La ditta – indice:
- Cos’è
- L’oggetto
- La tutela
- La capacità distintiva
- Novità e liceità
- Ditta e marchio
- Denominazione e ragione sociale
- L’acquisto del diritto
- L’estinzione del diritto
- Il trasferimento
La ditta è uno dei segni distintivi dell’imprenditore la cui disciplina è contenuta nel codice civile agli articoli 2563 e seguenti. È frutto della fusione di due funzioni, una soggettiva ed una oggettiva. La prima consiste nell’identificazione della persona dell’imprenditore, la seconda nell’individuazione del suo complesso aziendale. Presenta una serie di affinità con il marchio ma, a differenza di questo, non viene espressamente nominata dal Codice della proprietà industriale. Questo complesso di norme la inserisce infatti fra “gli altri segni distintivi”. Sebbene la sua disciplina sia stata in origine creata per realtà ristrette quali l’imprenditore individuale, oggi si applica anche a realtà di grandi dimensioni. Ad esempio alle organizzazioni societarie che possono vantare anche più di una ditta. Tale segno distintivo va talvolta infatti a identificarsi con la ragione o la denominazione sociale.
Cos’è la ditta
La ditta è l’elemento che consente di identificare l’imprenditore in modo univoco e dunque che lo distingue dagli altri. Ai sensi dell’articolo 2563 c.c, la ditta deve contenere “almeno il cognome o la sigla dell’imprenditore…”. In assenza di tali indicazioni si ha infatti una ditta irregolare. Come si accennava nell’introduzione, tuttavia, la funzione della ditta non è solo quella di identificare l’imprenditore. Questa deve individuare bensì anche il complesso di beni che compongono la sua azienda.
Lo stesso articolo 2563 c.c., al primo comma, afferma che “L’imprenditore ha diritto all’uso esclusivo della ditta da lui prescelta“. In altre parole questo segno distintivo è il nome che l’imprenditore sceglie per denominare la sua impresa ed è a suo uso esclusivo. A conferma di tale definizione si segnala la sentenza n. 22350 del 2015 della Corte di Cassazione. In tale occasione i giudici, esaminando il caso di specie, hanno affermato quanto segue: “il concetto di ditta, volto a designare, genericamente ed unitariamente, il nome sotto cui l’imprenditore esercita l’impresa...”. L’uso esclusivo del diritto sulla ditta, come si vedrà, si acquista, esemplificando, tramite l’uso e si perde con il non uso.
Come gli altri segni distintivi anche la ditta ha un oggetto e deve presentare determinati requisiti, che si vedranno in seguito, per essere tutelata dalla legge. Si tratta in particolare della capacità distintiva, della novità e della liceità.
L’oggetto della ditta
La legge non ha previsto una norma specifica su cosa costituisce oggetto dei segni distintivi in generale, ad eccezione del marchio o di altri segni cui dà maggior rilevanza. Così, quanto all’oggetto della ditta vi è il silenzio del legislatore.
L’unico riferimento normativo cui ci si può rivolgere per comprendere l’oggetto della ditta come di altri segni distintivi è quello contenuto nel primo comma, numero 1), dell’articolo 2598 c.c. Questo parla di “nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o i segni distintivi legittimamente usati da altri…”. In questa affermazione il legislatore ha distinto i nomi dai segni distintivi individuando nei primi i segni denominativi e nei secondi le figure e gli emblemi ovvero le sigle o gruppi di lettere.
Oggetto della ditta possono essere entrambi questi tipi di segni, in quantità minore o maggiore e in modo più o meno fantasioso.
Tutela dalla confusione: oggetto e luogo dell’impresa
La disciplina della ditta, come quella di altri segni distintivi, prevista dal legislatore del codice civile e di quello del c.p.i. è volta, come già accennato, a tutelare l’imprenditore da fenomeni confusori di concorrenza sleale.
La confusione può determinarsi con riferimento a due aspetti dell’impresa:
- l’oggetto della sua attività;
- il luogo dove esercita l’attività.
Sotto il primo profilo si ritiene che vi possa essere confondibilità fra imprese quando l’oggetto della loro attività sia identico ma anche simile o complementare o comunque quando suscita nel pubblico la riconduzione dell’attività al precedente titolare dell’impresa.
Sotto il secondo profilo il rischio di confusione fra imprese invece si ha non tanto quando due imprese operano nella stessa zona quanto vi sia la sovrapposizione della loro notorietà. In altre parole significa che l’imprenditore B, successore dell’imprenditore A, operi, con la medesima notorietà, nel luogo dove ha operato l’imprenditore A.
La tutela di tale segno distintivo, in ogni caso, va applicata considerando gli sviluppi potenziali dell’impresa sia in termini di oggetto che di espansione territoriale.
L’opinione della giurisprudenza sulla confondibilità fra imprese
Sulla confondibilità tra imprese si è espressa la Corte di Cassazione nel 2013 con la sentenza n. 12136, affermando che “Il concetto di luogo di esercizio dell’impresa di cui agli artt. 2564 e 2568 cod. civ., ai fini della tutela in caso di confondibilità fra imprese, non va inteso con esagerato valore restrittivo, dovendosi badare anche agli sviluppi potenziali dell’impresa razionalmente prevedibili, nonché alle pratiche difficoltà, che sovente s’incontrano, ad isolare l’espansione di un’impresa in un determinato ambito territoriale. Pertanto, la localizzazione non deve essere intesa secondo un criterio restrittivo, riguardo soltanto all’attività esplicata in un determinato momento, nel luogo di produzione e di commercio, ma facendo anche riferimento alla possibilità di espansione all’intera zona territorialmente al cosiddetto mercato di sbocco, raggiunta dall’attività complessiva dell’impresa”.
I requisiti della ditta: la capacità distintiva
Primo fra i requisiti della ditta è la capacità distintiva. Si è già parlato di questa caratteristica con riferimento al marchio anche se in modo più rigido. La si cita per prima in quanto è l’elemento fondamentale sotto il profilo della tutela del segno contro l’attività confusoria. La si può definire come ciò che determina in un certo pubblico il collegamento di un prodotto ad un imprenditore e che dunque lo distingue dagli altri. Questa può essere più o meno forte e in proporzione lo sarà la tutela che riceve. Sarà tanto più forte quanto il suo oggetto sarà lontano dal rispecchiare l’attività che si vuole contrassegnare.
La sua forza e di conseguenza la sua tutela possono inoltre variare nel tempo. È importante infatti che la capacità distintiva sia forte nel momento in cui si verifica una fattispecie confusoria di cui all’articolo 2598, n. 1, c.c. Sono ammesse spesso tuttavia ditte con una capacità distintiva non particolarmente forte in quanto il pubblico di riferimento non è tanto il consumatore finale, come nel marchio, quanto gli imprenditori che operano nello stesso settore di attività dell’azienda contrassegnata dalla ditta. È nei rapporti con questi infatti che rileva la spendita della ditta consistente nell’intestazione di fogli di corrispondenza ovvero moduli impiegati dal titolare dell’impresa nei rapporti con fornitori, banche e imprese clienti.
La novità e la liceità
Si dice che la ditta dev’essere nuova nel senso che la sua introduzione nel mercato di un certo territorio non deve somigliare ad altre già adottate da altri imprenditori nello stesso settore di attività. Anche tale requisito, come quello della capacità distintiva e per lo stesso motivo, è pensato meno rigidamente per tale segno distintivo rispetto al marchio e dunque sono ammesse ditte anche di poco scostanti da altre già esistenti.
A riconoscere il requisito della novità è l’articolo 2564 c.c. Questo afferma che “quando la ditta è uguale o simile a quella usata da altro imprenditore e può creare confusione per l’oggetto dell’impresa e per il luogo in cui questa è esercitata, deve essere integrata o modificata con indicazioni idonee a differenziarla”. Nell’ipotesi di confusione tra imprese commerciali con ditte simili, l’integrazione o la modifica dev’essere operata dall’imprenditore che per ultimo ha iscritto la propria ditta presso il registro delle imprese.
L’altro requisito utile ai fini della tutela della ditta è la liceità. La ditta è lecita quando non è contraria alla legge, all’ordine pubblico e al buon costume ma soprattutto quando non è ingannevole rispetto alla natura e alle caratteristiche dell’attività d’impresa.
La sanzione in caso di violazione della ditta
Diversamente da quanto accade per altri segni distintivi il cui uso illecito viene punito con la totale inibizione all’uso, la ditta, in base al pubblico cui è destinata, è soggetta a discipline diverse. C’è una disciplina specifica contenuta nel già citato articolo 2564 c.c che prevede la modifica o l’integrazione della ditta uguale o simile a quella già utilizzata da un altro imprenditore. Si applica questa quando il giudizio di confusione tra due imprese spetta ad un pubblico imprenditoriale. Come si diceva per il requisito della novità infatti, tale pubblico è in grado di scorgere le sottigliezze che possono contraddistinguere due attività che ad un consumatore finale invece potrebbero passare inosservate. Si parla in questo caso di uso tipico della ditta.
Quando invece il pubblico nei cui confronti la ditta viene usata non è un pubblico professionale ma ad esempio il consumatore finale alla ditta non si applica la sua disciplina sanzionatoria specifica bensì quella generale in tema di concorrenza confusoria. Tale sanzione consiste nell’inibizione totale all’uso del segno imitato. Si parla in questo caso di uso atipico della ditta.
Concorrono con la norma sanzionatoria del codice civile alcune norme della stessa natura contenute nel Codice della proprietà industriale in caso di violazione dei diritti sugli altri segni distintivi diversi dal marchio. Si ricorda infatti che la ditta, ai sensi dell’articolo 2 c.p.i. rientra fra questi.
Rapporti fra ditta e marchio
Essendo entrambi segni distintivi ricoprenti analoghe funzioni nella concorrenza imprenditoriale che si svolge nel mercato il legislatore spesso equipara la ditta e il marchio. La ditta infatti può essere registrata come marchio a determinate condizioni ovvero ad esclusione delle ipotesi in cui il Codice della proprietà industriale lo vieta per il generarsi di ipotesi confusorie. Talvolta infatti è possibile applicare la disciplina del marchio alla ditta e tutte le valutazioni in merito ai requisiti della stessa verranno operate secondo i criteri utilizzati per il marchio. Viceversa, nelle ipotesi in cui la ditta rimane distinta dal marchio si utilizzano i criteri trattati nel paragrafo precedente.
Nel tutelare il marchio da fenomeni di concorrenza sleale l’articolo 22 del c.p.i vieta l’adozione di una ditta uguale ad un marchio altrui. Si determinerebbe infatti un’ipotesi di confusione, afferma la norma, “a causa dell’identità o dell’affinità tra l’attività di impresa dei titolari di quei segni ed i prodotti o servizi per i quali il marchio è adottato”. La stessa norma vieta inoltre l’adozione come ditta del marchio rinomato nel territorio dello stato quando “l’uso del segno senza giusto motivo consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o reca pregiudizio agli stessi”.
L’articolo 12, primo comma, lettera b) del c.p.i. inoltre esclude che possa essere registrato come marchio un segno identico o simile ad una ditta già esistente. In tale ipotesi infatti si determinerebbe confusione nel pubblico.
Ditta, denominazione e ragione sociale
Nel parlare della ditta bisogna fare chiarezza riguardo l’attività dell’impresa esercitata individualmente e quella esercitata in forma societaria. La disciplina della ditta prevista dal codice civile, come accennato nell’introduzione, è stata pensata per l’imprenditore individuale. Con lo sviluppo dell’attività di impresa organizzata in forma societaria tuttavia la disciplina è stata applicata anche alla ragione e alla denominazione sociale. Si ricorda che la prima corrisponde al nome delle società di persone, la seconda a quello delle società di capitali. Anch’essi sono segni distintivi dell’impresa che, ai fini della tutela prevista dalla legge contro la concorrenza sleale, sono equiparati alla ditta e destinatari della medesima disciplina.
L’articolo 2567 c.c. stabilisce infatti che “La ragione sociale e la denominazione delle società sono regolate dai titoli V e VI di questo libro. Tuttavia si applicano anche ad esse le disposizioni dell’articolo 2564”. L’articolo 2564 tratta della modifica o integrazione della ditta in caso di confusione con quella di altro imprenditore.
In ogni caso la ditta, la denominazione e la ragione sociale rimangono fattispecie distinte. Una società infatti può esercitare più attività d’impresa ed utilizzare una ditta diversa dalla propria denominazione o ragione sociale per identificare un’altra delle sue imprese. È lo stesso articolo 2564 inoltre a presumere la differenza fra le due fattispecie.
Acquisto del diritto
A differenza del marchio l’acquisto del diritto alla ditta non si acquisisce mediante un’apposita procedura di deposito o registrazione, salvo la ditta venga registrata come marchio. Il suo utilizzo nei rapporti d’affari è sufficiente all’acquisizione del diritto, sebbene sia prevista l’obbligatoria iscrizione della ditta al registro delle imprese. L’articolo 2566 c.c. infatti, presuppone, nella sua formulazione, l’iscrizione di tale segno distintivo presso il registro delle imprese affermando che “Per le imprese commerciali, l’ufficio del registro delle imprese deve rifiutare l’iscrizione della ditta, se questa non è conforme a quanto è prescritto dal secondo comma dell’articolo 2563 o, trattandosi di ditta derivata, se non è depositata copia dell’atto in base al quale ha avuto luogo la successione nell’azienda”.
Ciò comporta che nel conflitto fra i titolari di due ditte confondibili, prevalga fra i due il primo che ha registrato la propria. In ogni caso l’iscrizione della ditta al registro delle imprese non è fattispecie costitutiva del diritto alla stessa. Se infatti un imprenditore “ufficializza” una ditta iscrivendola al registro delle imprese ma di fatto ne utilizza un’altra, sarà la seconda ad essere il riferimento in eventuali conflitti con terzi.
Si può dunque affermare che l’utilizzo della ditta costituisce un diritto di proprietà industriale come definito ai sensi dell’articolo 1 del Codice della proprietà industriale e individuato per la ditta fra gli altri segni distintivi.
All’acquisto del diritto sulla ditta fanno seguito l’uso e la notorietà qualificata tipici dei segni distintivi. La seconda è diretta conseguenza del primo. Si ricorda che un segno distintivo per svolgere la sua funzione deve essere reso noto ad un pubblico e dunque presente nel mercato. Nel caso della ditta, che non è sottoposta a procedure di registrazione o ad altre forme di conoscenza, ciò avviene tramite l’uso della stessa. La notorietà qualificata dunque si può definire come quella caratteristica del segno che lo rende lo strumento di identificazione da parte del consumatore di prodotti ed attività provenienti da un certo imprenditore.
Estinzione del diritto
Il diritto all’uso esclusivo della ditta si estingue con la cessazione del suo utilizzo e dunque con la perdita della notorietà qualificata. Ma in concreto come si realizza la perdita di notorietà? È necessario che il pubblico che ha sempre attribuito tramite questo segno distintivo una certa attività imprenditoriale ad un imprenditore si dimentichi di operare tale collegamento. L’estinzione del diritto segue pertanto la perdita del ricordo dell’uso oppure la consapevolezza della cessazione dell’attività individuata dalla ditta. Non è sufficiente dunque la sola cessazione dell’utilizzo della ditta affinché il diritto si estingua.
Il diritto su una ditta che si è estinto non ritornerà più in vita. La ditta può essere ripresa da chi la aveva creata ma costituendo un nuovo diritto che nulla avrà di continuativo rispetto al precedente estinto.
Trasferimento della ditta
Il primo comma dell’articolo 2565 c.c. stabilisce che “La ditta non può essere trasferita separatamente dall’azienda“. Il legislatore ha imposto tale divieto perché questo segno distintivo identifica una impresa fin dall’origine e non può in futuro identificare un’impresa diversa. Si parlava all’inizio della trattazione di una doppia funzione della ditta. Quella volta ad identificare l’imprenditore (la funzione soggettiva) e quella volta ad individuare l’impresa (la funzione oggettiva). Nel trasferimento d’azienda la ditta può scindersi dalla sua funzione soggettiva o da quella oggettiva ma non da entrambe. Può dunque restare ancorata all’imprenditore o all’azienda. Al contrario, invece, il marchio può essere trasferito anche separatamente dall’azienda. Non si applica tale principio tuttavia alla ditta registrata come marchio che rimane inscindibile dall’azienda.
La norma prosegue distinguendo due ipotesi:
- il trasferimento dell’azienda mortis causa e dunque per effetto dell’apertura di una successione. In questo caso si presume il trasferimento della ditta agli eredi salvo che l’imprenditore defunto abbia, in un testamento, disposto diversamente;
- il trasferimento dell’azienda per atto tra vivi in cui il passaggio dell’azienda in capo all’acquirente si perfeziona soltanto con il consenso dell’alienante. Il legislatore ha voluto tutelare la posizione del cedente la cui ditta conteneva il nome e non tanto quelle ipotesi in cui la ditta aveva un nome inventato. Si vuole evitare infatti che il cessionario spenda il nome del cedente con la ditta ceduta. A conferma di tale visione si segnala quanto stabilito dall’articolo 2573 c.c. in tema di marchio costituito da una ditta derivata (ceduta o affittata). La norme stabilisce che in questo caso il diritto all’uso esclusivo sul marchio si presume trasferito insieme all’azienda.