La busta paga come prova nel decreto ingiuntivo – indice:
Torniamo anche oggi a occuparci di buste paga, dopo il nostro approfondimento di qualche settimana fa (che trovate qui). L’occasione ci è fornita dalla recente sentenza n. 2239/2017 da parte della Corte di Cassazione, che ha dichiarato che le buste paga costituiscono una piena prova dei dati che in esse sono indicati. Vediamo più nel dettaglio quali sono state le valutazioni dei giudici della Suprema Corte, e come si è svolto il processo.
Lo svolgimento del processo contro il datore di lavoro e l’emissione del decreto ingiuntivo
Cominciamo con il riassumere lo svolgimento del processo rammentando che con ricorso al Tribunale di Perugia l’azienda datrice di lavoro proponeva opposizione contro il decreto ingiuntivo notificato ad istanza di un suo ex dipendente, per il pagamento delle competenze di fine rapporto, deducendo la assenza della prova scritta e la inesistenza del credito. L’azienda esponeva infatti che la ingiunzione era stata emessa sulla base di una busta paga pari a zero e che il credito per le competenze di fine rapporto era stato interamente assorbito dai danni causati dal dipendente a seguito dello svolgimento di una illegittima attività di concorrenza per la quale era stato peraltro licenziato per giusta causa.
Il Giudice del Lavoro rigettava tuttavia l’opposizione da parte dell’azienda, e la Corte d’appello di Perugia si poneva nella stessa linea, rigettando l’appello della società e sostenendo come il Tribunale aveva correttamente ritenuto che la busta paga emessa dalla società avesse natura confessoria per la parte relativa alla esistenza ed entità delle competenze di fine rapporto maturate dal lavoratore mentre “la pretesa della società al risarcimento dei danni asseritamente subiti per effetto della condotta infedele del dipendente, invece, era priva di prova e, pertanto, non era opponibile in compensazione”.
I motivi della decisione: busta paga come piena prova di ciò che vi è scritto contro al datore di lavoro
Si giunge così in Cassazione, con la società ricorrente che anzitutto deduce la violazione e la falsa applicazione dell’articolo 633 cpc e dell’articolo 2734 cc. nonché l’insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio. L’azienda ha infatti esposto che la busta paga posta a fondamento del decreto ingiuntivo recava un saldo pari a zero sicché non conteneva alcun riconoscimento di debito e che non potesse condividersi la valutazione dei giudici secondo cui l’importo indicato a debito della società era oggetto di confessione mentre l’importo del controcredito per danni era una mera asserzione, valutato che “la busta paga prodotta dalla controparte quale prova del credito non poteva essere frazionata, in conformità all’inveterato principio di inscindibilità della confessione”.
Orientamento consolidato: le buste paga costituiscono prova dei dati
Su tale punto la Corte di Cassazione afferma che il motivo è fondato, considerato che “la giurisprudenza di questa Corte ha già chiarito che nei confronti del datore di lavoro le buste paga costituiscono piena prova dei dati in esse indicati, in ragione della loro specifica normativa (legge nr. 4/1953), prevedente la obbligatorietà del loro contenuto e la corrispondenza di esso alle registrazioni eseguite (omissis)” e che “dalla attribuzione ai prospetti paga della natura di confessione stragiudiziale deriva, in applicazione degli artt. 2734 e 2735 cc., che la piena efficacia di prova legale è circoscritta ai soli casi in cui la dichiarazione, quale riconoscimento puro e semplice della verità di fatti sfavorevoli alla parte dichiarante, assume carattere di univocità ed incontrovertibilità, vincolante per il giudice”.
In mancanza di ciò, il giudice deve apprezzare liberamente la dichiarazione, nel quadro della valutazione degli altri fatti e circostanze tendenti ad infirmare, modificare od estinguere la efficacia dell’evento confessato. Per la Cassazione, pertanto, la busta paga ha valore di piena prova circa le indicazioni in essa contenute “solo quando sia chiara e non contraddittoria; diversamente, ove in essa risulti la indicazione di altri fatti tendenti ad estinguere gli effetti dei credito del lavoratore riconosciuto nel documento (nella specie la indicazione di un controcredito del datore di lavoro per risarcimento del danno), essa è una fonte di prova soggetta alla libera valutazione del giudice, che dovrà estendersi al complesso dei fatti esposti nel documento”.
Il dipendente non può svogere attività conccorenziali
Con il secondo motivo di ricorso la società deduce la violazione e la falsa applicazione dell’articolo 2105 cc. nonché – ai sensi dell’articolo 360 nr. 5 cpc – insufficienza e contraddittorietà della motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio. L’azienda sostiene infatti che il suo ex dipendente, in costanza del rapporto di lavoro presso la struttura ricettiva della società, svolgeva attività concorrenziale, violando così l’obbligo di non concorrenza di cui all’articolo 2105 cc. La sentenza della Corte sottolinea in tal proposito che “erroneamente la sentenza impugnata affermava che il dipendente avrebbe potuto svolgere in costanza di rapporto di lavoro attività in concorrenza con il datore di lavoro, ravvisando, anzi, la possibilità che da tali attività concorrenziali derivasse un reciproco sviluppo commerciale”.
Ancora, con il terzo motivo la società ha dedotto violazione e falsa applicazione dell’articolo 2105 cc. nonché – ai sensi dell’articolo 360 nr. 5 cpc – insufficienza e contraddittorietà della motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio, censurando la sentenza nella parte in cui affermava che al fine di ottenere il riconoscimento dei danni “sarebbe stata necessaria la allegazione di atti di infedeltà determinanti concorrenza sleale nonché laddove statuiva che la circostanza che il dipendente intrattenesse rapporti con altre realtà alberghiere non comportava il compimento di atti di sviamento di clientela ben potendo tale attività risolversi, invece, in una proficua collaborazione con reciproci vantaggi dei vari impianti ricettivi”.
L’azienda ha inoltre dedotto che il fatto stesso che il dipendente svolgesse attività in concorrenza costituiva inadempimento al divieto dell’articolo 2105 cc. e titolo per il risarcimento del danno; la possibilità, poi, che il datore di lavoro traesse vantaggio dalla attività concorrenziale, neppure sostenuta dal dipendente e comunque priva di ogni riscontro negli atti, era del tutto illogica, dovendo piuttosto presumersi il contrario.
L’obbligo del prestatore di lavoro di non concorrenza
Sul secondo e sul terzo motivo i giudici della Suprema Corte ribadiscono come “la norma dell’articolo 2105 cc. pone uno specifico obbligo del prestatore di lavoro di non trattare affari né per conto proprio né per conto di terzi in concorrenza con l’imprenditore. La violazione dell’obbligo costituisce dunque titolo di responsabilità contrattuale per gli eventuali danni che ne siano derivati al datore di lavoro”. Ancora, gli ermellini sottolineano come l’azione di responsabilità fondata sulla violazione dell’obbligo ex articolo 2105 cc. ha infatti natura autonoma rispetto alla azione per concorrenza sleale; la prima ha carattere contrattuale ed oggetto ampio, abbracciando ogni attività concorrenziale e non soltanto quelle costituenti illecito aquiliano ex articolo 2598 cc. La azione di concorrenza sleale ex articolo 2598 c.c., configurante un illecito extracontrattuale tipizzato, è azione diversa, che potrebbe concorrere con l’illecito contrattuale ex articolo 2105 cc. ma non certo condizionarne la sussistenza”.
Alla luce di quanto sopra, ai fini della violazione dell’obbligo di non concorrenza non era necessario acquisire la prova di comportamenti illeciti né tanto meno di un tentativo di sviamento della clientela, come affermato dalla Corte di merito, bastando ad integrare la violazione dell’obbligo di fedeltà ex articolo 2105 cc. la mera attività del dipendente di trattazione di affari in concorrenza, per conto proprio o di una impresa terza.