Indebito utilizzo di carte di pagamento e autorizzazione del titolare – una guida rapida
La sentenza n. 18609/2021 della Cassazione Penale, Sez. II, si è occupata del tema dell’indebito utilizzo delle carte di credito e di pagamento. I giudici hanno così affermato che anche se l’uso dello strumento di pagamento da parte di terzi sia stato delegato dal titolare, non opera comunque l’esimente del consenso dell’avente diritto.
Nella pronuncia che andremo ad esaminare nelle prossime righe, infatti, si legge come la disposizione ex art. 493-ter c.p. serva a tutelare sia il patrimonio personale sia gli interessi pubblici alla sicurezza delle transazioni commerciali che la fiducia nell’uso di tali strumenti da parte dei consociati. Interessi che, a sua volta, sono legati alla prevenzione del pregiudizio che l’indebita disponibilità degli stessi arreca alla sicurezza e alla speditezza del traffico giuridico. E, di riflesso, alla fiducia che in essi ripone il sistema economico e finanziario.
I fatti
L’intervento della Suprema Corte trae origine dalla sentenza della Corte d’appello, impugnata, di responsabilità dell’imputato e del coimputato per il delitto ex artt. 110 c.p., 55 d. lgs. 231/2007, per aver indebitamente utilizzato uno strumento di pagamento intestato ad altri, effettuando con esso ripetuti prelievi di carburante in un’area di servizio, a beneficio di veicolo di propria disponibilità.
In primo grado il giudice aveva assolto gli imputati. Sosteneva infatti che, sulla base delle affermazioni dell’offeso, esistessero ragioni di debito del titolare della carta di credito nei confronti del coimputato. A costui la carta era stata consegnata affinché eseguisse il prelievo della somma oggetto di obbligazione. Il consenso dell’avente diritto impediva dunque di integrare la fattispecie di reato prevista dall’art. 55 co. 9 d. lgs. 231/2007.
La Corte d’appello accoglieva invece il ricorso proposto dal P.M., ritenendo che per le modalità di utilizzo della carta di credito della persona offesa dovesse escludersi il consenso dell’avente diritto, affermando così la responsabilità dell’imputato.
Indebito utilizzo di carte di pagamento altrui
Soffermandoci sul solo motivo di ricorso legato alla corretta lettura della norma di cui all’art. 55, co. 9, d. lgs. 231/2007, oggi trasfusa nell’art. 493 ter c.p., i giudici della Suprema Corte evidenziano come la sua interpretazione conduca a escludere l’operatività dell’istituto del consenso dell’avente diritto ex art. 50 c.p., rispetto all’uso da parte di terzi dello strumento di pagamento o prelievo, quand’anche in qualche misura delegati dal titolare della carta di credito.
I giudici affermano infatti che la causa di giustificazione ex art. 50 c.p. richiede che il bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice rientri nella categoria dei diritti disponibili, rispetto ai quali il titolare del diritto sia in grado di rinunciarvi. Diversamente, se si verte in ipotesi di diritti che proteggono beni di interesse collettivo, la causa di giustificazione non potrà operare.
Delitti contro la pubblica amministrazione
I giudici ricordano che il principio è stato più volte rammentato in relazione ai delitti contro la pubblica amministrazione. E, in aggiunta, anche ai delitti in tema di tutela dell’economia pubblica e anche in relazione ai diritti di falso. Un’interpretazione corretta che, si sottolinea ulteriormente, trova un riscontro significativo nella natura della norma, che sanziona l’uso indebito delle carte di credito e di pagamento, diretta alla tutela non solo del patrimonio del titolare dello strumento di pagamento o di prelievo, quanto anche degli interessi pubblici alla sicurezza delle transazioni commerciali e alla fiducia nell’utilizzazione da parte dei consociati di quegli strumenti.
Proprio per questo motivo si afferma che:
la norma incriminatrice mira, in positivo, a presidiare il regolare e sicuro svolgimento dell’attività finanziaria, attraverso mezzi sostitutivi del contante, ormai largamente penetrati nel tessuto economico.
La conseguenza è che:
gioco forza ritenere che le condotte da esse represse aumentano, come del resto riconosciuto anche dalla giurisprudenza di legittimità in sede di analisi dei rapporti tra la fattispecie criminosa in questione ed i reati di truffa e di ricettazione, una dimensione lesiva che comunque trascende il mero patrimonio individuale, per estendersi, in modo più o meno diretto, a valori riconducibili agli ambiti categoriali dell’ordine pubblico o economico, che dir si voglia, e della fede pubblica.
La natura plurioffensiva del reato di indebito utilizzo di carte di pagamento
Quanto sopra conduce pertanto a riconoscere una natura plurioffensiva di tale reato.
Il bene giuridico oggetto di tutela non è infatti il solo patrimonio del titolare della carta di credito. E tale interpretazione è coerente non solo dagli scopi perseguiti dalle leggi speciali fautrici dell’originaria norma incriminatrice. Ovvero, in contrasto con i fenomeni di riciclaggio, anche mediante il controllo dell’utilizzo dei nuovi strumenti elettronici di circolazione.
Ricordiamo infatti che la conferma arriva anche dalla successiva collocazione della previsione oggetto di incriminazione nella struttura del codice penale nell’ambito dei delitti di falso (art. 493 ter c.p.). Rispettate, infatti, le indicazioni contenute nella legge delega e recepite poi nel decreto legislativo. I quali, a ben vedere, hanno previsto l’inserimento della fattispecie in esame nel corpo del codice penale, considerando l’ambito della tutela del sistema finanziario.
Il requisito soggettivo
I giudici ricordano a questo punto che, nella fattispecie d’esame, non vi è stato alcun effetto deteriore per il ricorrente dal comportamento assunto. Non è però superfluo considerare che anche sotto il profilo dell’esame del requisito soggettivo del reato, la condotta è stata valutata con correttezza dalla sentenza impugnata che di fatti ne ha apprezzato la consapevolezza dell’uso indebito della carta di credito e il fine del profitto perseguito, desumendoli dalle modalità con cui è stato posto in essere il comportamento e dall’assenza della prova su un’eventuale autorizzazione da parte del titolare della carta di credito che avrebbe reso inoffensivo l’utilizzo dello strumento di pagamento.
A questo riguardo, aggiungono ulteriormente i giudici della Suprema Corte, deve essere considerato come l’esistenza della volontà da parte del titolare della carta di credito all’uso ad opera di terzi debba essere rigorosamente valutata per evitare che siano legittimati dei comportamenti abusivi posti in essere grazie a una sola autorizzazione apparente del titolare.
Dunque – concludono i giudici – anche se non può ignorarsi che l’uso degli strumenti elettronici di pagamento o di prelievo effettuato da persona diversa dal titolare sia abbastanza frequente, è comunque necessario che l’eventuale autorizzazione costituisca lo strumento per l’esclusiva realizzazione dell’interesse del titolare della carta di credito.
In altre parole, l’autorizzazione assumerà rilevanza solamente nelle ipotesi in cui sia apprezzabile in modo manifesto che il terzo utilizzatore dello strumento di pagamento o di prelievo di denaro agisce solo nell’interesse del titolare, eseguendo materialmente le operazioni consentite con l’uso della carta, su disposizione del titolare legittimo. Bisognerà in tal senso dimostrare i rapporti esistenti tra le parti, e le circostanze in cui sia avvenuta questa autorizzazione.
Avv. Filippo Martini – diritto penale in collaborazione con Avv. Beatrice Bellato