Il reato di diffamazione – indice:
Stando a quanto afferma la sentenza n. 4873/2017, la diffamazione mediante facebook sarebbe aggravata dal mezzo di pubblicità, ma non dal mezzo di stampa.
Quale aggravante al reato di diffamazione
Nel caso in esame, l’imputato aveva scritto sul proprio profilo alcune frasi offensive dirette nei confronti di una persona. Quanto basta affinchè gli fosse contestato il reato ex art. 595 del codice penale, con aggravante dell’art. 13 della l. 47/1948.
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Ricordiamo, in tale sede, che l’art. 595 cp, rubricato “diffamazione” prevede che:
Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a euro 1.032.
Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a euro 2.065.
Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a euro 516.
Se l’offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza o ad una autorità costituita in collegio, le pene sono aumentate.
L’aggravante previsto dall’art. 13 della l. 47/1948 prevede invece che:
Nel caso di diffamazione commessa col mezzo della stampa, consistente nell’attribuzione di un fatto determinato, si applica la pena della reclusione da uno a sei anni e quella della multa non inferiore a lire 500.000.
Passando al caso in esame, al fine di giungere alle conclusioni sopra introdotte, ricordiamo che il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Imperia ha proposto ricorso per Cassazione contro l’ordinanza del giudice per l’udienza preliminare che aveva disposto la restituzione degli atti al pubblico ministero affinchè costui provvedesse alla citazione diretta a giudizio dell’imputato, cui era stato – come abbiamo rammentato – contestato il reato di cui all’art. 595 cp, per avere pubblicato sul proprio profilo Facebook un testo con il quale offendeva la reputazione di una persona, attribuendogli un fatto determinato tramite Internet.
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Il ricorrente osservava però che il giudice dell’udienza preliminare aveva erroneamente ritenuto che il reato contestato fosse punito “con una pena edittale non superiore a quattro anni di reclusione, poiché la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca Facebook integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, comma 3, cod. pen., venendo in essere una condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o, comunque, quantitativamente apprezzabile di persone”. La conseguenza è che essendo stata altresì contestata l’ipotesi di attribuzione di fatto determinato, il giudice dell’udienza preliminare avrebbe dovuto prendere in considerazione, ai fini della determinazione della propria competenza, la pena massima edittale della reclusione fino a sei anni prevista per l’aggrvante del mezzo di stampa.
Sulla base di quanto sopra, il ricorso viene tuttavia rigettato perchè infondato.
Limitandosi al merito della questione, la Corte di Cassazione ritiene che “se, come ripetutamente affermato nella giurisprudenza di legittimità, anche la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca Facebook integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, comma 3, cod. pen., poiché questa modalità di comunicazione di un contenuto informativo suscettibile di arrecare discredito alla reputazione altrui, ha potenzialmente la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, perché attraverso questa ‘piattaforma virtuale’ gruppi di soggetti valorizzano il profilo del rapporto interpersonale allargato ad un numero indeterminato di aderenti al fine di una costante socializzazione“.
Tuttavia, sottolinea la Cassazione, proprio in virtù di tali specifiche dinamiche di diffusione del messaggio screditante, in una con la loro finalizzazione alla socializzazione, “sono tali da suggerire l’inclusione della pubblicazione del messaggio diffamatorio sulla bacheca Facebook nella tipologia di qualsiasi altro mezzo di pubblicità“.
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Le precedenti sentenze nell’ambito della diffamazione su facebook
Con tale interpretazione, peraltro, la Suprema Corte si pone in linea con le conclusioni già raggiunte nella precedente sentenza n. 31022/2015, che dopo avere affermato la legittimità di una interpretazione evolutiva e costituzionalmente orientata del termine “stampa” ha “ritenuto necessario chiarire che l’esito di tale operazione ermeneutica non può riguardare tutti in blocco i nuovi mezzi, informatici e telematici, di manifestazione del pensiero (forum, blog, newsletter, newsgroup, mailing list, pagine Facebook), ma deve rimanere circoscritto a quei soli casi che, per i profili, strutturale e finalistico, che li connotano, sono riconducibili nel concetto di “stampa” inteso in senso più ampio”.
All’epoca, si ricordò come
deve tenersi ben distinta l’area dell’informazione di tipo professionale, veicolata per il tramite di una testata giornalistica on line, dal vasto ed eterogeneo ambito della diffusione di notizie ed informazioni da parte di singoli soggetti in modo spontaneo
concludendo poi che
anche il social-network più diffuso, denominato Facebook, non è inquadrabile nel concetto di stampa (essendo) un servizio di rete sociale, basato su una piattaforma software scritta in vari linguaggi di programmazione, che offre servizi di messaggistica privata ed instaura una trama di relazioni tra più persone all’interno dello stesso sistema.
Avv. Bellato – diritto dell’informatica, internet e social network