconda che la variazione fosse favorevole o meno al concedente.
La consulenza tecnica d’ufficio
Inoltre, aggiungeva che il contratto era stato qualificato come contenente degli elementi riconducibili a strumenti finanziari derivati anche dal consulente d’ufficio nominato in primo grado e che al momento della stipula era prevedibile un apprezzamento del franco rispetto all’euro.
Quindi, la Corte d’appello ha concluso che per queste ragioni l’opposizione al decreto ingiuntivo andasse accolta perché la sola clausola di rischio cambio era invalida ex art. 1322 secondo comma c.c. e non già perché il contratto fosse nullo a causa della violazione degli obblighi di informazione precontrattuale ex d. lgs. 58/98.
La banca impugna la sentenza. Il cliente e i garanti hanno resistito con controricorso. Soffermiamoci, in questo esame, su alcune delle questioni poste dall’ordinanza di rimessione.
Derivati impliciti e clausole di indicizzazione
Ancora prima di stabilire se una clausola come quella oggetto del giudizio in commento possa o meno costituire uno strumento finanziario derivato, la Corte premette in linea generale che una clausola inserita in un contratto di leasing, che faccia dipendere gli interessi dovuti dall’utilizzatore dalla variazione di un indice finanziario insieme ad un indice monetario non è uno strumento finanziario derivato né un derivato implicito.
Gli strumenti finanziari derivati sono infatti accordi negoziali definiti dall’art. 1 del d.lgs. 58/98. La clausola oggetto del contratto in esame non rientra in tale previsione né avendo riguardo al testo vigente all’epoca della conclusione del contratto di leasing di cui si discorre né avendo riguardo al testo di esso oggi vigente, né facendo ricorso all’analogia legis.
La vecchia normativa
Ricordano infatti i giudici della Suprema Corte che all’epoca della stipula del contratto gli strumenti finanziari derivati erano considerati:
- i futures su strumenti finanziari, su tassi di interesse, su valute, su merci, sui relativi indici, anche se l’esecuzione avviene attraverso il pagamento di differenziali in contanti
- i contratti di scambio a pronti e a termine (swaps) su tassi di interesse, su valute, su merci nonché su indici azionari (equity swaps) anche se l’esecuzione avviene mediante il pagamento di differenziali in contanti
- i contratti a termine collegati a strumenti finanziari, a tassi di interesse, a valute, a merci e ai relativi indici, anche se l’esecuzione avviene mediante il pagamento di differenziali in contanti
- i contratti di opzione per acquistare o vendere gli strumenti di cui sopra, nonché i contratti di opzione su valute, su tassi di interesse, su merci e sui relativi indici, anche quando l’esecuzione avviene mediante il pagamento di differenziali in contanti
- le combinazioni di contratti o titoli di cui sopra.
L’odierna normativa
Dunque, il contratto di leasing con la nota clausola non sarebbe riconducibile nella definizione di cui sopra. Ma non sarebbe nemmeno riconducibile a quella odierna, considerato che per la legge vigente la nozione di strumento finanziario derivato è solo l’operazione che rientra tra quelle definite come tali dal d.lgs. 58/98, e concordate nell’ambito delle operazioni previste dal Testo Unico, ovvero:
- o quelli previsti dall’allegato I al d.lgs. 58/98, Sez. C, punti 4-10
- o quelli individuati dal Ministro dell’economia con proprio decreto.
In ogni caso, nessuna delle previsioni contenute nelle suddette norme è tale da includere senza residui la clausola di rischio cambio concordata dalle parti nel giudizio in esame.
Infine, la clausola di rischio cambio inserita nel contratto di leasing non può qualificarsi come strumento finanziario derivati nemmeno facendo ricorso all’analogia per due ragioni: la sua causa, per quanto dedotto dalle parti, nulla ha in comune con quella degli strumenti finanziari derivati elencati dalla legge e, inoltre, è privo di alcuni elementi essenziali che accomunano la maggior parte degli strumenti finanziari derivati tipici.
Insomma, per i giudici la corretta qualificazione giuridica di clausole come quella oggetto del giudizio presente deve muovere dal rilievo che il contratto oggetto del contendere aveva ad oggetto un’operazione reale e prevedeva che il valore del debito complessivo dell’utilizzatore fosse determinato in franchi svizzeri, accordando all’utilizzatore la facoltà di pagare in euro.
La funzione di finanziamento
Il contratto di leasing – proseguono i giudici nella loro motivazione – ha ovviamente una funzione anche di finanziamento. E il finanziamento può essere legittimamente concesso in valuta nazionale o estera. In quest’ultimo caso, si ha lo scopo di evitare i rischi connessi alla svalutazione della moneta nazionale (svalutazione per il creditore, rivalutazione per il debitore).
A sua volta, il finanziamento in moneta estera può avvenire con due modalità:
- l’indebitamento può essere direttamente denominato e erogato nella valuta estera
- esprimere sia la provvista erogata dal concedente sia le rate dovute dall’utilizzatore in valuta domestica, ma agganciarne poi il valore al rapporto di cambio con una valuta estera.
Il risultato sarà, in entrambi i casi, il medesimo.
Debito di valore e non di valuta
Dunque, si aggiunge, il finanziamento il cui importo è parametrato ad un rapporto di cambio è un debito di valore e non di valuta.
Ne consegue che
- l’aleatorietà del contratto, lungi dal costituire un indice della presenza di un derivato implicito, non è che un effetto naturale d’una altrettanto normale clausola-valore
- la previsione che eventuali conguagli a favore dell’una o dell’altra parte fossero regolati a parte, e non incidessero sul valore della rata – che rimaneva costante – non è che una modalità esecutiva delle reciproche obbligazioni, non suscettibile di riverberare effetti di sorta sulla qualificazione del contratto. Di fatti, il titolo dell’obbligazione non muta solamente perché cambia il termine dell’adempimento. Del resto, il creditore ha facoltà di accettare anche un adempimento parziale o di rinunciare al termine stabilito a suo favore, dimostrando così che la possibilità di regolare a parte alcune delle obbligazioni e non altre, oppure un’aliquota dell’unica obbligazione, è un effetto normale dello statuto delle obbligazioni civili.
Rimane a questo punto solamente da aggiungere che le considerazioni sin qui esposte da parte del giudice non mutano per il fatto che il contratto oggetto di giudizio prevedeva una doppia indicizzazione, agganciando le variazioni del canone sia alle variazioni del tasso LIBOR, sia alle variazioni del rapporto di cambio franco/euro.
Di fatti:
- l’indicizzazione del canone al tasso LIBOR costituisce una normale clausola sempre presente nei finanziamenti a tasso variabile. È pacificamente lecita e non rappresenta un derivato;
- l’indicizzazione del canone alle fluttuazioni del rapporto di cambio costituisce una clausola-valore e, così inquadrata, è pacificamente lecita e non costituisce un derivato.
Per i giudici, pertanto, non è sostenibile che dalla combinazione di due clausole, entrambe lecite e non costituenti uno strumento finanziario derivato, possa sorgere un contratto illecito e che costituisca uno strumento finanziario derivato.
La clausola di rischio cambio snatura la causa del leasing?
I giudici si soffermano poi su un altro punto di interesse: è infatti vero che l’inserimento di elementi spurii in un contratto legalmente o socialmente tipico può determinarne la trasformazione in altro tipo. Per stabilire se un contratto – a causa di pattuizioni eterogenee rispetto allo schema tipico – abbia o meno mutato causa e natura, la Corte ha da tempo dettato tre criteri che vale la pena riepilogare in sintesi.
Il primo è che la qualificazione del contratto come atipico deve dipendere dai suoi effetti giuridici, e non da quelli economici. Anche la fideiussio indemnitatis può dunque produrre gli effetti dell’accollo ma… non è un accollo.
Il giudice dunque per qualificare un contratto deve avere riferimento all’intento negoziale delle parti e non al risultato economico di esso. Tanto meno, alla sua convenienza per una delle parti.
Il secondo è che un contratto non muta natura e causa solamente perché uno dei suoi elementi presenta un’occasionale difformità rispetto allo schema legale tipico.
Dunque, un contratto può dirsi atipico solamente quando il rapporto per come disciplinato dalle parti diventi
del tutto estraneo al tipo normativo, perché trae le proprie ragioni di essere dall’adeguamento degli strumenti giuridici alle mutevoli esigenze della vita sociale e dei rapporti economici.
Il terzo, infine, è che le prestazioni atipiche che sono poste a carico di una delle parti non mutano la causa tipica del contratto se in questo permane la prevalenza degli elementi propri dello schema tipico.
Gli esempi
Se così è, concludono i giudici nelle loro motivazioni, ne segue che la previsione di maggiori o minori obblighi a carico di una delle parti, rispetto a quelli scaturenti dallo schema contrattuale tipico, non è di per sé sufficiente a concludere che quel contratto abbia mutato causa e natura.
È dunque questo il principio che inequivocabilmente emerge dall’analisi della giurisprudenza della Corte di legittimità, che ha ad esempio ritenuto che:
- il contratto di concessione del diritto d’uso non muta causa solo perché sia imposto un facere a carico del proprietario della cosa
- il contratto di associazione tra professionisti non muta causa solo perché prevede la possibilità che il singolo associato sia escluso per delibera unanime degli altri
- il contratto di deposito di generi alimentari deperibili non muta causa solo perché sono imposti obblighi di manutenzione e avviso a carico del depositario
- il contratto di commissione non muta causa solo perché sia escluso il diritto del commissionario alla provvigione
- la fideiussione non muta causa solo perché il fideiussore si obblighi a pagare a prima richiesta
- il contratto di mediazione non muta causa solo perché il soggetto intermediato si obblighi a pagare la provvigione per il solo fatto che il mediatore abbia svolto la sua attività anche senza esito
- il contratto preliminare di vendita non muta causa solo perché preveda il pagamento anticipato del prezzo da parte del promissario acquirente.
Ora, l’applicazione dei principi di cui sopra alle clausole di rischio cambio come quelle che sono oggetto nel contratto di cui si è parlato in questo approfondimento, impone di concludere che esse non mutano la causa del contratto di leasing.
Lo scopo
La presenza delle clausole suddette non permette pertanto di affermare che mercé essa, scopo dell’utilizzatore non fu acquisire un immobile, ma fu investire del denaro per realizzare un lucro finanziario invece che commerciale.
In identico modo, la presenza di queste clausole non è sufficiente per sostenere che fosse volontà del concedente concludere il contratto al solo fine di speculare sul tasso di cambio.
Del resto, proseguono gli Ermellini, una conferma dell’impensabilità che il leasing immobiliare indicizzato sia assimilabile a un contratto di investimento finanziario la si può trovare sul piano logico dalla reductio ad absurdum: se un risparmiatore, volendo investire il proprio denaro, si vedesse consigliare dall’intermediario finanziario la stipula di un contratto di leasing immobiliare indicizzato ad una valuta estera, difficilmente quell’intermediario eviterebbe un giudizio di responsabilità per violazione della regola di adeguatezza.
La previsione di una clausola di rischio cambio e la buona fede
Ancora, i giudici prendono in considerazione l’ordinanza di rimessione laddove chiede di stabilire se la pattuizione della clausola di rischio cambio possa o meno costituire una violazione dei doveri di correttezza e buona fede da parte della società concedente per la mancanza di chiarezza e di informazione, conseguenti alla natura puramente speculativa della clausola.
Sebbene tale questione non sia stata dedotta in giudizio, le Sezioni Unite la affrontano per completezza d’esame.
Si commenta dunque come un contratto invalido possa essere eseguito in buona fede, così come uno valido possa essere eseguito in mala fede.
In tal senso, il giudizio di meritevolezza serve dunque a stabilire se il contratto possa o meno produrre effetti. Il giudizio sul rispetto della buona fede serve a stabilire diverse cose:
- prima della stipula, se il consenso di una delle parti sia stato carpito o meno con dolo o dato per errore
- dopo la stipula, come debba interpretarsi il contratto
- dopo l’adempimento, se questo sia stato inesatto.
Infine, il contratto immeritevole è improduttivo di effetti, mentre il contratto eseguito senza buona fede fa sorgere il diritto alla risoluzione o al risarcimento del danno.
Dunque, si può concludere come la sola pattuizione di una clausola di rischio cambio come quella del giudizio in commento non possa costituire, da sola, una violazione dei doveri di correttezza e buona fede da parte di un intermediario creditizio o finanziario.
In ogni caso, concludono le motivazioni, anche l’eventuale violazione dei doveri di cui sopra nella fase delle trattative, e di buona fede nell’esecuzione del contratto, non potrebbe condurre a una dichiarazione di immeritevolezza del contratto. Quelle violazioni potrebbero condurre teoricamente solo all’annullamento del contratto per vizio del consenso (errore o dolo) oppure all’affermazione di una responsabilità precontrattuale o, ancora, al risarcimento del danno.
I principi di diritto
Questi principi sono poi stati condivisi in ambito comunitario anche da CGUE 20.9.2017, in causa C-186/16, Andriciuc vs. Banca Românească, secondo cui “se il finanziatore, pur essendo a conoscenza o potendo conoscere eventuali future fluttuazioni del cambio a sfavore del mutuatario, non lo avverte di tale circostanza in sede precontrattuale, viola il dovere di buona fede e, se il contratto è stipulato con un consumatore, pattuisce una clausola che produce un significativo squilibrio tra le parti”.
La sentenza impugnata viene dunque cassata con rinvio alla Corte d’appello in differente composizione, tenuta a esaminare l’appello applicando il seguente principio di diritto:
il giudizio di “immeritevolezza” di cui all’art. 1322, secondo comma, c.c. va compiuto avendo riguardo allo scopo perseguito dalle parti, e non alla sua convenienza, né alla sua chiarezza, né alla sua aleatorietà.
Si formula inoltre nell’interesse della legge ex art. 363 c.p.c. il seguente principio di diritto:
La clausola inserita in un contratto di leasing, la quale preveda che: a) la misura del canone varii in funzione sia delle variazioni di un indice finanziario, sia delle fluttuazioni del tasso di cambio tra la valuta domestica ed una valuta straniera; b) l’importo mensile del canone resti nominalmente invariato, e i rapporti di dare/avere tra le parti dipendenti dalle suddette fluttuazioni siano regolati a parte; non è un patto immeritevole ex art. 1322 c.c., né costituisce uno “strumento finanziario derivato” implicito, e la relativa pattuizione non è soggetta alle previsioni del d. lgs. 58/98.