Diffusione di contenuto pedopornografico su una chat di gruppo – guida rapida
La Terza Sezione penale, con sentenza n. 36572 del 04 aprile 2023, depositata ai primi di settembre, ha affermato come in tema di delitti contro la persona integra la detenzione penalmente ex art. 600-quater, comma primo, cod. pen. la disponibilità di file di contenuto pedopornografico archiviati sul cloud storage di una chat di gruppo nello spazio Telegram e accessibili, per il tramite delle proprie credenziali, da parte di ogni componente del gruppo che abbia consapevolmente preso parte ad esso.
Riassumiamo di seguito lo svolgimento del processo e le motivazioni della Corte.
Lo svolgimento del processo
Con sentenza della Corte di Appello i giudici avevano confermato in modo integrale la pronuncia già resa all’esito del primo grado di giudizio dal Tribunale, condannando l’imputato alla pena di due anni ed otto mesi di reclusione e 3.000 euro di multa, ritenendolo responsabile del reato di cui all’art. 600 quater cod. pen. per aver detenuto all’interno di uno spazio virtuale, ovvero nella cartella dei media condivisi di una chat di gruppo facente parte del servizio di messaggistica Telegram, cui accedeva utilizzando un account abbinato alla sua utenza telefonica, più di centocinquanta file contenenti materiale pedopornografico, con l’aggravante dell’ingente quantità, e del reato ex art. 600 ter quarto comma cod. pen., così riqualificata l’originaria imputazione, per aver condiviso i suddetti file in chat private, di cui facevano parte un numero ristretto di persone.
Contro tale provvedimento l’imputato ha proposto due ricorsi per Cassazione. Proviamo a sintetizzare per punti i principali motivi del ricorso.
La disponibilità del materiale
Con il primo motivo di ricorso l’imputato deduce che il materiale in contestazione non era contenuto nel cellulare, bensì all’interno del cloud abbinato alla chat Telegram denominata “Abusi e Famiglia” e, dunque, di uno spazio virtuale costituito dalla cartella dei media condivisi dal gruppo alla quale poteva accedere chiunque fosse in possesso delle credenziali di accesso, ovvero tutti gli iscritti alla chat, ivi compreso l’imputato.
Rileva dunque come in difetto di alcuna operazione di download dei file presenti sulla chat sul proprio cellulare, operazione che si traduce nella loro acquisizione su una memoria fisica o anche soltanto virtuale non possa ritenersi integrata la detenzione, intesa come rapporto effettivo e diretto dell’agente con il materiale pornografico, che è utile a configurare la condotta penalmente rilevante ai sensi dell’art. 600 quater primo comma cod. pen. con conseguente vizio di violazione di legge.
Per il legale difensore, la detenzione di materiale pornografico riveste natura di reato di pericolo, connaturato al rischio della sua diffusione da parte dell’agente. La circostanza che l’imputato non avesse la fisica disponibilità dei file in contestazione, essendogli consentita la sola visualizzazione delle immagini attraverso l’accesso alla rete internet, può al limite configurare il reato di cui al terzo comma dell’art. 600 quater cod. pen., introdotta dalla L. 238/2022, ovvero l’accesso intenzionale e senza giustificato motivo, mediante l’utilizzo della rete internet o di altre reti o mezzi di comunicazione, a materiale pornografico, trattandosi di condotta esattamente corrispondente a quello di mero accesso ad un sito internet dai contenuti pornografici.
L’ingente quantitativo di file
Con altro motivo si contesta la configurabilità dell’aggravante rilevando come l’ingente quantitativo non potesse essere commisurato al numero complessivo dei file detenuti da tutti i partecipanti alla chat di Telegram, non permettendo infatti la natura indiretta della detenzione da parte dell’imputato del suddetto materiale di far ricadere su un solo soggetto gli effetti di una condotta collettiva.
Rileva in ogni caso, sostiene l’imputato, come la Corte di appello neppure avesse verificato il numero dei file presenti sulla chat, essendosi limitata ad indicare in termini del tutto approssimativi che fossero 150.
Si obietta pertanto che, al di là del numero solo approssimativamente indicato, non risultano essere stati singolarmente verificati, risultando dal verbale redatto dalla Polizia Giudiziaria la presenza di file a contenuto sia pedopornografico, sia pornografico il quale, a differenza del primo, è penalmente irrilevante, nonché di immagini più volte duplicate.
Le attenuati generiche negate
Con ulteriore motivo viene contestato il diniego delle attenuanti generiche, con conseguente indebita svalorizzazione di quegli elementi di segno positivo, come la collaborazione prestata alle indagini con l’indicazione spontanea delle password di accesso ai suoi account, il percorso terapeutico intrapreso dal prevenuto ed il risarcimento del danno, idonei al conseguimento del beneficio invocato.
L’assenza di download
Tra gli altri motivi di ricorso, anche il fatto che nessun download era stato mai effettuato dall’imputato dei file pedopornografici in contestazione, i quali erano stati esclusivamente rinvenuti all’interno della chat di Telegram, con conseguente esclusione del reato che non può ritenersi perfezionato per il solo fatto di aver fatto parte di una chat, condotta questa semmai punibile ai sensi del terzo comma introdotto dalla L.238/2021.
L’imputato precisa inoltre che, contrariamente a quanto avviene per il materiale presente su un sito internet, accessibile attraverso un browser che è sempre un’applicazione di un dispositivo personale, quello sulla chat Telegram è visionabile solo accedendo alla chat attraverso le proprie credenziali.
La ricostruzione della Cassazione
Per arrivare alle proprie valutazioni, i giudici della Suprema Corte partono da una ricostruzione dei fatti riportati nell’incipit della sentenza impugnata, peraltro non messa in discussione da nessuna delle due difese, dove si dà atto che l’imputato – attraverso l’applicazione della messaggistica Telegram – in quanto partecipante alla chat denominata “Famiglia e abusi”, condivideva i file qui contenuti, in numero superiore ai centocinquanta, raffiguranti minori in atti sessualmente espliciti e dunque di natura pedopornografica.
Così come ogni componente della chat, l’imputato non solamente aveva accesso attraverso le proprie credenziali al materiale qui presente che, una volta immesso da qualunque partecipante, viene automaticamente salvato sul cloud di Telegram rendendolo perciò visualizzabile in ogni momento da ogni componente del gruppo e scongiurando al contempo ogni possibile rischio di perdita dei dati, ma aveva altresì la facoltà di scambiarli con altri utenti, come peraltro dimostrato dal verbale della Polizia Giudiziaria che aveva accertato la condivisione da parte del prevenuto nelle singole chat di venti file l’utente “Lux”, di cinque file con l’utente “Mtt” e di sessanta file con l’utente “000”, nomi evidentemente di fantasia riconducibili ad altrettanti partecipanti alla chat collettiva.
Per la difesa tale condotta – che non prevede download dei file sul proprio cellulare – non consentirebbe di configurare la detenzione posta a fondamento della fattispecie delittuosa di cui all’art. 600 quater, primo comma cod. pen., potendo semmai ritenersi integrata la meno grave previsione contenuta nel terzo comma che punisce l’accesso intenzionale e senza giustificato motivo a materiale pedopornografico mediante l’utilizzo della rete.
Tuttavia, tale assunto per i giudici della Cassazione non può essere condiviso.
Il concetto di detenzione
Ricordano i giudici che il concetto di detenzione è stato mutuato dal legislatore penale con riferimento al solo elemento materiale ovverosia, prescindendo integralmente dall’animus, nella mera accezione della disponibilità materiale di un bene, e dunque in termini della sua sostanziale fruibilità.
Pur con altri termini, ma anche in campo civilistico i concetti di possesso e di detenzione hanno subito una progressiva trasformazione con la crescente divulgazione – attraverso il web e grazie all’impatto delle nuove tecnologie sul mercato – dei beni immateriali.
Ora, muovendo dalla constatazione che i beni immateriali non sono per la loro stessa natura suscettibili dell’uso esclusivo sui cui si fonda la disciplina della detenzione e del possesso, è invalsa la tesi, patrocinata dalla dottrina civilistica prevalente, che rifiuta l’assimilazione dei diritti assoluti su beni immateriali ai diritti reali, ritenendone ammissibile il possesso se utilizzati da soggetto che, pur non essendo degli stessi titolare, si comporti semplicemente come tale.
Spostando i termini della questione nel campo strettamente penale, i file condividono con i beni immateriali la caratteristica di poter essere utilizzati da più soggetti anche contemporaneamente senza che l’esercizio dell’uno impedisca quello degli altri.
L’ampliamento del concetto di detenzione
Da queste premesse deriva dunque la necessità di ampliare il concetto di detenzione sganciandolo dalla relazione materiale con la res intesa in termini strettamente fisici, spostandone invece il fulcro su quella che ne è la sua stessa ontologica essenza, rappresentata dalla fruibilità della res in termini non solo concreti, ma anche potenziali, che prescindono cioè dall’utilizzo effettivo.
Quanto sopra ha già condotto la Corte (su tutte, la sentenza n. 4212 del 19 gennaio 2023) ad estendere la detenzione di file di contenuto pedopornografico alla condotta di chi aveva immesso ed archiviato i suddetti file sul cloud storage di un sito associato al suo indirizzo email, cui poteva liberamente accedere attraverso credenziali di accesso esclusive o comunque note a chi le utilizzi.
Una ricostruzione che ha il pregio di individuare con certezza il concetto di fruibilità incondizionata nel tempo e nello spazio posto alla base della condotta di detenzione, svincolata cioè dal trasferimento del suddetto materiale in dispositivi nel materiale possesso dell’imputato
Nella fattispecie in oggetto, poi, è bene qualificare la chat di Telegram come una chat di gruppo e non tra le chat aperte, che sono quelle rinvenibili con gli ordinari motori di ricerca da parte di tutti gli utenti Telegram, che possono, indipendentemente dal dispositivo utilizzato per accedervi, unirsi di propria iniziativa semplicemente cliccando il nome del gruppo.
Nelle chat private, rinvenibili da utenti esterni attraverso la ricerca integrata di Telegram ed a cui si può prendere parte solo grazie ad un link di invito o comunque su iniziativa dell’amministratore del gruppo, invece, una volta entrato nella chat qualunque partecipante ha accesso alle conversazioni e ai contenuti condivisi all’interno del gruppo, potendo leggere i messaggi precedenti, inviarne di propri, condividere file, foto, video e partecipare alle conversazioni con gli altri componenti.
La consapevolezza della partecipazione alla chat
È però bene apportare un altro piccolo ma fondamentale tassello. Bisogna infatti scongiurare il rischio che un utente ignaro che, per caso fortuito o per mera curiosità si trovi ad accedere ad una chat dai contenuti penalmente rilevanti o nella quale gli stessi siano stati solo occasionalmente immessi, sia chiamato a rispondere in via automatica del reato in contestazione.
L’elemento aggiuntivo che configura il reato è dunque la consapevolezza della sua partecipazione ad una chat che presenti contenuti che integrano la violazione del relativo un precetto penale, e dunque costituita allo specifico fine di condividere materiale pedopornografico.
È dunque nella piena cognizione dell’operato altrui all’interno di una chat collettiva di cui si entri a far parte l’elemento che equipara il comportamento di chi ha libero accesso alla cartella dei file condivisi dal gruppo, costituito al precipuo fine di condividere materiale pedopornografico, con quello di chi archivia foto e video di natura pedopornografica sul cloud storage di un account di cui abbia l’utilizzo esclusivo
A tali caratteristiche si aggiunge – come ulteriore riprova della consapevolezza del contenuto della chat in questione – il suo comportamento, che di propria iniziativa aveva inoltrato ad alcuni partecipanti alla chat video ed immagini ritraenti il nipotino appena nato nudo, accompagnati da commenti di natura erotica.
Accesso intenzionale e privo di giustificato motivo
Ciò premesso deve escludersi che la condotta integri la meno grave fattispecie delittuosa disciplinata dal terzo comma dell’art. 600 quater cod. pen..
La norma, introdotta dalla l. 23.12,2021 n.238 con l’intento di anticipare la soglia della punibilità ad un momento antecedente a quello della detenzione, persegue la condotta di accesso intenzionale e privo di giustificato motivo, requisiti che sono anch’essi volti a escludere qualsivoglia automatismo della sanzione penale, al materiale pedopornografico presente sui siti web attraverso la navigazione sulla rete.
Bisogna però chiarire come la detenzione contenga un quid pluris rispetto al semplice accesso e sia stata perciò ritenuta dal legislatore meritevole di una pena più severa, contemplando non solo la possibilità di visionare i file, ma, in aggiunta ad essa, quella di utilizzarli a proprio piacimento.
Non può in altri termini prescindersi dal rilievo che, una volta immessi i file su una chat di gruppo da qualunque partecipante e conseguentemente salvati nel cloud della chat stessa, essi diventino automaticamente fruibili da qualunque altro partecipante che, accedendo liberamente alla cartella dei media ivi archiviati, può sia limitarsi a visionarli, sia, invece, disporne condividendoli con altri soggetti.
In tal senso, non vi è alcuna differenza tra un’operazione di download dei file fatta sul proprio cellulare, o su altro dispositivo informatico nella propria disponibilità materiale, e l’accesso incondizionato ad un archivio condiviso tra i partecipanti ad una chat collettiva.
In entrambi in casi, infatti, l’agente ha la piena ed incondizionata possibilità di fruire del materiale archiviato, indipendentemente dal fatto che sia stato lui stesso od altri ad aver effettuato l’operazione di salvataggio.
La contestazione sull’accertamento del dato numerico e la diffusione del contenuto pedopornografico
Per quanto poi riguarda l’ulteriore motivo, la Corte rileva la genericità della contestazione per essersi le difese limitate a rilevare il mancato accertamento del dato numerico dei file presenti sulla chat sul quale si era basato il riconoscimento dell’aggravante, senza neppure frapporre ad esso una diversa consistenza quantitativa.
Si aggiunge inoltre come la valutazione compiuta dalla Corte distrettuale, quand’anche il numero di “più di centocinquanta file” è impiegato in termini approssimativi e non rigorosamente matematici, risulta in sé priva di vizi logici. Come tale, non può dedursi in sede di legittimità non solo perché trattasi di apprezzamento di merito, ma altresì perché costituisce la puntuale declinazione del principio invalso nell’interpretazione giurisprudenziale dell’art. 600 quater secondo comma cod. pen. secondo cui “la configurabilità della circostanza aggravante della “ingente quantità” nel delitto di detenzione di materiale pedopornografico impone al giudice di tener conto non solo del numero dei supporti informatici detenuti, dato di per sé indiziante, ma anche, così come il termine “materiale” impiegato dal legislatore autorizza a ritenere, del numero di immagini, da considerare come obiettiva unità di misura, che ciascuno di essi contiene, nella specie ampiamente sottolineato, unitamente al quantitativo dei file, dai giudici del gravame”.