L’estorsione nel mondo del lavoro – indice
Il reato di estorsione può configurarsi anche in ambito lavorativo. Un’affermazione che non dovrebbe risultare certamente di sorpresa, per chi ha l’abitudine di aggiornarsi sulle evoluzioni giurisprudenziali, considerato che i giudici della Corte di Cassazione sono più volte intervenuti in questo ambito, affermando che diverse condotte del datore di lavoro possono integrare il reato di estorsione ex art. 629 c.p., in danno dei propri dipendenti.
Cerchiamo tuttavia, dopo un breve riepilogo del reato di estorsione, di comprendere quali siano tali condotte, e cosa il legislatore, la dottrina e la giurisprudenza, ci permettono di comprendere su questo complesso tema.
Cos’è l’estorsione
Andando con ordine, definiamo l’estorsione quel reato commesso da chi, con violenza o minaccia, costringe qualcuno a fare o non fare qualcosa, per trarre per sé o per altri un ingiusto profitto, con altrui danno.
Il reato è:
- comune: può essere commesso da chiunque;
- plurioffensivo: pur essendo un delitto contro il patrimonio, lede anche l’interesse personale all’autodeterminazione, oltre che l’integrità fisica del soggetto passivo.
In ordine all’elemento oggettivo, la condotta che permette di configurare tale reato è integrata dalla costrizione con violenza o intimidazione nei confronti di qualcuno, al fine di fargli commettere dei determinati comportamenti attivi o omissivi.
Il reato è punito con la reclusione da cinque a dieci anni e con la multa da 1.000 euro a 4.000 euro, salvo che ricorrano le aggravanti, per le quali rimandiamo al nostro recente approfondimento sul delitto di estorsione.
Con tali premesse, derivate dalla sola lettura del dispositivo del codice penale, appare chiaro come siano invero infiniti i casi di estorsione.
Si pensi alla condotta di colui che si reca in un negozio di quartiere chiedendo del denaro dietro minaccia di appiccare fuoco al locale. Oppure, si pensi alla condotta di colui che fotografa una nota attrice in un incontro intimo con un amante, e si fa consegnare dalla stessa una somma di denaro dietro minaccia di pubblicare su qualche rivista le proprie foto.
E nel mondo del lavoro? Purtroppo, complice l’apertura fornita da alcune miliari sentenze della Suprema Corte, anche nel mercato delle professioni si aprono margini di estorsione piuttosto importanti, prevalentemente favoriti da condizioni di sempre maggiore precarietà e debolezza della parte lesa.
L’estorsione nel mondo del lavoro
Per poter comprendere perché si parla con sempre maggiore insistenza di estorsione legata al mondo del lavoro, giova accennare la massima di cui alla sent. n. 1284/2011 della Corte di Cassazione, secondo cui
integra il delitto di estorsione la condotta del datore di lavoro che, approfittando della situazione del mercato di lavoro a lui favorevole per la prevalenza dell’offerta sulla domanda, costringa i lavoratori, con la minaccia larvata di licenziamento, ad accettare la corresponsione di trattamenti retributivi deteriori e non adeguati alle prestazioni effettuate, e più in generale condizioni di lavoro contrarie alle leggi ed ai contratti collettivi.
Ma quali sono le condotte che il datore di lavoro potrebbe porre in essere per poter integrare il delitto di estorsione?
Anche in questo caso, come già abbiamo lasciato intendere qualche riga fa, i casi sarebbero così ampi ed eterogenei da non esser possibile riassumerli. Compiamo, comunque, qualche esempio.
Gli esempi
Uno dei principali esempi di condotta estorsiva del datore di lavoro è quella di costringere il lavoratore ad accettare condizioni economiche peggiori rispetto a quelle garantite dai contratti collettivi o individuali. Una costrizione che viene di norma protratta dietro minaccia del licenziamento. Il lavoratore potrebbe dunque essere ad accettare una remunerazione inferiore a quella che viene invece indicata in busta paga.
Altro esempio ricorrente, su cui la Suprema Corte si è trovata ad esprimersi, è legata al datore di lavoro che dietro minacce o violenze, induca il lavoratore a rinunciare a diritti come i congedi per malattie, infortuni, maternità. Un’altra ipotesi fortunatamente oggi in disuso, grazie all’introduzione delle dimissioni online, era legata alla firma della lettera di dimissioni in bianco, sotto violenza o minaccia.
La condotta nell’estorsione
Come abbiamo brevemente anticipato qualche paragrafo fa, le situazioni esemplificate sono favorite dallo squilibrio che sussiste tra il potere contrattuale riconosciuto al datore di lavoro, e quello riconosciuto al lavoratore subordinato.
Uno squilibrio che il legislatore ha cercato di ridurre introducendo nell’ordinamento delle tutele nei confronti della libertà e della dignità dei lavoratori. Ma, come evidenza giurisprudenziale dimostra, non sempre queste forme di tutela si rivelano efficaci. Tanto che, in fondo, i lavoratori ancora oggi sono ben frequentemente costretti a subire delle prevaricazioni da parte del datore di lavoro.
In questa sede risulta di interesse domandarsi quando queste prevaricazioni possono sfociare in condotte penalmente rilevanti.
In passato, solamente una parte minoritaria della giurisprudenza riteneva configurabile una simile deriva ma, negli ultimi anni, le cose sembrano essere radicalmente cambiate. I giudici di legittimità sono intervenuti sul tema in numerose occasioni. Hanno così affermato che il datore di lavoro che si caratterizzi per una delle condotte sopra riassunte (e non solo) possa effettivamente, con il proprio comportamento, integrare il reato di estorsione.
Insomma, siamo abituati a riferire all’estorsione come a un delitto appartenente alla criminalità organizzata. Tuttavia, in realtà, l’estorsione è reato che può ben essere imputato anche al datore di lavoro. A patto, ovviamente, che ne sussistano i presupposti: violenza o minaccia, ingiustizia del profitto, danno alla parte offesa.
In effetti, considerato che secondo la giurisprudenza costante la minaccia che può integrare il delitto di estorsione è la prospettazione di un male futuro tale da determinare una pressione psicologica sulla vittima, o uno stato di condizionamento morale che poi induce quest’ultima a fare o non fare una determinata cosa, allora dovrebbe ben ammettersi che un simile scenario può ben avvenire anche in ogni ambito. Ivi compreso, evidentemente, anche quello lavorativo.
Le opinioni dei giudici
Peraltro, più volte i giudici di legittimità hanno condiviso che non sempre la prospettazione della minaccia ex art. 629 c.p. deve avvenire in maniera esplicita e immediata. A volte può manifestarsi anche in maniera implicita o indiretta, o tramite esortazioni e suggerimenti che infondono nel soggetto passivo un timore, forzandone la volontà.
Ebbene, è proprio quest’ultima la condotta che generalmente caratterizza il comportamento estorsivo del datore di lavoro.
In una buona parte dei casi su cui i giudici si sono espressi, il datore di lavoro dinanzi a una legittima aspettativa di assunzione da parte del lavoratore, prospettava la possibilità di accettare condizioni di lavoro contrarie alla legge o ai contratti collettivi. Venivano dunque proposti dei salari inferiori a quelli formalmente riconosciuti. E veniva lasciato intendere in maniera più o meno implicita che senza tale disponibilità da parte del lavoratore, non sarebbe scattata l’assunzione.
Chiarito ciò, è anche vero che non sempre è facile ricondurre giudizialmente il comportamento del datore di lavoro nell’alveo dell’estorsione. Rileviamo infatti come la coazione della volontà del lavoratore da parte del proprio datore di lavoro rileva anche civilmente. E che, in ogni caso, la minaccia del datore di lavoro deve essere diretta, credibile e idonea a condizionare il soggetto minacciato. Si avrà evidentemente conto delle circostanze in essere.
Nel caso di rilevanza penale, però, è anche necessario l’elemento del dolo del datore di lavoro. Un elemento che dovrà sussistere sia riguardo al suo comportamento minaccioso, sia nella convinzione di conseguire un profitto ingiusto, determinando un danno altrui.