L’errata segnalazione alla centrare rischi – indice:
- Quando l’illegittimità
- I rimedi risarcitori
- Il trattamento illecito dei dati personali
- La responsabilità per esercizio di attività pericolosa
- Il danno conseguenza
- Mancato accesso al credito
Nelle ipotesi di illegittima segnalazione alla Centrale Rischi, il danno causato non genera un “automatico” risarcimento. Chiamata a pronunciarsi sulla vicenda di un correntista che lamentava la mancata concessione di un finanziamento a causa dell’errata segnalazione alla Centrale Rischi da parte di alcune banche, la Corte di Cassazione – con sentenza n. 1931/2017 – si è espressa sulla possibilità di veder riconosciuto il danno economico e di immagine, per lesione personale e commerciale, supportando la scelta dei giudici di merito che hanno valutato che il danno va “dimostrato”.
Una controversia vertente su un’illegittima segnalazione della banca al crif
Il danneggiato ha convenuto in giudizio dinanzi al Tribunale di Roma alcuni istituti di credito domandando l’immediata cancellazione del suo nominativo dalla Centrale Rischi, nella categoria delle “sofferenze”, oltre al risarcimento danni e alle spese. Ciò perché inserito a seguito di illegittima segnalazione effettuata dalla banca convenuta. I giudici di merito hanno tuttavia respinto la richiesta risarcitoria del danneggiato. I giudici ritenevano la segnalazione come legittimamente effettuata: era incontestata l’erogazione di somme da parte della banca e la restituzione non integrale di esse. Contro la sentenza il cliente degli istituti di credito ha proposto ricorso per Cassazione per tre mezzi.
Leggi anche: Manipolazione Euribor, banche condannate e rimborsi possibili?
Le motivazioni della Corte: l’attivabilità dei rimedi risarcitori
La Cassazione si è innanzitutto espressa sulla valutazione del Tribunale in merito all’individuazione del presupposto della segnalazione a sofferenza. Questo è da effettuarsi in base ad una valutazione da parte dell’intermediario della complessiva situazione finanziaria del cliente, con una valutazione in riferimento a un concetto differente rispetto a quella dell’insolvenza fallimentare. Va ricondotto a quelle situazioni “non equiparabili in termini di valutazione negativa di una situazione patrimoniale apprezzata come deficitaria.
In buona sostanza, una situazione “di grave (e non transitoria) difficoltà economica – che non può scaturire automaticamente da un mero ritardo nel pagamento del debito. Ciò che rileva è la situazione “oggettiva” di incapacità finanziaria. Nessun rilievo assume la manifestazione di volontà di non adempimento se giustificata da una seria contestazione sull’esistenza del titolo del credito vantato dalla banca”.
L’illecito trattamento dei dati personali in caso di segnalazione illecita
Il giudice di merito ha poi dichiarato l’illegittimità del trattamento dei dati personali del ricorrente da parte di una delle banche. Ha quindi ordinando l’immediata cancellazione del nominativo del ricorrente dalla centrale rischi, categoria “sofferenze”, rilevando altresì che dalla banca non risultava provata l’esistenza del contratto di finanziamento da essa stipulato con il ricorrente e collocato all’origine della segnalazione a sofferenza. “Sicché, in difetto di tale prova, la segnalazione era da considerarsi del tutto illegittima ed arbitraria”.
Quanto alla domanda di risarcimento del danno – la cui sussistenza andava verificata nel quadro di applicazione dell’articolo 2050 c.c., “l’attore aveva allegato di aver richiesto la concessione di linee di credito per la propria attività e di non averle potute ottenere a causa della segnalazione alla centrale rischi, ma detta allegazione era rimasta sfornita di prova, con la conseguenza che la domanda risarcitoria doveva essere rigettata”.
La responsabilità della banca per esercizio di attività pericolosa in caso di segnalazione errata
Dinanzi a tale pronuncia, il ricorrente ha sollevato la vicenda in Cassazione. A sua volta la Cassazione ha ritenuto infondato il motivo principale. Ad avviso della Corteil ricorrente erra “nel porre l’accento sull’assunto secondo cui la responsabilità per attività pericolosa di cui all’articolo 2050 c.c., alla luce della giurisprudenza di questa Corte, costituirebbe ipotesi di responsabilità oggettiva. Per un verso, infatti, l’indirizzo prevalente (il quale fa leva sulla prova liberatoria prevista dalla norma, ossia la prova di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno, e trova conforto nella relazione al codice civile) è nel senso opposto (così Cass. 20 maggio 2016, n. 10422; Cass. 22 settembre 2014, n. 19872). Nel senso dell’inquadramento della responsabilità per l’esercizio di attività pericolose nell’ambito della responsabilità oggettiva si rinviene invece Cass. 17 dicembre 2009, n. 26516, sulla scia di Cass. 4 maggio 2004, n. 8457.
Per altro verso, ricostruita in termini di colpa presunta o di responsabilità oggettiva, non v’è dubbio che l’affermazione della responsabilità dell’esercente l’attività pericolosa, ai sensi dell’articolo 2050 c.c., richieda comunque l’accertamento della sussistenza del un nesso di causalità tra l’attività e il danno patito dal terzo (p. es. Cass. 10 marzo 2006, n. 5254) e, dunque, richieda ineluttabilmente che un danno vi sia, danno che, per converso, il Tribunale ha ritenuto non provato”.
Leggi anche: Investimenti, punibile la banca che si discosta dai benchmark
Non danno evento ma conseguenza per errata segnalazione
In tal proposito, la Cassazione sostiene come sia errato altresì l’assunto secondo cui il danno, nell’ipotesi disciplinata dall’articolo 2050 c.c., ed in particolare in quella dell’illegittima segnalazione alla centrale rischi, debba essere considerato “in re ipsa”. La Cassazione non ritiene quindi che il danno debba essere reputato sussistente per il fatto stesso dello svolgimento dell’attività pericolosa.
Per i giudici della Suprema Corte “deve tenersi per fermo il principio, solidamente ancorato al dettato dell’articolo 1223 c.c., applicabile nel campo aquiliano per il tramite dell’articolo 2056 c.c., secondo cui il danno una conseguenza dell’illecito (ovvero dell’inadempimento), ossia della lesione dell’interesse protetto, conseguenza riguardata dall’ordinamento sotto specie di “perdita” ovvero di “mancato guadagno”, collegati alla lesione dell’interesse protetto per li rami del nesso di causalità.Basterà allo scopo citare Cass., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26972 ore si evidenzia che la tesi del danno in re ipsa snatura la funzione del risarcimento. Questo sarebbe concesso non in conseguenza dell’effettivo accertamento di un danno, ma quale pena privata per un comportamento lesivo”.
Il mancato accesso al credito conseguente ad un’errata segnalazione
Nel caso in esame, il ricorrente sostiene che il comportamento degli istituti di credito, con illegittima segnalazione in Centrale Rischi, avrebbe compromesso la sua capacità di accedere al credito. A tal riguardo il ricorrente sostiene che “ben tre istituti di credito operanti sulla piazza di Bergamo hanno rifiutato in più occasioni di concedere linee di credito”, giungendo a sostenere che il diniego di concessione di linee di credito sarebbe “pacificamente emerso in sede di escussione testimoniale”, e omettendo così di “rammentare un dato macroscopico in senso contrario, e cioè che nessuno dei tre testi sentiti dal giudice di merito sul punto (omissis) ha riferito di richieste di finanziamento del G. respinte, mentre essi hanno solo genericamente dichiarato che la segnalazione a sofferenza costituisce, di regola, ostacolo alla concessione di finanziamenti”.
In aggiunta ulteriore, la Cassazione sottolinea come per il resto il ricorrente, oltre al danno economico derivante dal diniego di accesso al credito, abbia confusamente denunciato un “irrimediabile danno morale” nonché una “lesione della reputazione personale e commerciale”” ma ha ancora una volta omesso completamente di chiarire come e quando simili pregiudizi fossero stati dedotti nella fase di merito.
“Con l’ulteriore conseguenza che, per tale aspetto, la censura è inammissibile per la sua novità, avuto riguardo al principio in forza del quale, ove una determinata questione non risulti trattata nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga la suddetta questione in sede di legittimità, per evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto”.