Certificato di malattia falso e licenziamento – guida rapida
- Il ricorso in Cassazione
- L’onere della prova
- L’omesso esame di fatto decisivo
- L’indennità risarcitoria e la reintegra
La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 20891 del 26.07.2024, ha affermato che è illegittimo il licenziamento del lavoratore che giustifica la propria assenza per malattia del figlio con certificati medici falsi, nel caso in cui lo stesso dipendente non abbia contribuito a falsificare la certificazione.
Vediamo insieme quali sono state le caratteristiche del caso affrontato e in che modo i giudici sono arrivati a tale considerazione.
Il ricorso in Cassazione per certificato di malattia falso
La Corte d’Appello di Roma ha respinto il reclamo proposto dal datore di lavoro contro la sentenza del Tribunale della stessa sede con cui viene accolta l’opposizione proposta dal dipendente, e con cui è dichiarata l’illegittimità del licenziamento disciplinare irrogato al medesimo, ordinando la reintegra nel posto di lavoro, e condannando la società al pagamento di indennità risarcitoria pari agli importi dovuti dal giorno della sospensione dalla paga e dal servizio sino all’effettiva reintegra.
In particolare, la Corte di merito ha osservato che:
- il comportamento addebitato al lavoratore consisteva nell’aver violato i principi fondamentali inerenti al rapporto di lavoro. Il lavoratore ha infatti presentato certificazioni mediche false a giustificazione di giornate di assenza a causa della malattia del figlio. La vicenda coinvolge anche altri lavoratori e uno studio medico, da cui è originato un procedimento penale;
- al lavoratore non veniva imputato di aver falsificato o contribuito a falsificare i certificati in questione;
- la prova della consapevolezza da parte del lavoratore della non autenticità della documentazione al fine di farne uso traendone un indebito vantaggio, così da compromettere il vincolo fiduciario, non era emersa in giudizio. Non poteva inoltre essere oggetto di presunzione per il solo fatto che il lavoratore avesse utilizzato i certificati;
- ne derivava che il comportamento del dipendente risultava privo del carattere di illiceità sotto il profilo soggettivo, per mancanza di coscienza e volontà riguardo all’antigiuridicità della propria condotta.
L’onere della prova
Con il primo motivo il datore di lavoro deduce l’erronea attribuzione dell’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata, affermando che l’onere di accertamento della genuinità dei certificati non poteva che competere al lavoratore.
Per i giudici di Cassazione il motivo non è però fondato. È infatti integrata la violazione dell’art. 2697 c.c., deducibile per cassazione, ai sensi dell’art. 360, n. 3 c.p.c., soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne sia onerata, secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni.
I giudici di legittimità rammentano inoltre che in materia opera la regola generale di cui all’art. 5, legge n. 604/1966, che pone a carico del datore di lavoro l’onere della prova della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento.
In questo ambito, prosegue la sentenza, la Corte d’Appello ha compiuto una valutazione complessiva delle prove proposte dalle parti. Ha dunque ritenuto non provata la sussistenza dell’elemento soggettivo del fatto illecito contestato, anche se materialmente accertato (rappresentato dalla consapevolezza della falsità dei certificati medici utilizzati, posto che il fatto materiale della falsificazione non era addebitato al lavoratore).
Per i giudici della Suprema Corte non vi sarebbe dunque alcuna inversione della prova nei termini prospettati da parte ricorrente.
L’omesso esame di fatto decisivo sul certificato di malattia
Con il secondo motivo il datore di lavoro deduce l’omesso esame di fatto decisivo oggetto di contraddittorio tra le parti. La Corte territoriale non avrebbe infatti dato rilevanza al fatto che due dei certificati in contestazione risultavano essere perfettamente sovrapponibili e pertanto essere uno la riproduzione dell’altro.
Per i giudici di legittimità, però, il motivo è inammissibile.
Ricordano infatti come la Corte d’Appello avesse confermato le statuizioni della sentenza di primo grado e realizzato così l’ipotesi di doppia conforme rilevante ai sensi dell’art. 348-ter c.p.c. (ora 360, comma 4, c.p.c.) e dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. Ricordiamo, in altri termini, che quando la pronuncia di appello conferma la decisione di primo grado per le stesse ragioni, sugli stessi fatti posti a base della decisione impugnata, il ricorso per Cassazione può essere proposto esclusivamente per i motivi di cui all’art. 360, primo comma, nn. 1), 2), 3), 4), c.p.c.
Rammentiamo altresì che ricorre l’ipotesi di doppia conforme, e dunque di inammissibilità della censura ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., non solo quando la decisione di secondo grado è interamente corrispondente a quella di primo grado, ma anche quando le due statuizioni sono fondate sul medesimo iter logico-argomentativo in relazione ai fatti principali oggetto della causa, non ostandovi che il giudice di appello abbia aggiunto argomenti ulteriori per rafforzare o precisare la statuizione già assunta dal primo giudice.
L’indennità risarcitoria e la reintegra
Con il terzo motivo il datore di lavoro deduce la violazione dell’art. 18, commi 4 e 5, legge n. 300/1970, per non essere stata applicata l’indennità risarcitoria nei minimi di legge in luogo della reintegra.
In questo caso, affermano i giudici di legittimità, il motivo è infondato.
I giudici della Suprema Corte ricordano infatti che è stato già chiarito dalla giurisprudenza di legittimità che in tema di licenziamento individuale per giusta causa, l’insussistenza del fatto contestato, che rende applicabile la tutela reintegratoria ai sensi dell’art. 18, comma 4, st. lav., come modificato dall’art. 1, comma 42, lett. b), della legge n. 92 del 2012, comprende anche l’ipotesi del fatto sussistente, ma privo del carattere di illiceità (anche sotto il profilo dell’elemento soggettivo).
Ancora, i giudici rammentano che è stato precisato come la tutela reintegratoria ex art. 18, comma 4, st. lav. novellato, applicabile ove sia ravvisata l’insussistenza del fatto contestato, comprende anche l’ipotesi di assenza ontologica del fatto e quella di fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità.