Convivenza di fatto more uxorio: coabitare è obbligatorio o no? – guida rapida
Con Cass. civ., sez. I, ord., 7 marzo 2023, n. 6810, la Corte di Cassazione ha chiarito se in tema di convivenza di fatto more uxorio coabitare rappresenti o meno un obbligo.
Come sempre, cerchiamo di ricostruire che cosa abbia sancito tale sentenza, cominciando dalla ricostruzione sintetica del caso.
Convivenza di fatto more uxorio e obbligo di coabitazione
Nel procedimento ex art. 337 bis c.c. promosso da una donna nei confronti dell’ex compagno, il Tribunale di Bergamo ha affidato le due figlie minori ad entrambi i genitori, non coniugati, rigettandole le reciproche domande di collocamento delle figlie presso ciascun genitore, dando atto che le stesse coabitavano con i genitori nella casa familiare. Il tribunale ha anche posto l’obbligo ad entrambi i genitori di mantenere direttamente le figlie minori in misura proporzionale al proprio reddito, compensando le spese del procedimento e rigettando ogni altra domanda.
Il decreto del giudice venne però reclamato dalla donna, che ne chiese la modifica e/o la revoca. L’ex compagno chiese la conferma del decreto, ovvero in subordine la modifica dello stesso nei sensi da lui stesso proposti.
Si giunge così in secondo grado di giudizio, con la Corte di appello di Brescia che, posta la preliminare considerazione che il presupposto per l’applicazione dell’art. 337 bis e ss. c.c. non è costituita dalla cessazione della convivenza, bensì dalla cessazione della unione materiale e spirituale tra le parti e la volontà, anche solo di una di esse, di non proseguire nel progetto familiare, ha accolto il reclamo della donna.
In particolare, i giudici di seconde cure hanno dato atto che le parti concordavano sul fatto che fosse rispondente all’interesse delle minori continuare ad abitare nella casa familiare, riformando così la prima decisione e stabilendo, previa conferma dell’affidamento condiviso delle figlie ad entrambi i genitori, il collocamento prevalente delle stesse presso la madre, a cui ha assegnato la casa familiare, con conseguente regolamentazione dei rapporti padre/figlie e determinazione dei provvedimenti di carattere economico.
Nello specifico, la Corte pose a carico del padre un assegno di mantenimento per ciascuna figlia di 1.000 euro mensili, il 100% delle spese straordinarie relative alla scuola ed alla salute ed il 70% delle altre spese straordinarie. Rimanevano invece di competenza della madre le spese riconducibili al restante 30%, valutata la disparità economica tra le parti.
L’uomo propone ricorso in Cassazione.
I motivi del ricorso sulla base dell’intollerabilità della convivenza
Il primo motivo del ricorso riguarda la violazione e falsa applicazione degli artt. 337 bis, 337 ter e ss. c.c. In particolare, la censura si riferisce alla statuizione con cui la Corte d’appello ha accolto la domanda di collocamento privilegiato delle figlie presso la madre, cui ha assegnato la casa familiare.
Il ricorrente sostiene la validità della scelta operata dal Tribunale che, preso atto della ancora perdurante coabitazione delle parti presso la casa familiare, non aveva adottato alcun provvedimento circa il collocamento privilegiato delle figlie e la assegnazione della casa familiare. Di contro, si lamenta della decisione impugnata perché, a suo parere, “sarebbe stata fondata sulla apodittica affermazione dell’esistenza di una intollerabilità della convivenza, solo dedotta dalla appellante, senza considerare che, pur essendo venuto meno il progetto affettivo di coppia, il permanere del comune interesse per la crescita e l’educazione delle figlie, era sufficiente a giustificare la scelta del Tribunale”.
Il secondo motivo riguarda invece la presunta violazione della Cost., art. 111, comma 6, e degli artt. 132, comma 2, n. 4, 360, comma 1, n. 4, c.p.c.. La censura riguarda la parte della statuizione in cui la Corte di merito ha fatto riferimento alla intollerabilità attuale della convivenza, presumendola – secondo il ricorrente – dalla circostanza che le parti non erano riuscite a trovare un accordo, pur avendo aderito ad un percorso di mediazione, motivazione che contesta evidenziando – a suo parere – contraddizioni insanabili della stessa.
Il giudizio in Cassazione
Per i giudici di cassazione i due motivi, che vengono trattati in modo congiunto, sono respinti poiché in parte inammissibili e in parte infondati.
Nelle sue valutazioni la Corte ricorda che in primo luogo che per le famiglie di fatto non trova applicazione la disciplina delineata dagli artt. 143 e ss. c.c. e, in particolare:
- dall’art. 144 c.c., sulla fissazione della residenza della famiglia, che deve essere concordata a cura dei coniugi secondo le esigenze di entrambi e quelle preminenti della famiglia,
- dall’art. 146 c.c., che sanziona l’allontanamento dalla residenza familiare di uno dei coniugi senza giusta causa
- e dall’art. 151, comma 1, c.c., laddove stabilisce che “la separazione può essere chiesta quando si verificano, anche indipendentemente dalla volontà di uno o di entrambi i coniugi, fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza o da recare grave pregiudizio all’educazione della prole” perché nella convivenza di fatto more uxorio la scelta di coabitare è libera e non consegue ad un obbligo giuridico, tanto è vero che “in materia di famiglia di fatto non fondata sul matrimonio, non essendo le parti legate da vincolo di coniugio, la cessazione del rapporto avviene ad nutum, ovvero senza necessità per l’autorità giudiziaria di accertare il carattere irreversibile della crisi del rapporto attraverso l’espletamento di tentativo di conciliazione, atteso che l’esame del Tribunale risulta elettivamente diretto alla verifica dell’adeguatezza degli accordi raggiunti per l’interesse della prole minore, alla luce del disposto normativo di cui all’art. 155 comma 2 c.c.” (così, Cass. n. 10102/2004).
Ciò premesso, i giudici di legittimità osservano che nel caso in esame il richiamo all’intollerabilità della convivenza non costituisce ratio decidendi, ma rileva come mero elemento ad colorandum, a sostegno della scelta operata dalla Corte di appello che trova la sua fonte in altre e ben precise disposizioni.
Assegnazione della casa familiare
Ancora, la Corte ricorda che da tempo è stato affermato che “in tema di assegnazione della casa familiare, l’art. 155-quater c.c., applicabile anche ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati, tutela l’interesse prioritario della prole a permanere nell'”habitat” domestico, postulando, oltre alla permanenza del legame ambientale, la ricorrenza del rapporto di filiazione legittima o naturale cui accede la responsabilità genitoriale, mentre non si pone anche a presidio dei rapporti affettivi ed economici che non involgano, in veste di genitori, entrambi i componenti del nucleo che coabitano la casa familiare oppure i figli della coppia che, nella persistenza degli obblighi di cui agli artt. 147 e 261 c.c., abbiano cessato di convivere nell’abitazione, già comune, allontanandosene” (Cass. n. 18863/2011), con un principio che è oggi stato ricondotto negli artt. 337 bis e ss. c.c..
Pertanto, aggiunge la corte, una volta che è intervenuta la cessazione della convivenza di fatto more uxorio a trovare applicazione sono proprio gli artt. 337 bis e ss. c.c..
Quindi, considerato che non si discute in tal sede l’affidamento condiviso delle minori e la sussistenza dell’interesse delle stesse a permanere presso la casa familiare, si osserva come la censura concerne la statuizione di assegnazione della casa familiare e di collocazione prevalente propone un’errata e non condivisibile interpretazione ed applicazione dell’art. 337 ter c.c..
Ora, per realizzare gli scopi del comma 1 dell’art. 337 ter c.c., ovvero permettere il pieno esercizio della bigenitorialità, il legislatore affida al giudice, nei procedimenti di cui all’art. 337 bis c.c., come avvenuto nel caso in esame, il compito di adottare i provvedimenti necessari con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale dei minori.
Le conclusioni
In questo ambito – si legge ancora – egli “valuta prioritariamente la possibilità che i figli minori restino affidati a entrambi i genitori oppure stabilisce a quale di essi i figli sono affidati, determina i tempi e le modalità della loro presenza presso ciascun genitore, fissando altresì la misura e il modo con cui ciascuno di essi deve contribuire al mantenimento, alla cura, all’istruzione e all’educazione dei figli. Prende atto, se non contrari all’interesse dei figli, degli accordi intervenuti tra i genitori. Adotta ogni altro provvedimento relativo alla prole, ivi compreso, in caso di temporanea impossibilità di affidare il minore ad uno dei genitori, l’affidamento familiare“.
Contrariamente a quanto ritenuto dal ricorrente, poi, il legislatore quando parla di affidamento “ad entrambi i genitori”, si riferisce all’affidamento condiviso cui consegue l’esercizio congiunto della responsabilità genitoriale, su cui ritorna nell’art. 337 quater c.c., e non al collocamento fisico (“presenza”) dei minori, sul quale il giudice si deve anche distintamente pronunciare, e che è disciplinato dal successivo periodo dell’art. 337 ter c.c., ove è detto “determina i tempi e le modalità della loro presenza presso ciascun genitore, fissando altresì la misura e il modo con cui ciascuno di essi deve contribuire al mantenimento, alla cura, all’istruzione e all’educazione dei figli”.
Dunque, la Corte di appello ha ritenuto che il Tribunale abbia omesso la doverosa pronuncia in merito a questi specifici provvedimenti concernenti i figli ed abbia deciso, nel rispetto della disposizione invocata ed avendo preso atto della volontà comune di non proseguire nel progetto di coppia – circostanza incontestata -, in merito all’assegnazione della casa familiare ed alla collocazione privilegiata dei minori presso la madre, con regolamentazione del diritto di visita paterno, con ampia motivazione immune da vizi logico/giuridici.
Il ricorso va dunque rigettato.