Danno all’immagine in re ipsa – indice
Il danno all’immagine, inteso come danno conseguenza, sussiste in “re ipsa” o no? A cercare di dirimere tale dubbio è stata recentemente la sentenza n. 4005 del 18 febbraio 2020 della Cassazione civile, che si è occupata del tema innovando parzialmente le valutazioni finora condivise dalla giurisprudenza.
Il caso
Il caso trae origine dalla pubblicazione di una notizia errata su un quotidiano locale, in cui un progettista veniva indicato come direttore dei lavori in un progetto poi caratterizzato da un’inchiesta per abuso d’ufficio, deturpazione e distruzione di bellezze naturali.
Il professionista era in realtà estraneo a questa vicenda. Era invece stato coinvolto solo in precedenza, per altre ipotesi accusatorie.
Il giudice di prime cure condannava la società responsabile della testata al risarcimento dei danni all’immagine, quantificati in 10.000 euro, e alla pubblicazione della condanna su diverse testate locali. La sentenza veniva confermata in sede d’appello. Di conseguenza, la società ricorreva in Cassazione.
Il ricorso
Con un solo motivo la società ricorrente deduce ex art. 360 comma n. 3 del codice di procedura civile la violazione o falsa applicazione degli articoli 1126, 2059, 2697 e 2729 del codice civile.
In particolare, ci si riferisce alla mancata prova del danno non patrimoniale in concreto subito, laddove il criterio equitativo non potrebbe valere per poter sopperire a carenze probatorie, avendo i giudici di merito dimostrato di aver svolto un ragionamento basato sulle sole presunzioni semplici, e dunque in violazione dell’articolo 2729 del codice civile, considerato che l’unica fonte di prova allegata era stata rinvenuta nel curriculum professionale del professionista.
Ricordiamo che l’articolo 2729 del codice civile, rubricato “Presunzioni semplici”, afferma che “le presunzioni non stabilite dalla legge sono lasciate alla prudenza del giudice, il quale non deve ammettere che presunzioni gravi, precise e concordanti”. E, al secondo comma, che “le presunzioni non si possono ammettere nei casi in cui la legge esclude la prova per testimoni”.
Il motivo è ritenuto però inammissibile. Vediamo per quali motivi.
L’illecito di diffamazione
I giudici sottolineano innanzitutto come in tema di responsabilità civile per illecito di diffamazione, il danno all’immagine e alla reputazione, in termini di danno conseguenza, non sussiste in re ipsa. Dunque, il danno deve essere provato da chi ne domanda il risarcimento.
Partendo da tale assunto, i giudici liquidano il danno sulla base non di valutazioni astratte, bensì sulla base del concreto pregiudizio patito dalla vittima.
Pertanto, la sussistenza di un danno non patrimoniale in concreto subito dovrà essere oggetto di allegazione e prova. E tali prove possono eventualmente essere anche presunte, assumendo a tal fine rilevanza – come parametro di riferimento:
- la diffusione dello scritto;
- la rilevanza dell’offesa;
- la posizione sociale della vittima.
In aggiunta, a questo scopo il giudice potrà ben avvalersi anche di presunzioni gravi, precise e concordati. Le quali però dovranno essere fondate su elementi indiziari diversi dal fatto in sé.
Alla luce di quanto sopra, dunque, i giudici della Suprema Corte affermano che è in grado di costituire un accertamento in fatto, e come tale non sindacabile in sede di legittimità, stabilire se una espressione, uno scritto o un documento siano effettivamente lesivi dell’onore e della reputazione altrui, una volta applicati i parametri di valutazione.
I profili di valutazione
Scendendo in un livello di analisi del caso concreto, i giudici affermano come la decisione oggetto di impugnazione abbia dimostrato di aver assunto in considerazione la posizione personale e sociale del soggetto. E ciò abbia fatto in relazione a:
- profilo oggettivo della violazione commessa in rapporto alla gravità dell’accusa infondatamente mossa;
- profilo soggettivo della personalità del soggetto offeso e dell’incidenza che la notizia falsa aveva presumibilmente avuto in riferimento al contesto sociale e professionale. In particolare, i giudici hanno ricordato come il contesto fosse quello di un territorio a forte vocazione turistica. E in cui, evidentemente, i tempi della deturpazione del territorio e della distruzione delle bellezze naturali fossero in grado di urtare più che altrove la sensibilità dell’opinione pubblica. Incidendo in maniera più grave, sulla reputazione di quel professionista che opera in questo campo.
La massima
Il danno all’immagine ed alla reputazione (nella specie, per un articolo asseritamente diffamatorio), inteso come “danno conseguenza”, non sussiste “in re ipsa”, dovendo essere allegato e provato da chi ne domanda il risarcimento. Pertanto, la sua liquidazione deve essere compiuta dal giudice, con accertamento in fatto non sindacabile in sede di legittimità, sulla base non di valutazioni astratte, bensì del concreto pregiudizio presumibilmente patito dalla vittima, per come da questa dedotto e dimostrato, anche attraverso presunzioni gravi, precise e concordanti, che siano fondate, però, su elementi indiziari diversi dal fatto in sé, ed assumendo quali parametri di riferimento la diffusione dello scritto, la rilevanza dell’offesa e la posizione sociale della vittima