Convivenza interrotta e maltrattamenti in famiglia? – guida rapida
- L’evoluzione della giurisprudenza
- Le condotte vessatorie dopo la cessazione della convivenza
- L’intervento della Corte Costituzionale
- L’interpretazione della Corte
- L’interpretazione letterale della norma
Le vessazioni tra ex partner se la convivenza si è interrotta qualificando ancora i maltrattamenti in famiglia? O ci si può limitare agli atti persecutori?
Di ciò si è occupata la recente Cass. pen., sez. VI, ud. 27 settembre 2022 (dep. 30 novembre 2022), n. 45520, che – nelle sue motivazioni – ha confermato quanto già espresso da un consolidato orientamento giurisprudenziale: la fine della convivenza tra due persone determina anche il venire meno di un rapporto di prossimità fra la vittima e l’autore delle vessazioni.
Pertanto, spiega la Corte di Cassazioni, non è configurabile il reato di maltrattamenti in famiglia.
Più nel dettaglio, nelle sue motivazioni la Suprema Corte ricorda come la sentenza impugnata abbia fornito un dato certo per quanto riguarda l’inizio delle condotte maltrattanti, precisando come queste ebbero inizio a decorrere dal 20 maggio 2012, quando cessò la convivenza della coppia.
Ne deriva che, proseguono i giudici, i fatti oggetto dell’imputazione si collocano in un periodo in cui tra l’imputato e la persona offesa era venuta meno la convivenza more uxorio, il che impone di valutare d’ufficio la possibilità di ricondurre tale fattispecie nell’ambito del reato di maltrattamenti in famiglia.
Si fornisce inoltre atto del fatto che la questione era già stata esaminata in fase di appello e che si era risolta nel senso di ritenere la configurabilità del reato ex art. 572 c.p., anche se i comportamenti erano stati realizzati ai danni di persona non più convivente, sulla base di quello che era l’orientamento giurisprudenziale all’epoca prevalente.
La questione merita tuttavia di essere rivalutata alla luce del mutamento di giurisprudenza intervenuto sul punto e indotto anche da una precisa indicazione che proviene da una recente sentenza della Corte Costituzionale.
L’evoluzione della giurisprudenza
Nella sentenza gli Ermellini ricordano dunque che seppur in modo non uniforme, la pregressa giurisprudenza era prevalentemente orientata nel ritenere configurabile il diritto di maltrattamenti in famiglia anche nei casi di cessazione della convivenza more uxorio, quando tra i soggetti permaneva un vincolo assimilabile a quello familiare, in relazione a una mantenuta consuetudine di vita comune o dell’esercizio condiviso della responsabilità genitoriale ex art. 337 ter c.c.
Quindi, la decisione oggetto di richiamo si inseriva in un orientamento di legittimità ad avviso del quale il reato di maltrattamenti in famiglia sarebbe comunque configurabile, nonostante l’avvenuta cessazione della convivenza, se la relazione tra i soggetti rimane pur sempre connotata da vincoli solidaristici. Si configurerebbe invece il reato di atti persecutori ex art. 612 bis c.p., comma 2, quando non residui nemmeno un’aspettativa di solidarietà nei rapporti tra l’imputato e la persona offesa, non risultando insorti vincoli affettivi e di assistenza assimilabili a quelli tipici della famiglia o della convivenza abituale.
Le condotte vessatorie dopo la cessazione della convivenza
Di contro, secondo altro indirizzo giurisprudenziale, le condotte vessatorie che sono poste in essere da parte di uno dei conviventi more uxorio ai danni dell’altro, dopo la cessazione della convivenza, non sono riconducibili al reato di maltrattamenti in famiglia, potendosi invece ravvisare l’ipotesi aggravata del reato di atti persecutori ex art. 612 bis c.p., comma 2, o in difetto dei requisiti previsti, ulteriori e diverse ipotesi di reato, come le lesioni personali e le minacce.
L’intervento della Corte Costituzionale
Giova a questo punto ricordare come nella sentenza n. 98 del 2021 della Corte Costituzionale si sia sottolineata la necessità di verificare se e quali relazioni affettive non tradizionali potessero rientrare nella nozione di famiglia o di convivenza.
La Corte aveva qui sottolineato come il rispetto del principio dettato dall’art. 25 Cost. impedisca di riferire la norma incriminatrice a comportamenti non ascrivibili in alcuno dei significati letterali usati dal legislatore per la tipizzazione dell’illecito. In questo modo, si pone l’accetto sulla necessità che i termini impiegati per descrivere la fattispecie di reato siano interpretati in maniera tale da non alterare l’intrinseco significato delle nozioni che descrivono l’elemento oggettivo del reato.
In particolare, ponendo l’accento sul divieto di analogia, la Corte Costituzionale ha sottolineato la necessità di un’interpretazione dell’art. 572 c.p.p. che sia ancorata ai concetti di famiglia e convivenza, evitando invece che, pur nel comprensibile intento di estendere l’ambito della tutela penale, si possa arrivare a una analogia in malam partem, riconducendo così al reato di maltrattamenti in famiglia anche condotte poste in essere ai danni di soggetti nei cui confronti non è configurabile una relazione, attuale e privilegiata, con l’autore dell’illecito che possa giustificare la più grave risposta sanzionatoria.
L’interpretazione della Corte
Lo spunto recente formulato dalla Corte Costituzionale ha imposto per la Corte di Cassazione la necessità di verificare la correttezza dell’interpretazione che è favorevole alla configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia anche nel caso in cui la condotta illecita intervenga tra soggetti che abbiano interrotto una relazione more uxorio.
Così facendo, la Suprema Corte sottolinea come se si valorizza il dato normativo contenuto all’art. 572 c.p., si deve necessariamente concludersi che la norma descrive un comportamento illecito intercorso tra soggetti conviventi. Lì dove tale sostantivo fa riferimento ad una relazione in atto e non già cessata.
Di contro, nelle ipotesi in cui il legislatore si è riferito anche a rapporti di natura affettiva cessati al momento della commissione del reato, ha specificato tale peculiare aspetto della condotta (si pensi al disposto dell’art. 612 bis c.p., comma 2). Nell’art. 572 c.p., non vi è traccia di una simile specificazione.
L’interpretazione letterale della norma
La conferma della correttezza dell’interpretazione letterale della norma si desume anche dalla ratio della norma incriminatrice. L’art. 572 c.p. è disposizione volta ad apprestare una tutela rafforzata in presenza di un rapporto di prossimità tra autore del reato e persona offesa. Come quello che, tipicamente, si instaura tra persone legate da vincoli familiari o, comunque, conviventi.
Inoltre, nel procedere all’interpretazione della norma bisogna anche tener conto del disposto dell’art. 572 c.p., comma 1. Qui la fattispecie fa riferimento non solo a
una persona della famiglia o comunque convivente
quanto anche a
una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia o per l’esercizio di una professione.
Dunque, la ratio dell’incriminazione è volta a sanzionare quelle condotte maltrattanti la cui commissione è agevolata dal rapporto di stabile prossimità che si instaura tra autore del reato e persona offesa. Ne deriva che è la frequentazione prolungata e la continua possibilità per il soggetto maltrattante di interagire con la vittima che descrivono la fattispecie. Proprio la prossimità tra vittima e soggetto maltrattante è peraltro anche l’elemento che giustifica il trattamento sanzionatorio più grave rispetto a quello applicabile in assenza di una stabile relazione.
Applicando tali valutazioni ai casi di quei soggetti che hanno cessato una pregressa relazione di convivenza more uxorio, si giunge così alla conclusione secondo cui
l’interruzione della convivenza determina il venir meno del rapporto di necessaria prossimità tra vittima ed autore degli illeciti e, quindi, impedisce la configurabilità del reato di maltrattamenti.
Avv. Bellato – diritto civile e di famiglia