La cartella clinica e la falsità della stessa – indice:
- Modifica delle cartelle cliniche
- Cartella come atto pubblico
- Falso materiale
- Dolo generico
- Convincimento soggettivo
Considerato che la cartella clinica di un paziente costituisce un atto pubblico, che attesta il decorso della sua malattia, la sua modifica o alterazione integra il reato di falso in atto pubblico.
L’illecito andrà ad esser supportato da un elemento soggettivo contraddistinto dal dolo generico, ovvero dalla consapevolezza dell’azione, che andrà ad essere dimostrata facendo ricorso a una serie di indicatori.
Modifica delle cartelle sanitarie
Con la recente sentenza n. 55385/2018 gli Ermellini si sono pronunciati sul ricorso di un medico condannato per i reati di falso in atto pubblico, materiale e ideologico.
In particolar modo, al medico era stata contestata la contraffazione di alcune cartelle cliniche, con annotazione di visite in reparto in data successiva rispetto alla constatazione effettuata da altro personale sanitario.
Venivano altresì contestate le successive annotazioni, con cui il medico sosteneva che la data incongrua fosse dovuta a un mero errore materiale.
Cartella sanitaria come atto pubblico
Nelle proprie valutazioni gli Ermellini ricordano innanzitutto che la cartella clinica redatta da un medico di un ospedale pubblico è atto pubblico. La sua funzione è quella di “diario” del decorso della malattia, oltre che degli eventi clinici di maggiore rilievo. Ne deriva che i fatti devono essere annotati contestualmente al verificarsi.
Da quanto sopra ne deriva che tutte le modifiche e le alterazioni, così come le aggiunte e le cancellazioni, integrano il reato di falso in atto pubblico. Nessuna rilevanza è attribuita all’intento che muove l’agente, considerato che le fattispecie codicistiche sono contraddistinte dalla presenza di dolo generico, e non di dolo specifico.
In altri termini, precisano ancora i giudici della Suprema Corte, le attestazioni che sono rese dal pubblico ufficiale con annotazione sulla cartella clinica e sui documenti che vi accedono (si pensi alla scheda di dimissioni ospedaliere) devono rispondere ai criteri di veridicità del contenuto rappresentativo, di completezza delle informazioni, di immediatezza della redazione rispetto all’atto medico descritto, di continuità delle annotazioni.
L’obiettivo della cartella, si rammenta, non è solamente quello di verbalizzare l’atto medico. È finalità dell’atto anche quello di presentare la successione cronologica di interventi, diagnosi, prognosi, prescrizioni.
Falso materiale in atto pubblico
Con queste premesse, per la Cassazione integra il falso materiale in atto pubblico l’alterazione di una cartella clinica con aggiunta di annotazioni, in un contesto cronologico successivo, e dunque diverso da quello reale.
Non rileva in questo caso che:
- l’annotazione fosse vera;
- il soggetto agisca per ristabilire la verità effettuale.
La cartella clinica deve infatti acquistare carattere definitivo in relazione a ogni annotazione. Esce dunque dalla sfera di disponibilità del suo autore nel momento stesso in cui la singola annotazione viene registrata.
La funzione della cartella, rammentano ancora gli Ermellini, è quella di “diario” della malattia e di altri fattori clinici di rilievo. L’annotazione non potrà dunque che avvenire contestualmente al loro verificarsi.
Dimostrazione del dolo generico
Tornando all’elemento soggettivo, precedentemente richiamato, per poter integrare il delitto di falsità, materiale o ideologica, in atto pubblico, è sufficiente il dolo generico, e non quello specifico.
Quanto sopra non significa ovviamente che il dolo / elemento soggettivo non debba essere adeguatamente provato. In altre parole, il reato può escludersi se il falso deriva da una semplice leggerezza, o magari dalla negligenza dell’agente. Non sussiste, nel nostro sistema vigente, il falso documentale colposo.
Ma come poter dimostrare il dolo generico? Per farlo, l’autorità giudiziaria dovrà avere valutazione di una serie di indicatori ponderati sul caso concreto. Per esempio, le pregresse esperienze del medico. O ancora la durata e la ripetizione dell’azione, al fine di comprendere se si tratti di azione continuativa o occasionale. O ulteriormente il fine della condotta.
Si può invece escludere il dolo tutte le volte che la falsità risulta essere oltre o contro la volontà dell’agente, come in caso di mero errore percettivo.
Non basta il mero convincimento soggettivo
A conclusione di tali motivazioni, gli Ermellini sottolineano come non sia sufficiente usare il mero convincimento soggettivo quale indicatore sintomatico dell’elemento soggettivo del reato.
Nel caso concreto, la Cassazione ha ritenuto che la Corte territoriale non abbia espresso in maniera logicamente congruente e completa, né coerente in diritto, ragioni significative giuridicamente in grado di determinare l’accertamento del dolo, e fatto ritenere ragionevole l’affermazione di responsabilità.
Per i giudici appare incontestata la falsità materiale dell’indicazione della data nelle annotazioni a firma del dottore sulle cartelle cliniche. Tuttavia, per poter ritenere sussistente il dolo, o la consapevolezza e la volontà del mendacio, non è sufficiente la ripetitività delle false attestazioni.
Per gli Ermellini, infatti, il medico ha pur svolto le visite che le annotazioni attestano, ma è incongrua solamente la datazione.
Insomma, per i giudici di legittimità, la ripetitività e la serialità dell’erronea indicazione non esprime la consapevolezza della immutatio veri. Appartiene invece al comune dato esperienziale che una iniziale percezione inesatta della data induce essa stessa alla ripetitività dell’indicazione, fino a quando l’autore non se ne accorge.