Come provare il mobbing sul luogo di lavoro – guida rapida
- Lo svolgimento del processo
- La ricognizione del contenuto delle prove documentali offerte
- Il principio di corrispondenza fra chiesto e pronunciato
- I principi sul risarcimento dei danni
- La motivazione apparente
- Erronea ritenuta insussistenza degli elementi costitutivi del mobbing
- I principi di diritto
L’ordinanza n. 29400 del 14.11.2024 ha permesso alla Corte di Cassazione di intervenire su un tema molto importante quale quello della prova del mobbing sul luogo di lavoro.
Formulando il principio di diritto che condividiamo a margine di questo approfondimento, l’ordinanza ha sancito che le ipotesi di mobbing costituiscono violazioni dell’art. 2087 c.c. e, dunque, integrano le fattispecie di responsabilità contrattuale che si caratterizzano – rispetto alle altre infrazioni dello stesso articolo – per il fatto di assumere rilievo principalmente “in presenza di una serie di condotte legittime del datore di lavoro unificate da un intento persecutorio le quali, nonostante la formale correttezza dell’operato del detto datore, rappresentano, comunque, proprio in ragione di tale intento, un inadempimento agli obblighi derivanti dal citato art. 2087 c.c.”.
Lo svolgimento del processo sul mobbing
Andiamo con ordine e cerchiamo di riassumere lo svolgimento del processo.
Il Tribunale di Roma ha rigettato – con sentenza n. 56/2015 – la domanda proposta da un dipendente di un ente confluito nell’INAIL, al fine di ottenere la condanna di quest’ultimo a pagare in suo favore il complessivo importo di Euro 841.078,54 a titolo di risarcimento dei danni subiti in conseguenza della condotta tenuta nei suoi confronti dall’ente confluito nel periodo dall’8 luglio 1998 al 31 marzo 2003, consistita in comportamenti mobbizzanti e vessatori.
Il dipendente ha proposto appello che la Corte d’Appello di Roma, nel contraddittorio delle parti, con sentenza n. 733/2019, ha rigettato. Propone dunque ricorso per cassazione sulla base di cinque motivi, mentre l’INAIL si è difeso con controricorso.
La ricognizione del contenuto delle prove documentali offerte
Esaminiamo in brevità i singoli motivi di ricorso.
Con il primo motivo, il ricorrente lamenta la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e l’errore di percezione sulla ricognizione del contenuto oggettivo delle prove documentali offerte.
La doglianza è per ritenuta inammissibile dai giudici della Suprema Corte. Con essa, infatti, il ricorrente chiede al Collegio di riesaminare le prove agli atti, per un’attività che non è notoriamente di norma consentita in sede di legittimità.
Rilevano invece i giudici di Cassazione che la Corte d’Appello di Roma ha esaminato in maniera puntuale i motivi d’impugnazione e la documentazione agli atti. Per quanto poi concerne uno specifico episodio (l’invio del dipendente a una conferenza), lo stesso era avvenuto in virtù della sua posizione di coordinatore dell’unità, del ruolo da lui svolto e del fatto che era stato proprio il ricorrente a rifiutarsi (e ciò non era stato negato in appello) di prendervi parte assieme al suo superiore, del quale non riconosceva la competenza tecnica.
Un altro episodio evidenziato dal lavoratore è stato quello del blocco delle relazioni di consulenza tecnica, che era avvenuto in quanto il ricorrente le aveva redatte disapplicando le parti della Conferenza da lui ritenute contrarie al contenuto del d.m. n. 381 del 1998. La circostanza era stata rilevata dal Tribunale di Roma e non era stata criticata in appello.
La partecipazione ad eventi esterni
Per ciò che riguarda la partecipazione ad eventi esterni, il giudice di appello ha poi verificato che le mancate autorizzazioni lamentate dal ricorrente erano avvenute nel rispetto della Circolare 2390 del 2000 della P.A. controricorrente e che il medesimo ricorrente non aveva allegato una specifica discriminazione in suo danno.
I giudici della Cassazione condividono poi come il c.d. furto di ferie non sarebbe avvenuto secondo la Corte territoriale con carattere discriminatorio, considerato che l’attività svolta fuori sede nei giorni interessati non era stata autorizzata e che era stato il ricorrente a domandarne la concessione.
La Corte d’Appello di Roma ha dunque escluso ogni rilievo della dedotta sottrazione degli strumenti di lavoro. Ha affermato che la relativa assegnazione ad altra stanza era avvenuta in ragione dell’avvenuta recente assegnazione presso l’unità in questione di cinque nuovi dipendenti, le esigenze dei quali erano state segnalate proprio dal ricorrente.
La percezione della ricognizione
Dopo aver puntualizzato su ulteriori lamentele, i giudici di legittimità affermano come in ordine al dedotto “errore di percezione sulla ricognizione del contenuto oggettivo delle prove documentali offerte“, è possibile evidenziare che il travisamento del contenuto oggettivo della prova ricorre, comunque, in caso di svista concernente il fatto probatorio in sé e non di verifica logica della riconducibilità dell’informazione probatoria al fatto probatorio, trovando il suo istituzionale rimedio nell’impugnazione per revocazione per errore di fatto, ove ricorrano i presupposti richiesti dall’art. 395, n. 4, c.p.c. Nella specie, palesemente non emerge la verificazione di una tale svista.
Pertanto, si prosegue, dovrebbe essere applicato il principio per il quale, “se il travisamento rifletta la lettura del fatto probatorio prospettata da una delle parti“, il vizio va fatto valere ai sensi dell’art. 360, n. 4, o n. 5, c.p.c., a seconda che si tratti di fatto processuale o sostanziale (Cass., S.U., n. 5792 del 5 marzo 2024).
Nel caso in questione, però, il ricorrente ha domandato una rivalutazione nel merito delle risultanze istruttorie, che è preclusa a questo Collegio.
Il principio di corrispondenza fra chiesto e pronunciato
Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 112 c.p.c., del principio di corrispondenza fra chiesto e pronunciato e l’infrapetizione in quanto la corte territoriale avrebbe errato nel considerare assorbito il motivo di appello e nel non motivare quanto alle richieste di mezzi istruttori che erano state avanzate. Infatti, il Tribunale di Roma avrebbe operato in maniera parziale.
Anche questa doglianza è ritenuta inammissibile.
Infatti, la Corte d’Appello di Roma ha valutato con cura le prove agli atti e risposto con piena motivazione a tutte le doglianze del ricorrente, al rigetto delle quali non poteva non conseguire l’assorbimento della censura.
Nelle motivazioni della decisione si legge poi come l’assorbimento non possa in ogni caso essere contestato deducendo il vizio di omessa pronuncia, considerato che la pronuncia non è omessa, se non in senso formale, ma deriva implicitamente dalla decisione di assorbimento, ne è resa in assenza di motivazione, in quanto la ragione del decisum è, appunto, nell’affermazione del carattere assorbente della questione esaminata, affermazione alla quale, se l’assorbimento è correttamente dichiarato, non occorre aggiungere null’altro per assolvere agli oneri motivazionali imposti dall’art. 132 c.p.c.
I principi sul risarcimento dei danni da mobbing
Con il terzo motivo viene lamentata la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., 1173, 1174, 1218, 2087 e 2697 c.c., 2 Cost. e dei principi in tema di risarcimento danni.
Il ricorrente afferma infatti che la Corte territoriale avrebbe sbagliato nel non tenere in considerazione che il datore di lavoro avrebbe dovuto provare la mancanza sussistenza dell’inadempimento e dei danni lamentati e dell’elemento soggettivo, costituito dal disegno persecutorio.
La lamentela non può tuttavia essere accolta per due motivi principali:
- Il ricorrente sta cercando, in modo indiretto, di ottenere dalla Corte di legittimità una nuova valutazione nel merito della causa, nel tentativo di superare quanto già accertato nei fatti dalla Corte territoriale, cosa che la Corte di Cassazione non può evidentemente fare.
- Il ricorrente non considera che il giudice d’appello non solo non ha trovato prove riguardo alla presunta persecuzione nei suoi confronti e all’esistenza di un danno causalmente collegato all’inadempimento lamentato, ma ne ha proprio escluso l’esistenza, rendendo così impossibile sostenere che ci sia stata una violazione dei principi sulla distribuzione dell’onere della prova.
Il richiamo all’art. 2087 c.c.
È peraltro qui importante precisare che i casi classificati come mobbing rientrano nelle violazioni dell’art. 2087 del codice civile e costituiscono quindi casi di responsabilità contrattuale. Tuttavia, ciò che distingue il mobbing dalle altre violazioni dell’art. 2087 c.c. è una caratteristica particolare: il mobbing si manifesta principalmente attraverso una serie di azioni del datore di lavoro che, pur essendo formalmente legittime, sono unite da un intento persecutorio.
Pertanto, anche nel caso in cui le singole azioni del datore di lavoro appaiono formalmente corrette, possono comunque costituire una violazione degli obblighi previsti dall’art. 2087 c.c. proprio a causa di questo intento persecutorio che le unifica.
Insomma, un intento vessatorio potrebbe manifestarsi anche quando il datore di lavoro tiene una condotta illegittima. Tuttavia, in questo caso, l’intento vessatorio non sarebbe determinante per stabilire la violazione dell’art. 2087 c.c., poiché la violazione deriverebbe già dal comportamento illegittimo stesso del datore di lavoro.
La responsabilità contrattuale ordinaria
Per quanto poi concerne la responsabilità contrattuale ordinaria, che deriva dalla violazione di un obbligo contrattuale (come, per esempio, gli obblighi relativi alle mansioni del dipendente o alla sicurezza sul lavoro, come specificato dal D.Lgs. n. 81 del 2008), si applicano i principi ormai ben consolidati dalla giurisprudenza. Secondo questi principi, stabiliti dalle Sezioni Unite della Cassazione (sentenza n. 13533 del 30 ottobre 2001), in materia di prova dell’inadempimento di un’obbligazione:
- Il creditore che agisce per ottenere la risoluzione del contratto, il risarcimento del danno o l’adempimento deve solo provare l’origine (legale o contrattuale) del suo diritto, provare la scadenza prevista e limitarsi a dichiarare l’inadempimento della controparte.
- Il debitore convenuto, invece, ha l’onere di provare di aver adempiuto, dimostrando così il fatto che estinguerebbe la pretesa della controparte.
L’intervento della Suprema Corte sul mobbing
La Suprema Corte ha chiarito un punto importante sulla responsabilità contrattuale del datore di lavoro in relazione all’art. 2087 c.c. Per quanto riguarda l’onere della prova:
- Nel caso di violazioni generiche dell’art. 2087 c.c., il lavoratore deve provare i fatto che costituisce inadempimento dell’obbligo di sicurezza e il nesso causale tra l’inadempimento e l’eventuale danno subito. Non deve invece provare la colpa del datore di lavoro (Cassazione, Sezione Lavoro, n. 12445 del 25 maggio 2006).
- Nei casi di mobbing, invece, la situazione è diversa. Poiché il mobbing si verifica quando delle condotte formalmente legittime diventano inadempimenti a causa di un intento persecutorio, il lavoratore deve provare l’inadempimento del datore di lavoro, il titolo del suo diritto, l’eventuale danno subito, il nesso causale tra inadempimento e danno e l’intento persecutorio (elemento aggiuntivo specifico del mobbing).
L’interpretazione così espressa è stata confermata dalla Cassazione, Sezione Lavoro, n. 10992 del 9 giugno 2020. Quindi, contrariamente a quanto sostiene il ricorrente, l’onere di provare l’elemento soggettivo del mobbing (cioè l’intento persecutorio) spetta al lavoratore e non alla Pubblica Amministrazione.
La motivazione apparente per il mobbing sul posto di lavoro
Si giunge così al quarto motivo di ricorso, con cui il ricorrente lamenta la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c. e la presenza di una motivazione solo apparente, oltre che la Corte territoriale abbia fondato la decisione sulle deduzioni della Pubblica Amministrazione controricorrente anziché sui documenti agli atti.
Il giudice di Cassazione ha però dichiarato il motivo inammissibile richiamando i precedenti motivi di ricorso già esaminati e affermando che il giudice d’appello ha invece fornito una motivazione completa della sua decisione.
Viene così respinta l’accusa di motivazione apparente, rilevando che la Corte d’appello ha invece motivato in modo completo la propria decisione, come sarebbe evidente dall’esame dei motivi precedentemente discussi nella sentenza.
Erronea ritenuta insussistenza degli elementi costitutivi del mobbing
Con il quinto e ultimo motivo di ricorso, il ricorrente lamenta la violazione degli articoli 1173 (fonti delle obbligazioni), 1218 (responsabilità del debitore) e 2087 (tutela delle condizioni di lavoro) del codice civile, con violazione dei principi sul risarcimento del danno, erronea valutazione circa l’insussistenza degli elementi costitutivi del mobbing e erronea negazione del correlato diritto al risarcimento.
Anche in questo caso, però, il giudice di Cassazione ha dichiarato il motivo inammissibile, rilevando che il ricorrente sta in realtà chiedendo una nuova valutazione nel merito della causa e sottolineando come tale richiesta sia illegittima poiché mira a sostituire il giudizio di merito già compiuto dalla Corte territoriale. Evidenzia infine che la Corte territoriale aveva già fornito una motivazione completa, respingendo così il motivo di ricorso perché tenta impropriamente di ottenere una nuova valutazione nel merito, quando invece il giudizio precedente era stato già adeguatamente motivato.
I principi di diritto sul mobbing al lavoro
Il ricorso è dunque dichiarato inammissibile in applicazione dei seguenti principi di diritto:
Le ipotesi di mobbing costituiscono violazioni dell’art. 2087 c.c. e, quindi, integrano fattispecie di responsabilità contrattuale che si caratterizzano, rispetto alle altre infrazioni del menzionato art. 2087 c.c., per il fatto di assumere rilievo principalmente in presenza di una serie di condotte legittime del datore di lavoro unificate da un intento persecutorio le quali, nonostante la formale correttezza dell’operato del detto datore, rappresentano, comunque, proprio in ragione di tale intento, un inadempimento agli obblighi derivanti dal citato art. 2087 c.c.
Il lavoratore che lamenti la violazione della prescrizione dell’art. 2087 c.c. è tenuto, sul piano della ripartizione dell’onere probatorio, a riscontrare il fatto costituente inadempimento dell’obbligo in questione nonché il nesso di causalità materiale tra l’inadempimento stesso ed il danno da lui eventualmente subito, mentre non è gravato dall’onere della prova relativa alla colpa del datore di lavoro danneggiante; peraltro, ove denunci la ricorrenza di un’ipotesi di mobbing, egli deve non solo allegare l’inadempimento datoriale e provare il titolo del suo diritto, il danno asseritamente subito e il nesso causale fra detto inadempimento e il pregiudizio lamentato, ma anche dimostrare l’intento persecutorio di controparte.