Conto corrente cointestato, cosa accade in caso di decesso – una guida rapida
- Cosa accade dopo il decesso
- L’azione di reintegra
- Il conto cointestato in banca
- La pronuncia della Suprema Corte
- La violazione della normativa
- L’interruzione della prescrizione
- L’inammissibilità del ricorso
Torniamo oggi a parlare di conto corrente cointestato, una prassi piuttosto diffusa nella realtà bancaria italiana. Attraverso questo tipo di conto, infatti, due o più correntisti decidono di condividere il rapporto con l’istituto di credito, divenendo contemporaneamente titolari dello stesso.
Ma che cosa accade nelle ipotesi di decesso di uno dei contitolari? Gli altri titolari possono operare correntemente o il conto corrente si blocca fino all’esaurimento della pratica di successione?
È recentemente intervenuta su questo tema la sentenza n. 7862/2021 da parte della Corte di Cassazione che, con il proprio giudizio, ha contribuito a fare un po’ di chiarezza su tale argomento.
Conto cointestato, cosa accade dopo il decesso del contitolare
Cominciamo subito con il rammentare che le consuetudini bancarie fanno discendere gli effetti del decesso del contitolare di un conto cointestato a seconda del modo con cui sono regolate le firme:
- in caso di firma disgiunta i titolari in vita sono autorizzati ad operare sul conto;
- in caso di firma congiunta i titolari non possono operare sul conto, che viene bloccato dalla banca fino al completamento della procedura di successione.
Tuttavia, con sentenza dello scorso 19 marzo 2021, la Corte di Cassazione ha stabilito che nelle ipotesi di conti cointestati con firma disgiunta, se una persone contitolari dovesse morire, l’altra avrebbe il diritto di domandare l’adempimento dell’intero saldo del conto o del libretto, liberando così la banca verso gli eredi del contitolare deceduto. Esaminiamo più attentamente le ragioni della decisione.
L’azione di reintegra
Con sentenza n. 17089/2010 il Tribunale di Roma rigettava la domanda con cui gli eredi del contitolare deceduto proponevano azione di reintegra della propria quota di legittima, nei confronti degli altri eredi, presso cui la de cuius aveva un conto corrente cointestato con il defunto.
Contro questa sentenza le parti attrici hanno proposto appello, con resistenza della banca convenuta. La Corte d’Appello, tuttavia, con sentenza n. 4503/2016 rigettava le proposte.
Nella motivazione la Corte rammentava come la de cuius, con testamento olografo, avesse attribuito l’usufrutto generale sui beni relitti al convivente, e che nella denuncia di successione erano state indicate anche le somme giacenti su un conto corrente di cui la defunta era cointestataria con il convivente.
In particolare, nella citazione si lamentava che l’istituto di credito avesse consentito all’altra cointestatario di prelevare l’intero importo depositato. E, quindi, pregiudicando nella sostanza il diritto delle attrici alla propria quota successoria. Per le attrici, dunque, doveva ritenersi come l’azione avanzata nei confronti della banca avesse una natura contrattuale per inadempimento degli obblighi che scaturiscono dal contratto di deposito bancario.
Il conto cointestato in banca
Ricostruendo quanto avvenuto, i giudici della Suprema Corte rammentando come presso l’istituto di credito era stato acceso un conto corrente cointestato tra la de cuius e il convivente. Il convivente, dopo la morte della de cuius, aveva prelevato l’intera giacenza, senza che l’istituto di credito si opponesse a tale comportamento.
La tesi delle attrici, ovvero che la banca fosse consapevole del decesso trova così ricostruzione. E che, nonostante tale conoscenza, avesse permesso che l’usufruttuario ponesse in essere una condotta illegittima, divenendo concorrente dello stesso.
Viene altresì sostenuto che non sarebbe intercorsa alcuna prescrizione. Varie lettere sarebbero infatti state inviate tra le parti, attestando l’interruzione dei termini.
La pronuncia della Suprema Corte
I giudici della Suprema Corte affrontano dunque i vari motivi di ricorso.
In primo luogo, evidenziamo come, sulla base di una giurisprudenza oramai più volte affermata, nel caso in cui il deposito bancario sia intestato a più persone, con facoltà per le medesime di compiere, sino all’estinzione del rapporto, operazioni, attive e passive, anche disgiuntamente, si realizza una solidarietà dal lato attivo dell’obbligazione che sopravvive alla morte di uno dei contitolari. Dunque, il contitolare superstite ha il diritto di chiedere, anche dopo la morte dell’altro, l’adempimento dell’intero saldo del libretto di deposito al risparmio. L’adempimento così eseguito libera la banca verso gli eredi dell’altro contitolare.
Dunque, emergerebbe in modo evidente come la domanda posta dalle attrici sarebbe nel merito infondata. È infatti uno specifico obbligo della banca, scaturente dalla disciplina del contratto bancario, quello di consentire al singolo cointestatario, anche dopo la morte dell’altro titolare del conto, di poter disporre delle somme depositate.
Naturalmente, anche in questo contesto rimane ferma la necessità di verificare la correttezza di questa attività nell’ambito dei rapporti interni tra colui che ha prelevato e gli eredi del cointestatario deceduto. Nella fattispecie in esame, i rapporti erano stati oggetto di definizione in via transattiva.
La violazione della normativa
La Corte di Cassazione continua poi sostenendo che sarebbe inammissibile anche la parte del ricorso in cui le attrici denunciano una violazione di legge. Manca infatti l’indicazione della norma sostanziale o processuale violata dai giudici territoriali.
Ricostruendo quanto accaduto, la Corte d’Appello, avvalendosi della documentazione che è presente nel fascicolo ricostruito, ha rilevato che mancavano atti effettivamente idonei a determinare l’effetto interruttivo della prescrizione.
Dinanzi a questa affermazione la parte ricorrente aveva assunto in modo generico che i documenti presenti nella propria produzione comproverebbero l’avvenuta interruzione della prescrizione. Tuttavia, manca ogni indicazione dei documenti ai quali si intende annettere questa efficacia. E, in ogni caso, dove essi siano effettivamente reperibili, anche all’interno del fascicolo oggetto di ricostruzione a cura della ricorrente.
Dunque, anche ove volesse opinarsi che la mancanza di esame e di valutazione di tutta la documentazione presente nel fascicolo della ricorrente – si legge nelle motivazioni della sentenza – l’onere di indicare, ai fini dell’ammissibilità del motivo, la mancanza dell’esame del documento decisivo ricade sulla ricorrente. La quale, evidentemente, deve trascriverne, anche in via sintetica, il contenuto.
L’interruzione della prescrizione
Inoltre, aggiungono gli Ermellini, senza avvedersi della ratio individuata dal giudice di appello, che ha scelto di ritenere come ai fini dell’interruzione della prescrizione fosse necessario che l’atto manifesti la volontà precisa delle parte di far valere il proprio diritto nei confronti del destinatario della messa in mora, la ricorrente si limita a richiamare, sempre in modo generico, l’esistenza di atti volti a ricostruire l’asse ereditario, senza contrastare l’affermazione del giudice di appello secondo cui la sola richiesta di conoscere la situazione bancaria della de cuius non equivale a sollevare contestazioni di legittimità del comportamento della banca e, dunque, a porre in essere un valido atto interruttivo, omettendo così di mettere in evidenza il carattere decisivo del fatto di cui sarebbe stata omessa la disamina.
Ancora, i giudici della Suprema Corte affermano l’inammissibilità della denuncia del vizio di motivazione, considerato che mancherebbe la puntuale individuazione del fatto della presunta omissione della disamina del giudice di appello, non essendo più dato, a fronte della riforma ex art. 360 co. 1 n. 5 c.p.c., limitarsi a denunciare la assunta contraddittorietà della motivazione, ove la stessa non assuma invece caratteri di anomalia in contrasto con il requisito del minimo costituzionale della motivazione, che nella fattispecie non si sarebbero riscontrati.
L’inammissibilità del ricorso
Ulteriormente il ricordo deve essere dunque dichiarato inammissibile. Non risultano però, nella fattispecie, essere presenti i presupposti per l’accoglimento della richiesta della controricorrente, della cancellazione delle espressioni sconvenienti e offensive, quanto al riferimento ad una possibile sottrazione del fascicolo di parte, trattandosi infatti di espressioni che non pongono come certo tale evento, ma in termini solo probabilistici, e senza che peraltro ne risulti attribuiti la paternità alla controparte, non rinvenendosi quindi nelle stesse un passionale e scomposto intento dispregiativo, e non emergendo dunque un intento offensivo nei confronti della controparte. Si conserva pur sempre – si legge ancora nelle motivazioni – un rapporto anche indiretto con la materia controversa, senza eccedere dalle esigenze difensive.
In conclusione, considerata la proposizione del ricorso successivamente alla data del 30 gennaio 2013 e la sua inammissibilità, ci sono le condizioni per la sussistenza dell’obbligo di versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello determinato per il ricorso.
Per questo motivo i giudici dichiarano inammissibile il ricorso. E condannano la parte ricorrente al rimborso in favore della controricorrente delle spese di giudizio, oltre alle spese generali.