L’errore diagnostico – indice:
In tema di malasanità e di responsabilità medica, la Corte di Cassazione ci ha recentemente permesso di tornare a parlare di errore diagnostico, della sua natura e delle sue caratteristiche. In particolare, con la pronuncia n. 47448/2018, i giudici della Suprema Corte hanno precisato che l’errore diagnostico è tale non solamente quando il medico – in presenza di uno o più sintomi della malattia – non è in grado di inquadrare il caso clinico in una classe di patologie note alla scienza, o effettua un errore di inquadramento. Per i giudici, l’errore diagnostico si configura altresì quando il sanitario non sottopone il paziente a controlli e accertamenti che sarebbero utili per formulare una corretta diagnosi.
D’altronde, precisano i giudici, allorché il sanitario si trovi dinanzi a una sintomatologia idonea a condurre alla formulazione di una diagnosi differenziale, la condotta deve essere ritenuta colposa se non si procede alla stessa diagnosi, e ci si mantenga nell’erronea posizione diagnostica iniziale.
Evoluzione normativa in tema di errore diagnostico
Con l’occasione i giudici si sono anche soffermati nello stabilire quale sia il regime giuridico applicabile all’errore diagnostico. Dall’epoca dei fatti su cui ci si esprime (2009) ad oggi, si sono succedute tre normative.
In particolare, nel 2009 l’ordinamento non dettava alcuna prescrizione particolare in tema di responsabilità medica. La conseguenza era che fossero applicabili i principi generali in materia di colpa, qualunque fosse il grado di colpa. Era dunque indifferente che il medico versasse in colpa lieve o colpa grave, ai fini della responsabilità.
Nel 2012 entrò in vigore la legge Balduzzi, che ha modificato tale quadro con un articolo (il n. 3). Questo recitava come l’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene alle linee guida e buone pratiche accreditate alla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve, pur rimanendo eventualmente esposto ex art. 2043 c.c..
Più recentemente, nel 2017, è entrata in vigore la legge Gelli – Bianco, che all’art. 6 abroga l’art. 3 della legge Balduzzi, preferendo rifarsi all’emanazione di linee guida “come definite e pubblicate ai sensi di legge” e, dunque, richiamando in causa l’art. 5 della l. 24/2017 che detta un articolato iter di elaborazione e di emanazione delle linee guida.
La mancanza di linee guida
Ricollegandoci a quanto sopra, e proseguendo nell’analisi della pronuncia della Cassazione, emerge altresì come in mancanza di linee guida approvate ed emanate attraverso il procedimento di cui alla l. 24/2017, si possa fare riferimento all’art. 590 sexies cod.pen. nella sola parte in cui questa norma richiama le buone pratiche clinico-assistenziali, rimanendo naturalmente ferma la possibilità di trarre delle utili indicazioni di carattere ermeneutico dall’articolo suddetto del codice penale, che quando verranno emanate le linee guida, costituirà certamente il fulcro dell’architettura normativa e concettuale in tema di responsabilità penale del medico.
Dunque, la possibilità di riservare uno spazio applicativo nell’attuale panorama all’art. 590 sexies cod. pen. È legato all’opzione ermeneutica (non agevole) nel consistere che le linee guida attualmente vigenti, ma non approvate secondo quanto previsto dalla l. 24/2017, possano venire in rilievo come buone pratiche clinico-assistenziali.
Un’opzione – quella ermeneutica di cui si è appena fatto cenno – che non è certamente semplice affermare, considerato che le linee guida sono notevolmente diverse dalle buone pratiche clinico – assistenziali, che si esplicano in una serie di raccomandazioni di comportamento clinico sviluppate mediante un processo sistematico di elaborazione concettuale, finalizzato a offrire indicazioni utili ai medici nel decidere quale sia il percorso diagnostico e terapeutico più appropriato in specifiche circostanze cliniche.
Cosa sono le linee guida: rilevanza nell’errore diagnostico
Le linee guida sono qualificabili pertanto come degli standard diagnostico – terapeutici conformi alle regole dettate dalla migliore scienza medica, a garanzia della salute del paziente, e rappresentano il condensato di acquisizioni scientifiche, tecnologiche e metodologiche concernenti i singoli ambiti operativi, e dunque molto diverse da una semplice buona pratica clinico – assistenziale.
Tuttavia, anche nell’ipotesi in cui si desiderasse aderire alla tesi dell’equiparazione delle linee guida vigenti (ma non approvate ed emanate attraverso il già rammentato art. 5 l. 24/2017) alle buone pratico clinico – assistenziali, come previste dall’art. 590 sexies cod.pen., aprendo così la strada a una immediata operatività dei principi dettati da questa norma, non rimarrebbe superabile il rilievo secondo cui essa esclude la punibilità solamente se sono state rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida o dalle buone pratiche clinico – assistenziali.
Nella fattispecie su cui hanno trovato espressione i giudici di merito, però, le linee e le buone pratiche non sarebbero state affatto rispettate, considerato che sono stati accertati i profili di imperizia clinica, consistenti tra l’altro nell’errata diagnosi della sindrome coronarica acuta, nonostante gli esiti delle analisi. I giudici di merito hanno poi accertato dei profili di negligenza consistenti nell’omessa esecuzione degli esami che sono stati indicati dalle linee guida.
In questo modo, concludono i giudici di legittimità, verrebbero a mancare alcuni dei presupposti fondamentali per l’applicabilità dell’art. 590 sexies cod. pen., ovvero il rispetto delle raccomandazioni previste dalle linee guida e la ravvisabilità in via esclusiva dell’imperizia, ma non della negligenza.
Peraltro, si chiosa, per le stesse ragioni non troverebbe applicazione nemmeno l’art. 3 d.l. n. 158/2012, non potendosi ritenere che il personale sanitario nella fattispecie in esame si sia attenuto alle linee guida e alle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica.