Ditta: principi, diritti e trasferimento – una guida rapida
- Nome civile e ditta
- Il principio di verità
- Il principio di novità
- Il diritto all’uso della ditta
- Il trasferimento della ditta
- La giurisprudenza
La ditta è il nome usato dall’imprenditore nell’esercizio dell’impresa. Si tratta di uno dei segni distintivi necessari. Pertanto, l’imprenditore ne sarà sempre dotato: in mancanza di una diversa denominazione, la ditta coinciderà con il nome civile dello stesso (nome e cognome).
Anche in questa ipotesi, peraltro, giuridicamente permane sempre una distinzione tra nome civile e ditta:
- il nome civile continuerà a contraddistinguere l’imprenditore nei rapporti esterni all’azienda, mentre
- la ditta contraddistinguerà l’imprenditore nei rapporti afferenti l’esercizio dell’impresa.
Nome civile e ditta
Ciò premesso, ci sono alcune altre differenze sostanziali tra nome civile e ditta.
In primo luogo, quando parliamo di nome civile è pur consentita l’omonimia: due persone possono infatti avere legittimamente due identici nomi civili.
Di contro, nei rapporti imprenditoriali non è possibile che esistano due ditte identiche, nel rispetto della funzione concorrenziale di questo segno distintivo, e anche se la ditta deriva dal nome civile.
In aggiunta a ciò, il nome civile è intrasmissibile. Come vedremo in altro approfondimento, invece, l’art. 2565 c.c. stabilisce la trasmissibilità del nome, prevedendo che:
La ditta non può essere trasferita separatamente dall’azienda.
Nel trasferimento dell’azienda per atto tra vivi la ditta non passa all’acquirente senza il consenso dell’alienante.
Nella successione nell’azienda per causa di morte la ditta si trasmette al successore, salvo diversa disposizione testamentaria.
Inoltre, si tenga conto che la coesistenza di nome civile e ditta non è limitata alla sola figura di imprenditore individuale, ma anche per l’imprenditore collettivo, la società.
Sebbene l’art. 2567 c.c. rinvii alla sede propria per la disciplina della denominazione sociale, dichiarando applicabili alle stesse l’art. 2564 c.c. sulle ditte confondibili, autorevole dottrina specifica come sussista la possibilità di adottare, di fianco alla ragione o alla denominazione sociale, una o più ditte diversamente formate.
Il principio di verità della ditta
Premesso quanto sopra, ricordiamo come l’art. 2563 c.c. impone alcuni requisiti base nella formazione della ditta:
L’imprenditore ha diritto all’uso esclusivo della ditta da lui prescelta.
La ditta, comunque sia formata, deve contenere almeno il cognome o la sigla dell’imprenditore, salvo quanto è disposto dall’art. 2565.
Come vediamo, dunque, il secondo comma dell’art. impone l’adozione del cognome o sigla dell’imprenditore (ovvero, l’unione sillabica di nome e cognome) dell’imprenditore.
L’elemento è utile per confermare la vigenza del principio di verità della ditta, che prevede la coincidenza tra il soggetto cui la denominazione usata permette di risalire, e il titolare dell’impresa, al momento della creazione della ditta.
Si tenga conto che il principio di verità della ditta permane anche nel caso di trasferimento della stessa, in parte già accennato. In questo caso la legge prevede infatti il rispetto di un principio di verità storica.
Cosa succede se non viene rispettato il principio
La norma non prevede alcuna sanzione in caso di inosservanza del principio di verità della ditta, se non teniamo in considerazione la non iscrivibilità della ditta nel registro delle imprese. Lo si deduce dalla lettura dell’art. 2566 c.c., secondo cui:
Per le imprese commerciali, l’ufficio del registro delle imprese deve rifiutare l’iscrizione della ditta, se questa non è conforme a quanto è prescritto dal secondo comma dell’art. 2563 o, trattandosi di ditta derivata, se non è depositata copia dell’atto in base al quale ha avuto luogo la successione nell’azienda.
Sulla base del tenore normativo, l’ufficio deve rifiutare l’iscrizione se la ditta non è conferme a quanto previsto dall’art. 2563 c.c., lasciando così all’interprete di stabilire se e in che misura sia tutelabile anche una ditta irregolare.
L’originalità della ditta
L’indicazione del cognome o della sigla dell’imprenditore non limita il contenuto della ditta, ma è solamente un limite all’autonomia privata che, scontata l’osservanza della norma di cui sopra, può esplicarsi con ogni libertà aggiungendo a quella indicazione ogni altra denominazione di fantasia, a patto che sia dotata di capacità distintiva o originalità.
Il termine di originalità è un carattere molto importante per la ditta, considerato che – a patto che sia coerente con le regole fondamentali del buon costume e dell’ordine pubblico, e che non sia tale da tranne in inganno il pubblico sulla natura dell’attività svolta – le aggiunte possono acquisire un valore attrattivo ben superiore a quelle del nome e della sigla dell’imprenditore.
Il principio di novità della ditta
L’art. 2564 c.c. afferma che:
Quando la ditta è uguale o simile a quella usata da altro imprenditore e può creare confusione per l’oggetto dell’impresa e per il luogo in cui questa è esercitata, deve essere integrata o modificata con indicazioni idonee a differenziarla.
Per le imprese commerciali l’obbligo dell’integrazione o modificazione spetta a chi ha iscritto la propria ditta nel registro delle imprese in epoca posteriore.
È evidente che tale principio di novità della ditta risponda pienamente alla funzione concorrenziale della ditta come segno di differenziazione dell’attività e come punto di riferimento del flusso di clientela. Coerente con ciò è la prevalente opinione giurisprudenziale secondo cui – ai fini del giudizio di confondibilità – focalizza l’attenzione, tra i vari elementi costitutivi del segno distintivo, a quello sulla base dell’effetto globale che l’insieme dei dati grafici e fonetici riveste per una persona di media diligenza, appare dotato di un maggiore potere attrattivo.
Come risolvere il problema delle ditte confondibili
Il problema delle ditte confondibili viene risolto con il ricorso al principio della priorità d’uso, come peraltro si evince dall’articolo appena ricordato.
L’art. 2564 c.c. fa infatti riferimento alla identità o alla somiglianza con la ditta usata da un imprenditore e impone all’utilizzatore successivo di provvedere alla differenziazione. Il principio della priorità dell’uso non deve essere confuso con quello della priorità dell’iscrizione nel Registro delle Imprese, cosa che invece potrebbe essere erroneamente dedotto dalla lettura del secondo comma:
Per le imprese commerciali l’obbligo dell’integrazione o modificazione spetta a chi ha iscritto la propria ditta nel registro delle imprese in epoca posteriore.
Efficacia negativa dell’iscrizione nel registro
È opinione di dottrina e di giurisprudenza che la lettura di questa parte della norma debba avvenire in integrazione con l’art. 2193 che parla dell’efficacia negativa dell’iscrizione nel registro:
I fatti dei quali la legge prescrive l’iscrizione, se non sono stati iscritti, non possono essere opposti ai terzi da chi è obbligato a richiederne l’iscrizione, a meno che questi provi che i terzi ne abbiano avuto conoscenza.
L’ignoranza dei fatti dei quali la legge prescrive l’iscrizione non può essere opposta dai terzi dal momento in cui l’iscrizione è avvenuta.
Sono salve le disposizioni particolari della legge.
La norma prevede che la mancata ottemperanza all’obbligo di registrazione non sia in grado di precludere totalmente l’opponibilità del fatto soggetto a pubblicità. Tuttavia, la subordina all’onere della prova dell’effettiva conoscenza da parte del terzo cui si vuole opporre il fatto non iscritto.
Applicando questo principio, ne deriva che colui che ha usato per primo la ditta confondibile può opporre questa priorità all’utilizzatore successivo:
- quando ha preceduto quest’ultimo anche nella registrazione
- nel caso contrario, se però si fa carico di provare che al momento della registrazione più tempestiva l’altro imprenditore fosse consapevole della preesistenza di ditta uguale o simile non registrata.
Pertanto, nonostante l’art. 2564 c.c. parli di doverosità dell’integrazione o di modifica, in realtà ciò non può essere inteso come un obbligo. Si tratta piuttosto di un onere, essendo il soccombente nel conflitto tra ditte confondibili tenuto a tanto solamente se è interessato a conservare la possibilità di utilizzare la propria ditta.
Il cuore della ditta
Ora, a complicare il quadro interpretativo vi è il fatto che il legislatore non ha previsto con precisione quali siano gli elementi costitutivi della ditta su cui deve ricadere l’integrazione o la modifica che possono rendere compatibile il suo uso con l’esistenza della ditta concorrente.
Per risolvere questo problema bisognerà pertanto procedere prima di tutto all’individuazione del cuore della ditta, intendendo per tale gli elementi che nell’ambito della denominazione adottata si ritengono dotati di un maggiore e specifico potere di attrazione della clientela.
Se però le ditte confondibili sono costituite dal solo cognome, ovvero sia proprio il cognome dell’imprenditore a individuare il cuore della ditta, si pone un problema ancora più grave ed evidente. Ovvero, se l’onere di differenziazione si fermi dinanzi a tale elemento, considerata la necessità di rispettare il principio di verità di cui abbiamo parlato qualche paragrafo fa, e il diritto di ogni soggetto all’uso del proprio nome.
Negli anni dinanzi a tale problema si sono sovrapposti due orientamenti.
Il primo, e più remoto nel tempo, considerava il nome patronimico una parte intangibile della ditta. Pertanto, ex art. 2564 c.c., non certo sopprimibile.
Il secondo, e più recente nella storia, privilegia invece l’interesse della differenziazione tra imprese operanti sullo stesso mercato, ritenendo che in questa ipotesi colui che ha adottato per secondo la ditta della quale il nome patronimico costituisce il cuore, sia tenuto a sostituire ad esso una denominazione di fantasia, conservando accanto alla nuova dita l’uso del nome che, a quel punto, non sarà in funzione distintiva dell’impresa ma solamente di indicazione del soggetto responsabile delle obbligazioni assunte.
Il diritto all’uso della ditta
L’art. 2563 c.c. si sofferma sul diritto all’uso della ditta, sancendo che:
L’imprenditore ha diritto all’uso esclusivo della ditta da lui prescelta.
La ditta, comunque sia formata, deve contenere almeno il cognome o la sigla dell’imprenditore, salvo quanto è disposto dall’art. 2565.
Ora, si consideri come l’esclusiva che il legislatore riconosce al titolare non si riferisce solamente all’uso del segno distintivo in funzione della ditta, bensì anche come insegna o marchio.
È invece più controversa la natura giuridica del diritto all’uso esclusivo della ditta, concepito da alcuni autori come un diritto di proprietà sul bene immateriale, e da altri autori come una manifestazione della personalità dell’imprenditore.
Qualsiasi sia l’orientamento che si sceglie di adottare, si tratta di un diritto assoluto opponibile erga omnes. Non contrasta con tale carattere la circostanza che l’inibizione all’uso dello stesso segno sia condizionata alla confondibilità in relazione all’oggetto e all’ubicazione dell’impresa, considerato che l’estensione della tutela giuridica deve essere correlata all’interesse che viene protetto dall’esclusiva, che è quello di caratterizzare l’imprenditore nell’ambito del suo mercato concorrenziale e, dunque, nei confronti dei soli soggetti che in esso operano.
Ciò premesso, ricordiamo anche che non esiste una specifica normativa in ordine alla tutela del diritto all’uso esclusivo della ditta. Come tale, si farà capo alle norme sulla concorrenza sleale, che comprende anche il riferimento alla confusione nell’uso di altrui segni distintivi.
Ne deriva che coloro che ritengono che la propria ditta sia stata usurpata, potranno agire per rimuovere gli effetti conseguenti e domandare il risarcimento del danno, oltre alla pubblicazione della sentenza.
Come nasce il diritto
Il diritto all’uso esclusivo della ditta nasce con l’adozione della denominazione come segno distintivo, indipendentemente dalla sua registrazione. L’interpretazione esclude dunque che la registrazione abbia un valore costitutivo e non di semplice opponibilità ai terzi. Ne deriva che la registrazione, non accompagnata da un uso effettivo, non è idonea ad attribuire un’esclusiva sul segno distintivo e che nel conflitto tra una ditta registrata e una ditta effettivamente usata (o se si preferisce tra una ditta ufficiale a una ditta ufficiosa), solamente alla seconda può essere riconosciuta una tutela giuridica.
Come si estingue il diritto
Il diritto all’uso si estingue per una vicenda uguale e contraria a quella che ha scaturito la nascita dello stesso diritto. Ovvero, con la cessazione dell’uso.
Affinché la cessazione abbia carattere estintivo, deve peraltro trattarsi di cessazione definitiva, come avviene nell’ipotesi di trasferimento dell’azienda che non è però accompagnato dal trasferimento della ditta. Tranne il caso in cui colui che trasferisce la ditta, che non abbia manifestato il suo consenso, intraprenda altra attività imprenditoriale.
Non è invece sufficiente l’inattività del titolare.
Il trasferimento della ditta
Il trasferimento della ditta può avvenire sia mortis causa e che per atto tra vivi, come rammenta l’art. 2565 c.c.:
La ditta non può essere trasferita separatamente dall’azienda.
Nel trasferimento dell’azienda per atto tra vivi la ditta non passa all’acquirente senza il consenso dell’alienante.
Nella successione nell’azienda per causa di morte la ditta si trasmette al successore, salvo diversa disposizione testamentaria.
Requisito comune a ogni formula di trasferimento è l’inseparabilità dall’azienda.
Si consideri come tale previsione deroghi il principio di verità. Non viene infatti imposta all’acquirente l’aggiunta del proprio nome a quello del dante causa. Il pregiudizio che subisce, di conseguenza, la funzione di mezzo di identificazione del titolare dell’impresa è temperato dall’onere di pubblicità di cui all’art. 2556, e a cui sono soggetti i contratti che hanno per oggetto il trasferimento della proprietà o il godimento dell’azienda:
Per le imprese soggette a registrazione i contratti che hanno per oggetto il trasferimento della proprietà o il godimento dell’azienda devono essere provati per iscritto, salva l’osservanza delle forme stabilite dalla legge per il trasferimento dei singoli beni che compongono l’azienda o per la particolare natura del contratto.
I contratti di cui al primo comma, in forma pubblica o per scrittura privata autenticata, devono essere depositati per l’iscrizione nel registro delle imprese, nel termine di trenta giorni, a cura del notaio rogante o autenticante.
Mancata ottemperanza all’onere della pubblicità
Secondo una opinione prevalente della giurisprudenza, in caso di mancata ottemperanza all’onere della pubblicità del trasferimento, sulla base del principio dell’apparenza del diritto, viene sancita la responsabilità solidale del cedente l’azienda nei confronti dei terzi in buona fede per le obbligazioni contratte dal cessionario.
Si tenga comunque conto che, in ogni caso, la trasferibilità risulta essere condizionata dall’esigenza di salvaguardare l’interesse morale del precedente titolare. E, dunque, di non vedere associato il proprio nome all’attività svolta dall’acquirente dell’azienda.
Proprio per tutelare questo interesse è prevista una particolare forma di protezione: sebbene nei trasferimenti mortis causa non assume rilievo se non si manifesta con una specifica clausola testamentaria che esclude il trasferimento, in quelli inter vivos condiziona la vicenda traslativa. Occorre infatti il consenso, che deve essere espresso nel contratto di cessione dell’azienda, dell’alienante, a che il trasferimento dell’azienda includa anche quello della ditta.
Le stesse discipline sono applicabili anche al trasferimento del ramo d’azienda, ovvero di quella parte dell’organizzazione aziendale che può riprodurre, in scala ridotta, le caratteristiche dell’azienda originaria.
Trasferimento della ditta – Giurisprudenza
Di seguito una breve raccolta delle principali sentenze sul tema del trasferimento.
Cass. civ. n. 7305/2009
In relazione al trasferimento di azienda per atto tra vivi, il contestuale trasferimento della ditta ai sensi dell’art. 2565 c.c. deve essere oggetto di una distinta manifestazione della volontà negoziale. La stessa non richiede però un’esplicita menzione della ditta nell’atto di trasferimento, potendo la volontà di estendere quest’ultimo alla dita ricavarsi anche dall’interpretazione dell’atto, sulla base dei criteri indicati dagli artt. 1362 e seg. c.c.
Cass. civ. n. 5899/2002
Ai sensi di quanto previsto dagli artt. 2563 e 2565 c.c. la ditta può continuare ad essere intitolata al nome dell’imprenditore defunto, e si trasmette ai successori unitamente all’azienda, in mancanza di diversa disposizione testamentaria. Tale trasferimento comporta la possibilità di continuare l’esercizio dell’impresa come originariamente denominata, compreso il nome del titolare non più in vita, che può costituire elemento indispensabile o utile per la conservazione dell’avviamento commerciale, perché indice di una continuità operativa, che vale anche a tutelare coloro che abbiano avuto rapporti con l’originario imprenditore.
Cass. civ. n. 2755/1994
Il trasferimento della ditta, necessariamente collegato a quello dell’azienda, ai sensi dell’art. 2565 c.c., può aver luogo anche quando sia trasferita non l’intera organizzazione aziendale, ma solamente un ramo di essa, suscettibile di costituire un’organica unità, riproducente, sia pure su scala ridotta, le caratteristiche fondamentali dell’azienda originaria.