Un uso difforme del diritto di congedo parentale può condurre all’abuso di tale diritto, e costare il licenziamento. A scoprirlo è un padre che per più della metà dei giorni di congedo che aveva richiesto al proprio datore di lavoro, non si è dedicato al proprio figlio minore, con la conseguenza di andare incontro alla sanzione di definitiva cessazione del rapporto di lavoro. Una decisione confermata poi in sede di giudizio anche dalla Corte di Cassazione, che con la sentenza n. 509/2018 ha dunque spento ogni speranza dell’uomo di veder ribaltato il giudizio già espresso dalla Corte territoriale.
Il diritto al congedo parentale
Prima di comprendere per quale motivo i giudici di primo grado e d’Appello, e secondariamente quelli di Cassazione, si siano espressi in maniera così penalizzante per il lavoratore, giova compiere una piccola introduzione sul congedo parentale, rivisto dalla l. 53/2000 in relazione alla generale finalità di promuovere il sostegno della maternità e della paternità, e poi modificato dal d.lgs. 151/2001, che ha introdotto i congedi parentali disponendo che per ogni bambino, nei suoi primi otto anni di vita, ogni genitore ha il diritto di astenersi dal lavoro.
Questo diritto compete non solo alla madre lavoratrice, trascorso il periodo di congedo di maternità, per un periodo continuativo o frazionato non superiore a sei mesi, quanto anche al padre lavoratore, dalla nascita del figlio, per un periodo continuativo o frazionato non superiore a sei mesi. Il congedo parentale spetta inoltre al genitore richiedente anche se l’altro genitore non ne ha diritto.
In ogni caso, il genitore è tenuto a dare un preavviso al proprio datore di lavoro con le modalità e i criteri che sono definiti dai contratti collettivi, e comunque per un periodo di preavviso che non sia inferiore ai 15 giorni. Per i periodo di congedo parentale, alle lavoratrici e ai lavoratori sarà dovuta un’indennità calcolata in misura percentuale sulla retribuzione, secondo le modalità che sono previste per il congedo di maternità.
Congedo parentale come diritto potestativo
Considerato e alla luce di quanto precede, il congedo parentale viene pertanto configurato come un diritto potestativo, contraddistinto da un comportamento con cui il titolare realizza da solo l’interesse tutelato e a cui fa riscontro, nell’altra parte, una mera soggezione alle conseguenze della dichiarazione di volontà.
Peraltro, si tenga conto che – come rammentato dai giudici della Suprema Corte – questo diritto è esercitato con l’onere del preavviso sia nei confronti del datore di lavoro, nell’ambito del contratto di lavoro subordinato, con conseguente sospensione della prestazione del dipendente, sia nei confronti dell’istituto previdenziale, nell’ambito del rapporto assistenziale che viene costituito durante il periodo di congedo, con conseguente obbligo di corresponsione dell’indennità.
Congedo parentale e abuso di diritto
La Corte precisa tuttavia che il fatto che il congedo parentale costituisca un diritto potestativo non esclude la verifica delle modalità del suo esercizio nel proprio momento funzionale, attraverso accertamenti probatori che sono peraltro consentiti dal nostro ordinamento, ai fini della qualificazione del comportamento del lavoratore in questi ambiti.
In virtù di ciò, e delle ulteriori riflessioni degli Ermellini che, per brevità, non riportiamo, nel caso in cui si rilevi una condotta del dipendente contraria alla buona fede, o lesiva della buona fede altrui, nei confronti del datore di lavoro, che in presenza di un abuso di diritto di congedo si vede privato ingiustamente della prestazione lavorativa del dipendente, e sostiene così una lesione della fiducia che ha riposto nel medesimo, può ben scaturire il provvedimento di licenziamento.
In particolare, sostengono i giudici della Suprema Corte, può verificarsi abuso del diritto protestativo di congedo parentale nel caso in cui il diritto sia esercitato non per la cura diretta del bambino, bensì per attendere ad altra attività di lavoro, sebbene quest’ultima possa poi incidere positivamente sull’organizzazione economica e sociale della famiglia. Peraltro, analogo ragionamento può essere sviluppato anche in altre ipotesi, configurando un abuso del diritto anche in quei casi in cui il genitore trascuri la cura diretta del figlio non per dedicarsi ad altre attività lavorative, bensì ad altre generiche attività che impediscano di dedicare il tempo necessario al minore.
Insomma, la Corte è piuttosto chiara (e lo è stata anche in occasione di recenti pronunce) nel ritenere che l’assenza dal lavoro per fruizione del permesso di congedo parentale debba porsi in relazione diretta con l’esigenza per cui il soddisfacimento del diritto stesso è riconosciuto, ovvero l’assistenza al figlio minore. Tanto meno le norme sopra citate consentono di usare il permesso per delle necessità diverse da quelle proprie della funzione cui la norma è preordinata, nella contemporanea considerazione che il beneficio della previsione di legge comporta un sacrificio organizzativo per il datore di lavoro, che è giustificabile solo in presenza di esigenze riconosciute dal legislatore come meritevoli di una tutela superiore.
La sentenza della Corte
Di qui si arriva a comprendere per quale motivo la Suprema Corte abbia assunto una simile valutazione.
Il lavoratore licenziato, a difesa del suo comportamento, aveva infatti addotto che nel TU maternità e paternità non vi fosse alcuna traccia della esigenza di gestire il congedo garantendo al minore una presenza prevalente. Secondo i legali del dipendente licenziato, pertanto, l’istituto sarebbe volto genericamente a soddisfare i bisogni affettivi e relazionali del figlio.
Tuttavia, per la Corte questa giustificazione non sarebbe valida poiché – come sopra riportato – se è vero che il congedo parentale è un diritto potestativo, è anche vero che non può sottrarsi a controlli finalizzati a evitare che il lavoratore abusi di questo suo diritto, ledendo così l’affidamento che ha riposto in lui il datore di lavoro.
Per quanto infine concerne le attività svolte dal genitore durante il congedo, e idonee a giustificare il suo licenziamento, la Corte di Cassazione ha avuto modo di specificare come non sia affatto necessario che il lavoratore eserciti il diritto per attendere ad altra attività lavorativa, bensì sia sufficiente che egli si dedichi a qualunque altra attività non direttamente relazionata alla cura del bambino.