Credito di imposta non dichiarato: le conseguenze – guida rapida
- La cartella di pagamento contestata
- Perché è sorto il minore credito di imposta
- Il controllo del 2020
- I motivi della contestazione del contribuente
- La massima
Cosa accade al contribuente che non dichiara il credito di imposta? Il credito di imposta è comunque utilizzabile o senza la relativa dichiarazione non può essere fruito?
A occuparsi del tema è la sentenza della Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado della Campania, con la pronuncia del 21 giugno 2024, n. 4017/11.
La cartella di pagamento contestata
Il caso trae origine dall’appello depositato da un contribuente, che impugnava la sentenza della Corte di Giustizia Tributaria di primo grado, con cui veniva rigettato il ricorso presentato per far valere l’illegittimità della cartella di pagamento.
La cartella risulta emessa a seguito di un controllo automatizzato, in base al quale veniva riconosciuto ai fini IRPEF un minore credito di 28.754 euro, variando così il credito dell’importo dichiarato di 60.404 euro in quello riconosciuto di 31.650 euro, nonché sanzioni e interessi consequenziali. Altre riduzioni del credito di imposta erano poi riconosciute per le relative addizionali.
Perché è sorto il minore credito di imposta
La rettifica negli importi del credito di imposta sorgeva in seguito a una vicenda iniziata qualche anno prima. Nel 2016, infatti, il contribuente riceveva dall’Agenzia delle Entrate la notifica di una comunicazione relativa all’anno di imposta 2013, con cui l’ente gli rappresentava la spettanza di un credito di 27.896 euro, che non poteva più essere inserito dal contribuente nella dichiarazione fiscale per l’anno 2013 poiché non poteva più formare oggetto di integrativa a favore.
Ha poi seguito un’altra comunicazione, mai formalmente notificata, con cui l’Agenzia delle Entrate rappresentava al contribuente la spettanza del credito di 32.338 euro per l’anno di imposta 2014.
Nel 2019 il contribuente integrava le dichiarazioni degli anni 2014, 2015 e 2016 e presentava dichiarazione nel 2017 esponendo un credito di 60.404 euro, calcolato come somma dei crediti provenienti dal 2016 e crediti da ritenute non utilizzate in compensazione, oltre che eccedenze di imposta risultanti da una precedente dichiarazione compensata con modello F24.
Il controllo del 2020
Nel 2020, con comunicazione da parte dell’Agenzia delle Entrate – Direzione provinciale, l’ente procedeva al controllo automatizzato della posizione fiscale del contribuente per l’anno di imposta 2017, formalizzando la decisione di non condividere la scelta del riporto del credito di imposta negli anni successivi al 2014, ritenendo invece che sia più corretto procedere a far emergere il maggiore credito relativo al 2014 nel quadro DI della dichiarazione relativa all’anno di imposta in cui è stata presentata l’integrativa (il 2019), potendo essere utilizzato per eseguire il versamento dei debiti maturati a partire dal periodo successivo.
A questo punto, seguendo le indicazioni degli stessi funzionari dell’Agenzia delle Entrate, attraverso il proprio consulente fiscale, il contribuente il 10 dicembre 2020 provvedeva a presentare la dichiarazione fiscale per l’anno 2019, esponendo nel Quadro DI un credito d’imposta di euro 32.338,00, come derivante dall’anno d’imposta 2014.
In altri termini, il credito d’imposta in contestazione, per euro 28.754,00, pur essendo riportato nelle dichiarazioni relative agli anni d’imposta 2014, 2015, 2016 e 2017, non formava oggetto di compensazione nell’anno 2017 in discussione, essendo stato compensato solo nell’anno 2019, vale a dire, dopo essere stato esposto nel Quadro DI della dichiarazione fiscale per l’anno 2019, come richiesto dall’Agenzia delle Entrate.
Infine, l’Agenzia delle Entrate-Riscossione il 15 marzo 2022 notificava la cartella di pagamento sull’anno d’imposta 2017, relativamente all’importo di euro 41.093,04, per crediti d’imposta IRPEF non spettanti, oltre sanzioni e interessi, euro 338,23, per IRAP non versata, oltre sanzioni e interessi, nonché euro 1.242,96 per oneri di riscossione ed euro 5,88 per diritti di notifica.
I motivi della contestazione del contribuente
Il contribuente eccepisce a questo punto l’illegittimità della cartella sotto diversi profili, sia formali che di merito. Con riguardo a quelli di merito, sottolineava come l’amministrazione non avesse mai posto in discussione la sussistenza del credito di imposta e, come, in realtà, lo stesso non fosse stato utilizzato per l’anno 2017 ovvero quello al quale si riferisce la cartella.
In sostanza, per il contribuente i giudici di prime cure hanno ritenuto che – trattandosi di un credito maturato nell’annualità 2013 – ad esso non può applicarsi la disposizione di cui all’art.5 del DL 193/2016 secondo cui le integrazioni fiscali sono consentite con il termine lungo solo per le dichiarazioni presentate dopo il 22.10.2016.
La natura innovativa della norma
Evidenzia dunque come l’articolo 5 D.L. 193/2016 abbia natura innovativa (cioè è una norma nuova, che non esisteva prima), e solo le correzioni presentate dal 22.10.2016 hanno più tempo per essere inserite in una dichiarazione integrativa a favore del contribuente. Cita quindi l’art. 2, ottavo comma, del D.P.R. n. 322/1998, secondo cui le dichiarazioni dei redditi, Irap e dei sostituti d’imposta possono essere integrate per correggere errori od omissioni, attraverso la presentazione di una successiva dichiarazione, da presentare comunque entro i termini di cui all’art. 43 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600.
La ricostruzione risulta peraltro essere condivisa anche dai giudici della Suprema Corte: per la Corte di Cassazione, infatti, (ordinanza 28 giugno 2019, n. 17506), la modifica non ha efficacia retroattiva, non trattandosi di norma di interpretazione autentica. Di conseguenza, per le fattispecie verificatesi anteriormente, il termine si applica solo se la dichiarazione integrativa è finalizzata a evitare un danno per la Pubblica Amministrazione. Di contro, se è finalizzata a emendare errori od omissioni in danno del contribuente, dev’essere presentata entro il termine della dichiarazione per il periodo d’imposta successivo, con la compensazione del credito eventualmente risultante.
Resta comunque ferma la possibilità per il contribuente di presentare un’istanza di rimborso entro il diverso termine previsto dalla legge.
I motivi della decisione, ecco perché l’appello è accolto
Per i giudici tributari di secondo grado l’appello deve essere accolto. Ma per quali motivi?
La Corte di seconde cure sottolinea come i giudici di legittimità – aderendo ad un’interpretazione meno formalistica e costituzionalmente orientata al canone dell’effettiva capacità contributiva di cui all’art. 53 della Costituzione – abbiano effettivamente affermato che, nell’ipotesi in cui l’Amministrazione finanziaria recuperi un credito esposto nella dichiarazione oggetto di liquidazione, maturato in una annualità per la quale la dichiarazione risulti omessa, il contribuente può dimostrare, mediante la produzione di idonea documentazione, l’effettiva esistenza del credito non dichiarato.
In questo modo, si legge ancora nella pronuncia, è posto nella stessa condizione in cui si sarebbe trovato (salvo sanzioni ed interessi) se avesse presentato correttamente la dichiarazione, atteso che, da un lato, il suo diritto nasce dalla legge e non dalla dichiarazione e, da un altro, in sede contenziosa, ci si può sempre opporre alla maggiore pretesa tributaria del Fisco, allegando errori, di fatto o di diritto, commessi nella redazione della dichiarazione, incidenti sull’obbligazione tributaria.
I giudici, in particolare, citano l’ordinanza 13902 con cui la Suprema Corte ha stabilito un precedente assolutamente in termini con la vicenda processuale odierna, annullando una decisione della CTR che aveva ritenuto legittima l’iscrizione a ruolo con riferimento ad una ripresa IRPEF, per essere stato il credito di imposta maturato utilizzato in compensazione in un determinato anno d’imposta senza che il contribuente avesse indicato tale credito nella dichiarazione mod. Unico dell’anno precedente. Il tutto, senza considerare che, nella specie, non emergeva una specifica contestazione da parte dell’Ufficio della inesistenza sostanziale del credito. Quest’ultimo aveva infatti incentrato l’assunto disconoscimento del vantato credito Irpef soltanto sulla circostanza, di rilievo formale, della impraticabilità del riporto in avanti dello stesso in caso di omessa presentazione o di omessa indicazione del credito nella dichiarazione annuale.
La massima
La massima in rassegna sentenze tributarie del MEF – Dipartimento della Giustizia Tributaria è dunque la seguente:
Il contribuente può sempre dimostrare, mediante produzione di idonea documentazione, l’effettiva esistenza di un credito non dichiarato atteso che, da un lato, il suo diritto nasce dalla legge e non dalla dichiarazione e dall’altro, egli può sempre opporsi in sede contenziosa ad una maggior pretesa tributaria del Fisco.
Sulla base di questo principio – espresso in precedenza anche da Cass. n. 13902/2023 e n. 10290/2022 – la Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado della Campania ha accolto l’appello del contribuente e annullato la cartella di pagamento emessa nei confronti di quest’ultimo. In particolare, la cartella impugnata derivava da un controllo automatizzato dell’Amministrazione finanziaria che non teneva conto del riporto del credito d’imposta a catena nelle dichiarazioni fiscali successive.