Diritto all’oblio e obblighi dell’editore e del motore di ricerca
- La richiesta di rimozione della notizia
- La sentenza di primo grado
- Il ricorso in Cassazione
- La responsabilità dell’editore e del gestore del motore di ricerca
- Il controllo sull’attualità di informazione
- Il diritto all’oblio pretende sempre la richiesta dell’interessato
- La sentenza Google Spain
- La disciplina nazionale
- Il principio di diritto
Con ricorso del 23 settembre 2015 una persona si è rivolta al Tribunale di Perugia nei confronti di una società editoriale titolare di un giornale, chiedendo il risarcimento dei danni per la violazione del suo diritto all’oblio ai sensi degli artt.11 e 15, comma 2, d.lgs.196 del 2003.
In particolare, l’attore ha esposto a fondamento della domanda di risiedere da circa 18 anni a Perugia, dove si era trasferito dopo aver espiato la condanna penale per reati in materia di stupefacenti, costituendo un contesto di vita del tutto diverso dal precedente. In questo ambito aveva anche intrapreso una relazione sentimentale e aveva contratto nuove amicizie.
La notizia del suo precedente arresto era rimasta visibile nel sito web dell’agenzia di stampa e la sua fidanzata ne era venuta a conoscenza, consultando internet con il motore di ricerca Google, scoprendo così il precedente penale del compagno, di cui era stata tenuta all’oscuro. In virtù di ciò, aveva deciso di troncare la relazione. La stessa decisione fu poi presa anche dagli amici comuni della ex coppia.
La conseguenza di ciò è stata un forte stato di sofferenza da parte dell’uomo, sfociato poi in una crisi depressiva.
La richiesta di rimozione della notizia
L’attore ha poi ricordato di aver chiesto il 27 novembre 2014 all’agenza di stampa la rimozione della notizia dall’archivio visibile sul web. In data 11 dicembre 2014 la stessa agenzia aveva comunicato l’avvenuta cancellazione dell’articolo sopracitato. Si era tuttavia rifiutata di risarcire il danno richiesto provocato dalla mancata cancellazione tempestiva della notizia nel periodo in cui doveva considerarsi maturato il suo diritto all’oblio, perché la notizia aveva perduto la sua originaria valenza informativa per i fruitori del sito.
Costituitasi in giudizio, l’agenzia ha eccepito la tempestiva rimozione dell’articolo dopo la diffida pervenuta dal ricorrente, e ha rilevato che, al momento della pubblicazione, la notizia possedeva i caratteri della verità, continenza e attualità. Ha inoltre contestato di essere obbligata a rimuovere, di sua iniziativa, dai suoi archivi informatici, tutte le notizie che nel tempo avevano perduto i caratteri dell’attualità e dell’interesse per l’informazione del pubblico senza che gli interessati avessero formulato alcuna richiesta in tal senso.
La sentenza di primo grado
Il Tribunale di Perugia, con sentenza n. 378 del 3 marzo 2021, ha rigettato la domanda del ricorrente, dichiarando che la tutela del diritto all’oblio non comporta automaticamente in capo ad una testata giornalistica l’obbligo di rimozione o deindicizzazione della notizia, dal momento che il diritto del soggetto a non vedere rappresentata una versione di sé non più corrispondente alla realtà presuppone una valutazione di non attualità della notizia che non è possibile compiere se non dopo un’espressa richiesta dell’interessato.
Per i giudici di prime cure, dunque, sarebbe gravoso imporre a tutti i content provider un obbligo di controllo e aggiornamento di tutte le notizie che potrebbero perdere attualità e rilevanza. In virtù di tale considerazione, deve ritenersi che la responsabilità del gestore dell’archivio digitale sussista solo se vi sia un’inerzia a fronte di una richiesta formulata dall’interessato.
Con tali motivazioni il Tribunale di Perugia ha escluso così l’illiceità della condotta di parte convenuta, valorizzando la immediata rimozione della notizia in seguito alla richiesta dell’odierno ricorrente.
Il ricorso in Cassazione
Contro la decisione del Tribunale l’uomo ha proposto ricorso per Cassazione con un unico motivo con cui deduce in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2,4,7,11,15,23 del d.lgs. n. 196 del 2003, dell’art. 6 della direttiva n. 95/46/CE e dell’art. 2 Cost.
A questo scopo il ricorrente ha richiamato gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità che, al fine di contemplare il diritto all’oblio e l’interesse della collettività alla conoscenza del fatto, hanno escluso l’obbligo di deindicizzazione o di cancellazione della notizia se permane un interesse storico anche a distanza di molti anni dall’accaduto.
Il ricorrente sostiene che non vi fosse alcun interesse alla conservazione della notizia, che riguardava non un personaggio famoso ma un cittadino comune, le cui vicende giudiziarie si erano esaurite con l’espiazione della pena.
Ha proposto controricorso l’agenzia di stampa, eccependo anche l’inammissibilità del ricorso perché proposto per saltum senza accordo tra le parti: di quest’ultima eccezione, ritenuta infondata perché la sentenza in questione è inappellabile ai sensi di quanto previsto dall’art.152 d.lgs.196 del 2003, non ci occuperemo.
Occupiamoci invece del diritto all’oblio e delle relative valutazioni compiute dai giudici.
La responsabilità di editore e gestore del motore di ricerca
La prima delle questioni evidenziate riguarda il fatto se l’editore del sito web e non solo il gestore del motore di ricerca possa ritenersi responsabile del trattamento dei dati, sebbene non sia questo l’oggetto del contendere. Nulla ha infatti eccepito in proposito la controricorrente e il Tribunale ha ragionato, implicitamente ma chiaramente, in questa prospettiva, tanto da rigettare la domanda non già perché fosse stata proposta contro un soggetto non legittimato o titolare passivo del rapporto controverso, ma solo perché è stato ritenuto che la responsabilità dell’editore scaturisse solo dalla mancata attivazione tempestiva alla richiesta di intervento da parte dell’interessato.
Solo a titolo di completezza, dunque, viene osservato come non vi possa più essere alcun dubbio in tal senso alla luce di quanto affermato dalla sentenza Google Spain C-131/12, la quale ha affermato che il trattamento dei dati personali effettuato nell’ambito dell’attività di un motore di ricerca si distingue e si aggiunge a quello effettuato dagli editori dei siti web. In questo senso si è schierata anche la giurisprudenza italiana di legittimità.
Il controllo sull’attualità di informazione
La seconda questione riguarda l’esigibilità o meno di un obbligo generalizzato di controllo sull’attualità dell’informazione ricavabile dalla consultazione on line, sia sotto il profilo dell’estensione quantitativa del controllo, sia sotto il profilo della tecnica adeguata da impiegare per evitare illegittime compressioni del diritto all’oblio e allo stesso tempo poter garantire la praticabilità del controllo e la conservazione di una traccia informativa idonea a realizzare la conservazione della memoria storica piuttosto che la permanenza dell’informazione giornalistica.
Anche in questo caso, pertanto, è solo per completezza di disamina che la Corte ha ricordato il suo orientamento in tema, secondo cui si ritiene adeguata e sufficiente la tutela per il diritto all’oblio attraverso la deindicizzazione dell’articolo dai motori di ricerca, per affermare con l’ordinanza n. 2893 del 31.1.2023 che
in tema di trattamento dei dati personali e di diritto all’oblio, è lecita la permanenza di un articolo di stampa, a suo tempo legittimamente pubblicato, nell’archivio informatico di un quotidiano, relativo a fatti risalenti nel tempo oggetto di una inchiesta giudiziaria, poi sfociata nell’assoluzione dell’imputato, purché, a richiesta dell’interessato, l’articolo sia deindicizzato e non sia reperibile attraverso i comuni motori di ricerca, ma solo attraverso l’archivio storico del quotidiano e purché, a richiesta documentata dell’interessato, all’articolo sia apposta una sintetica nota informativa, a margine o in calce, che dia conto dell’esito finale del procedimento giudiziario in forza di provvedimenti passati in giudicato, in tal modo contemperandosi in modo bilanciato il diritto ex art. 21 Cost. della collettività ad essere informata e a conservare memoria del fatto storico con quello del titolare dei dati personali archiviati a non subire una indebita lesione della propria immagine sociale.
Il diritto all’oblio pretende sempre la richiesta dell’interessato?
Quindi, la Corte passa alla questione di diritto da risolvere, ovvero se l’obbligo di intervento del titolare del sito web presupponga una richiesta dell’interessato o invece vi preesista per il solo fatto della sopravvenuta inattualità della notizia per effetto del decorso del tempo, cosi che sarebbe configurabile la sua responsabilità risarcitoria per non avervi provveduto anche in difetto di una richiesta dell’interessato.
La Corte riassume subito come la notizia originaria fosse stata a suo tempo legittimamente pubblicata in presenza di un interesse pubblico informativo e come il Tribunale avesse correttamente chiarito che il gestore dell’archivio digitale dovesse intervenire solo su richiesta dell’interessato. Di fatti, proprio perché la condotta lesiva consiste nell’esposizione di una rappresentazione non più attuale della propria persona, occorre la percezione del divario fra l’immagine pregressa e quella attuale, che non può che essere rimessa alla sensibilità e all’onere di attivazione dell’interessato, dovendosi in difetto presumere la persistente conformità della notizia alla realtà attuale.
Peraltro, continua ancora il giudizio di legittimità, sarebbe eccessivamente oneroso accollare al gestore di un archivio digitale di notizie l’onere di un controllo periodico del loro superamento e della loro inattualità, in mancanza di ogni parametro temporale fissato dalla legge e sulla base di elementi del tutto sconosciuti come l’evoluzione personale dei soggetti interessati.
Diritto all’oblio e orientamento precedente al GDPR
Questo era peraltro l’orientamento già precedente al GDPR, e contenuto nella Direttiva CE 24.10.1995 n. 46, applicabile ratione temporis, laddove si imponeva agli Stati membri di garantire a qualsiasi persona interessata il diritto di ottenere dal responsabile del trattamento, a seconda dei casi, la rettifica, la cancellazione o il congelamento dei dati il cui trattamento non fosse conforme alle disposizioni della direttiva, in particolare a causa del carattere incompleto o inesatto dei dati, consentiva agli interessati di opporsi al trattamento di dati che li riguardavano, salvo disposizione contraria prevista dalla normativa nazionale.
Pertanto, anche la disciplina europea anteriore al GDPR si atteggiava in termini di richieste ed opposizioni dell’interessato, così chiaramente evocando la necessità di un’attivazione da parte sua.
La sentenza Google Spain sul diritto all’oblio
Questa base valutativa ha poi condotto la Corte di Giustizia, con la sentenza c.d. Google Spain, ad affermare che la della direttiva 95/46/CE relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati, deve essere interpretata nel senso che, da un lato, l’attività di un motore di ricerca consistente nel trovare informazioni pubblicate o inserite da terzi su Internet, nell’indicizzarle in modo automatico, nel memorizzarle temporaneamente e, infine, nel metterle a disposizione degli utenti di Internet secondo un determinato ordine di preferenza, deve essere qualificata come trattamento di dati personali, qualora tali informazioni contengano dati personali, e che, dall’altro lato, il gestore di detto motore di ricerca deve essere considerato come il responsabile del trattamento summenzionato.
Inoltre, che gli artt. 12, lett. b), e 14, comma 1, lett. a), della direttiva 95/46 devono essere interpretati nel senso che, al fine di rispettare i diritti previsti da tali disposizioni, e sempre che le condizioni da queste fissate siano effettivamente soddisfatte, il gestore di un motore di ricerca è obbligato a sopprimere, dall’elenco di risultati che appare a seguito di una ricerca effettuata a partire dal nome di una persona, dei link verso pagine web pubblicate da terzi e contenenti informazioni relative a questa persona, anche nel caso in cui tali informazioni non vengano previamente o simultaneamente cancellati dalle pagine web di cui trattasi, e ciò eventualmente anche quando la loro pubblicazione su tali pagine web sia di per sé lecita.
La disciplina nazionale sul diritto all’oblio
La disciplina nazionale, contenuta nel c.d. Codice della privacy di cui al d.lgs. 30.6.2003 n. 196, anche prima delle modifiche apportate con il d.lgs. 10.8.2018 n.101, per l’adeguamento al GDPR, presupponeva in modo chiaro e inequivoco come i diritti che spettano all’interessato fossero esercitati con attivazione da parte sua con una specifica richiesta.
Una tesi sposata anche dalla pronuncia della Corte di Giustizia UE, Grande Sezione dell’8.12.2022 – C-460, con cui la Corte europea si occupa di stabilire se e in che misura spetti alla persona che presenta la richiesta di deindicizzazione fornire elementi di prova per corroborare la sua affermazione relativa all’inesattezza delle informazioni incluse nel contenuto menzionato e, dall’altro, se il gestore del motore di ricerca debba chiarire i fatti al fine di accertare l’esattezza o meno delle informazioni asseritamente inesatte ivi contenute.
Ora, quanto agli obblighi incombenti alla persona che richiede la deindicizzazione per l’inesattezza di un contenuto indicizzato, è ritenuto che spetti ad essa dimostrare l’inesattezza manifesta delle informazioni che compaiono in detto contenuto o, quanto meno, di una parte di tali informazioni che non abbia un carattere secondario rispetto alla totalità di tale contenuto.
Gli elementi di prova
Per evitare però un onere eccessivo che potrebbe scongiurare l’utilità del diritto alla deindicizzazione, il richiedente è tenuto a fornire gli elementi di prova che, tenuto conto delle circostanze del caso di specie, possono essere ragionevolmente richiesti al fine di dimostrare tale inesattezza manifesta. Insomma, il richiedente non è tenuto, in linea di principio, a produrre, fin dalla fase precontenziosa, a sostegno della sua richiesta di deindicizzazione presso il gestore del motore di ricerca, una decisione giurisdizionale, anche scaturente da procedimento sommario.
Di fatti, proseguono i giudici della Corte europea, imporre un simile obbligo a tale persona avrebbe l’effetto di far gravare su di essa un onere irragionevole.
Dal canto suo, il gestore del motore di ricerca – per verificare a seguito di una richiesta di deindicizzazione, se un contenuto possa continuare ad essere incluso nell’elenco dei risultati delle ricerche effettuate mediante il suo motore di ricerca – deve fondarsi sull’insieme dei diritti e degli interessi in gioco nonché su tutte le circostanze del caso di specie.
Nella valutazione delle condizioni, però, il gestore non può essere tenuto a svolgere un ruolo attivo nella ricerca di elementi di fatto che non sono suffragati dalla richiesta di cancellazione, al fine di determinare la fondatezza di tale richiesta.
Gli obbligo al gestore del motore di ricerca
Pertanto, in sede di trattamento di una richiesta del genere, al gestore del motore di ricerca non può essere imposto l’obbligo di indagare sui fatti e di organizzare, a tal fine, uno scambio in contraddittorio, con il fornitore di contenuto, diretto ad ottenere elementi mancanti riguardo all’esattezza del contenuto indicizzato.
Questo obbligo costringerebbe infatti il gestore del motore di ricerca stesso a contribuire a dimostrare l’esattezza o meno del contenuto menzionato e farebbe gravare su di lui un onere che eccede quanto ci si può ragionevolmente da esso attendere alla luce delle sue responsabilità, competenze e possibilità, e comporterebbe quindi un serio rischio che siano deindicizzati contenuti che rispondono ad una legittima e preponderante esigenza di informazione del pubblico e che divenga quindi difficile trovarli in Internet.
A tal riguardo, si legge ancora nelle motivazioni della sentenza, vi sarebbe un rischio reale di effetto dissuasivo sull’esercizio della libertà di espressione e di informazione se il gestore del motore di ricerca procedesse a una deindicizzazione del genere in modo pressoché sistematico, per evitare di sopportare l’onere di indagare sui fatti pertinenti per accertare l’esattezza o meno del contenuto indicizzato.
La richiesta
Nel caso in cui il soggetto che ha presentato una richiesta di deindicizzazione apporti elementi di prova pertinenti e sufficienti, idonei a suffragare la sua richiesta e atti a dimostrare il carattere manifestamente inesatto delle informazioni incluse nel contenuto indicizzato o, quantomeno, di una parte di tali informazioni che non abbia un carattere secondario rispetto alla totalità di tale contenuto, il gestore del motore di ricerca è tenuto ad accogliere detta richiesta di deindicizzazione.
“Lo stesso vale inoltre se stesso vale qualora l’interessato apporti una decisione giudiziaria adottata nei confronti dell’editore del sito Internet e basata sulla constatazione che informazioni incluse nel contenuto indicizzato, che non hanno un carattere secondario rispetto alla totalità di quest’ultimo, sono, almeno a prima vista, inesatte” – si legge ancora.
Di contro, nel caso in cui l’inesattezza di tali informazioni incluse nel contenuto indicizzato non appaia in modo manifesto alla luce degli elementi di prova forniti dall’interessato, il gestore del motore di ricerca non è tenuto, in mancanza di una decisione, ad accogliere la richiesta di deindicizzazione. Nell’ipotesi in cui sia stato avviato un procedimento amministrativo o giurisdizionale che verte sull’asserita inesattezza di informazioni incluse in un contenuto indicizzato e l’esistenza di tale procedimento sia stata portata a conoscenza del gestore del motore di ricerca di cui trattasi, incombe al gestore, al fine di fornire agli utenti di Internet informazioni sempre pertinenti e aggiornate, aggiungere, nei risultati della ricerca, un avvertimento riguardante l’esistenza di un procedimento del genere.
“È così evidente che la giurisprudenza europea presuppone ed implica necessariamente un onere di attivazione da parte dell’interessato, sempre che il contenuto originariamente pubblicato fosse lecito, e pure un ragionevole contributo probatorio” – si legge ulteriormente.
Il principio di diritto
A margine di ciò, i giudici concludono come il ricorso è infondato, non potendosi di fatti ritenere che la società sia tenuta a eliminare dal proprio archivio la notizia dell’arresto del ricorrente che a suo tempo sia stata legittimamente pubblicata, prima della richiesta da parte sua, prontamente soddisfatta. Non si ritiene inoltre condivisa l’obiezione proposta dal ricorrente basata sulla onerosità dell’iniziativa così richiesta ai soggetti interessati.
Al di là del dato testuale, la proposizione della richiesta non richiede né formalità, né tecnicismi e non abbisogna né del ricorso a una difesa tecnica, né a consulenti di sorta e di conseguenza non genera alcun costo aggiuntivo. Di contro, sarebbe l’imposizione ai gestori di uno scandagliamento periodico di informazioni a suo tempo legittimamente pubblicate a imporre ai gestori un onere insostenibile e gravido di conseguenze per la libertà dell’informazione.
Il ricorso è rigettato ed è emesso il seguente principio di diritto:
In tema di trattamento dei dati personali e di diritto all’oblio, anche nel regime precedente al Regolamento UE 27.4.2016 n. 679 (GDPR), applicabile ratione temporis, il gestore di un sito web non è tenuto a provvedere, a seconda dei casi, alla cancellazione, alla deindicizzazione o all’aggiornamento di un articolo di stampa, a suo tempo legittimamente pubblicato, ancorché relativo a fatti risalenti nel tempo, in difetto di richiesta dell’interessato che è la sola a far scaturire in capo al gestore l’obbligo di provvedere senza indugio.