Con la recente sentenza n. 952/2018 la Corte di Cassazione ha ritenuto integrato il reato di violazione, sottrazione e soppressione di corrispondenza nel comportamento della moglie che ha intercettato la corrispondenza bancaria indirizzata al marito, per poi utilizzarla in giudizio contro di lui. Insomma, aprire una lettera che la banca ha indirizzato al marito per poter apprendere che la stessa conteneva informazioni rilevanti sulla sua situazione patrimoniale, da riprodurre poi nel giudizio di separazione, è comportamento che potrebbe configurare i reati di cui sopra.
Vediamo tuttavia in maggior dettaglio come si è svolta la vicenda giudiziaria, e in che modo i giudici della Suprema Corte sono giunti a tale formulazione.
Apertura di documenti bancari indirizzati al coniuge
La vicenda prende il via nel momento in cui una donna apre una lettera indirizzata dall’istituto di credito al marito. Apprendendo dal contenuto della missiva informazioni importanti sulla situazione patrimoniale del coniuge, aveva poi scelto di produrre la stessa documentazione nel processo di separazione giudiziale.
I giudici, pur valutando “che l’imputata potesse versare nella ragionevole convinzione che la documentazione bancaria in questione riguardasse prodotti finanziari acquistati in tutto o in parte con suo denaro, seppure formalmente intestati al coniuge”, e rammentando che “da ciò i giudici dell’appello, conformemente al primo grado, hanno tratto la convinzione che non potesse sussistere dimostrazione adeguata della consapevolezza, in capo all’imputata, di violare e divulgare corrispondenza destinata esclusivamente ad altri soggetti”, hanno tuttavia espresso come tale argomentazione appaia del tutto carente e apodittica, considerato che trasferisce alla “condotta di rilevazione della corrispondenza gli stessi argomenti utilizzati a proposito della condotta di cui al primo comma dell’art. 616 cod.pen. senza avvedersi che, come contestato con l’atto di appello, trattasi di condotte completamente diverse”.
Di fatti, proseguono gli Ermellini, se al momento dell’apertura della corrispondenza indirizzata all’ex coniuge possa ritenersi ipotizzabile un qualche legittimo dubbio dell’imputata sull’effettivo contenuto della lettera, e pertanto in relazione alla possibile inerenza degli investimenti rispetto a denaro in tutto o in parte proprio, non più automaticamente può dirsi per la condotta di divulgazione di un contenuto oramai conosciuto, come relativo a conti intestati esclusivamente al marito.
In altri termini, proseguono i giudici della Corte di Cassazione, al momento della divulgazione della corrispondenza di causa, nessun dubbio legittimo poteva sussistere più in rapporto al fatto che si stesse rendendo noto a terzi il contenuto di una corrispondenza bancaria contenuta in busta chiusa, e indirizzata esclusivamente al coniuge, integrandosi così la fattispecie ascritta.
E’ ben vero – proseguono gli Ermellini – che in sede dibattimentale la difesa dell’imputata ha insistito “sulla tesi della appartenenza alla donna (in tutto o in parte) dei fondi che hanno costituito la provvista degli investimenti decritti nella corrispondenza in questione (tesi giudicata non implausibile dalla Corte territoriale), ma è anche vero che la prova adeguata di tale circostanza non è stata certo raggiunta, essendosi solo ravvisato, dai giudici del merito, un legittimo dubbio al riguardo”.
A ben vedere, però, questo dubbio non ha colto l’aspetto della condotta materiale integrativa del reato, relativa all’aver rivelato la corrispondenza chiusa e indirizzata ad altri, ma solo l’esistenza di un diritto su un diverso bene, ovvero il denaro impiegato per l’acquisto di strumenti finanziari, solo indirettamente chiamato in causa. “Il dubbio dunque non riguarda un elemento costitutivo della fattispecie addebitata, ma aspetti esterni alla stessa, e dunque non rileva rispetto alla divulgazione” – concludono i giudici.
Non c’è giusta causa
In aggiunta a quanto sopra, per i giudici della Corte di Cassazione in un caso come questo non sarebbe nemmeno possibile ravvisare la speciale causa di non punibilità che è richiamata dall’articolo 616 del codice penale, ovvero la giusta causa della rivelazione.
La norma contenuta nell’art. 616 c.p., infatti, presupporrebbe che la produzione in giudizio della documentazione bancaria costituisca l’unico mezzo a disposizione per contestare le richieste del coniuge-controparte. Tuttavia, questa evenienza non ricorre allorchè possa essere utilizzato lo strumento di cui all’art. 210 cod. proc. civ. (ordine di esibizione alla parte o al terzo).
“Ciò si è affermato, come si legge nella motivazione della richiamata sentenza, in primo luogo sulla base di alcune considerazioni evidenziate dalla dottrina giuridica (secondo la quale è sicuramente aperta la questione riguardante la legittimità della produzione processuale di documenti ottenuti illecitamente, tramite la lesione di un diritto fondamentale) e, secondariamente, sull’affermazione secondo cui la giusta causa presuppone che la produzione in giudizio della documentazione bancaria sia “l’unico mezzo a disposizione per contestare le richieste del coniuge controparte”” – conclude la Corte, rammentando poi che nel caso oggetto di esame, “l’imputata non ha dedotto elementi di sorta in tal senso, e dunque ben può affermarsi che avrebbe dovuto esplicare la propria difesa a norma dell’art. 210 cod.proc.civ.”.