Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo – indice:
- Le fonti normative
- Le dimensioni del datore di lavoro
- La procedura
- I presupposti
- I criteri di scelta
- Le mansioni del licenziato
- L’onere della prova
- Licenziamento per gmo e covid
Il licenziamento è l’atto giuridico con cui il datore di lavoro recede dal rapporto instauratosi con uno o più lavoratori. Il licenziamento infatti può essere individuale o collettivo. Il giustificato motivo oggettivo è una delle causali del licenziamento previste dalla legge. Si rammenta infatti che la legge 604/66 individua due causali di licenziamento: la giusta causa e il giustificato motivo. Il giustificato motivo può essere soggettivo oppure oggettivo. Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo è legittimo quando sostenuto da alcuni presupposti. Tali presupposti sono dettati dalla legge ma per lo più chiariti e specificati dalla giurisprudenza. L’approfondimento odierno verte sul licenziamento per giustificato motivo oggettivo individuale, essendo il licenziamento collettivo già stato trattato in altra sede.
Le fonti normative del licenziamento per giustificato motivo oggettivo
La causale del giustificato motivo oggettivo nel licenziamento individuale trova la propria fonte normativa nella legge 604/66 recante la disciplina dei licenziamenti individuali. In particolare l’articolo 3 della suddetta legge recita: “Il licenziamento per giustificato motivo con preavviso è determinato da un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro ovvero da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa“.
La legge dunque stabilisce che il giustificato motivo oggettivo quale causale di un licenziamento si ha per:
- ragioni inerenti l’attività produttiva;
- l’organizzazione del lavoro e
- il regolare funzionamento di essa.
Le dimensioni aziendali nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo
La procedura di giustificato motivo oggettivo individuale funziona in maniera diversa a seconda delle dimensioni del datore di lavoro.
L’articolo 7 della legge 604/66 stabilisce infatti che “…il licenziamento per giustificato motivo oggettivo di cui all’articolo 3, seconda parte, della presente legge, qualora disposto da un datore di lavoro avente i requisiti dimensionali di cui all’articolo 18, ottavo comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni, deve essere preceduto da una comunicazione effettuata dal datore di lavoro alla Direzione territoriale del lavoro del luogo dove il lavoratore presta la sua opera, e trasmessa per conoscenza al lavoratore”.
La legge 300/70 individua come parametri dimensionali del datore di lavoro in materia di licenziamenti le seguenti dimensioni:
- più di 15 dipendenti occupati in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale deve aver luogo il licenziamento. Il limite è più di 5 se il datore di lavoro è imprenditore agricolo;
- più di 15 dipendenti occupati nell’ambito dello stesso comune o più di 5 se si tratta di imprenditore agricolo anche se in ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti;
- più di sessanta dipendenti.
Se il datore di lavoro supera i limiti dimensionali appena descritti deve seguire la procedura prevista dal seguito della legge 604/66. Altrimenti il datore di lavoro può procedere alla comunicazione del licenziamento al lavoratore per iscritto con l’indicazione dei motivi che lo hanno determinato.
La procedura di licenziamento per giustificato motivo oggettivo
Nel caso in cui pertanto il datore di lavoro superi i limiti dimensionali suddetti il licenziamento del lavoratore è preceduto da un tentativo di conciliazione che si tiene presso l’ispettorato territoriale del lavoro.
Qualora il tentativo di conciliazione avesse esito positivo si può giungere alla risoluzione consensuale del rapporto di lavoro oppure raggiungere un accordo per una soluzione alternativa al recesso.
Se invece la conciliazione ha esito negativo il datore di lavoro può comunicare il licenziamento al lavoratore.
La procedura di licenziamento così individuata ha una durata complessiva di massimo 20 giorni da quando l’ispettorato del lavoro convoca le parti per la conciliazione. Decorso tale termine senza il raggiungimento di un accordo di conciliazione, come già accennato, il datore di lavoro può procedere al licenziamento.
Non si applica la procedura di licenziamento per giustificato motivo oggettivo così descritta nei seguenti casi:
- quando il lavoratore ha superato il periodo di comporto;
- interruzione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato nel settore delle costruzioni edili per completamento delle attività e chiusura del cantiere.
I presupposti
Con la recente sentenza n. 31652/2018 da parte della Corte di Cassazione, sezione Lavoro, i giudici della Suprema Corte contribuiscono a confermare i presupposti di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
In particolare, nell’accogliere il ricorso di un lavoratore contro le due sentenze di merito che l’avevano visto soccombente, la Suprema Corte rammenta come in relazione al licenziamento per giustificato motivo oggettivo l’esigenza di riduzione di personale legata a ragioni inerenti l’attività produttiva può legittimamente fondare il recesso datoriale solo se sorretto da alcuni presupposti.
I giudici rammentano nel dettaglio che la riduzione di personale a causa di ragioni concernenti l’attività produttiva è fondata se:
- viene comprovata l’impossibilità di reimpiegare il lavoratore;
- il lavoratore interessato dalla riduzione è stato individuato tra quelli occupati in posizione di piena fungibilità;
- si sono applicati i principi di correttezza e di buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c.
Secondo i giudici, tali principi si concretizzano nell’applicazione, nella scelta del lavoratore da licenziare, dei criteri di scelta di cui all’art. 5 legge 223/1991.
I criteri di scelta del licenziato
Riprendendo lo spunto che abbiamo ora introdotto, la Corte di Cassazione ha rilevato come la sentenza impugnato abbia del tutto ignorato i criteri di scelta della l. 223/1991, utilizzati invece dalla giurisprudenza in tema di licenziamento individuale proprio come parametro dei requisiti di correttezza e di buona fede, omettendo ad esempio qualsiasi confronto tra il dipendente ora licenziato e gli altri dipendenti addetti alle stesse mansioni, con particolare riferimento all’anzianità di servizio e ai carichi di famiglia.
In altri termini, si legge nelle motivazioni della sentenza, la Corte di merito non avrebbe potuto considerato il dipendente licenziato come neo assunto, e quindi con minore anzianità di servizio, posto che il rapporto di lavoro del predetto alle dipendenze dell’azienda doveva considerarsi in realtà iniziato ben prima di quanto indicato dal datore di lavoro.
Mansioni del lavoratore licenziato
Ancora, sul presupposto dell’essere le mansioni del ricorrente omogenee e fungibili con quelle degli altri dipendenti, la Corte ha osservato che – constatata l’esistenza di una ragione organizzativa aziendale di soppressione di un posto di lavoro, il giudice territoriale avrebbe dovuto verificare il rispetto da parte del datore di lavoro dei principi di correttezza e di buona fede.
Di contro, il giudice sembra avere trascurato completamente questo passaggio. E, invece, ha trattato la questione come attinente al solo obbligo di repechage, confondendo così i due piani.
Per i giudici di legittimità, infatti, “l’obbligo di repechage, anch’esso presupposto di legittimità del recesso, attiene alla possibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte, laddove il ricorso ai criteri di correttezza e buona fede si impone al datore di lavoro nella fase di individuazione del lavoratore da licenziare, tra più dipendenti svolgenti mansioni fungibili”.
Onere della prova sul datore di lavoro
L’articolo 5 della legge 604/66 stabilisce che l’onere della prova dell’esistenza del giustificato motivo oggettivo spetta al datore di lavoro.
La Corte di legittimità rammenta inoltre che nel caso di recesso datoriale, spetta proprio al datore di lavoro provare la dimostrazione del giustificato motivo di licenziamento. E che, tale prova, non può limitarsi all’esistenza delle esigenze obiettive dell’art. 3 della l. 604/1966, secondo cui
Il licenziamento per giustificato motivo con preavviso è determinato da un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro ovvero da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa.
ma “deve riguardare anche il nesso di conseguenzialità necessaria tra tali esigenze e la risoluzione del singolo rapporto di lavoro riguardante un particolare dipendente (….). In altre parole deve riguardare anche le ragioni della scelta del singolo lavoratore licenziato”.
Per non essersi attenuta ai richiamati principi, la Corte di Cassazione ha dunque cassato la sentenza d’appello impugnata dal lavoratore dipendente, rinviandola a diversa corte territoriale, con l’invito a quest’ultima ad uniformarsi ai principi annunciati.
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e Covid-19
Ad oggi è ancora preclusa la possibilità di procedere con il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, sia individuale che collettivo. Nelle righe seguenti si espone il susseguirsi degli ultimi interventi legislativi in materia.
Decreto legge 41/2021
Il decreto legge n. 41/2021 del 22 marzo ha prorogato il divieto di licenziamento collettivo e individuale per giustificato motivo oggettivo precedentemente introdotto.
In particolare il decreto ha previsto:
- il divieto di avviare un licenziamento collettivo ai sensi degli articoli 4, 5 e 24 della legge 223/1991;
- la sospensione delle procedure di licenziamento collettivo già avviate nel 2020;
- il divieto di licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo e cioè ai sensi dell’articolo 3 della legge 604/66;
- la sospensione delle procedure di licenziamento per giustificato motivo oggettivo individuale già avviate ai sensi dell’articolo 7 della legge 604/66.
Tali preclusioni e sospensioni sono operanti fino al 30 giugno per i datori di lavoro aventi diritto al trattamento di integrazione salariale ordinaria, all’assegno ordinario e al trattamento di integrazione salariale in deroga. Sono ulteriormente operanti dal 1 luglio al 31 ottobre 2021 per i datori di lavoro che fanno domanda di assegno ordinario, cassa integrazione guadagni in deroga e cassa integrazione salariale operai agricoli. Questo perché infatti le preclusioni e le sospensioni operano per l’ipotetica durata di fruizione del trattamento di integrazione salariale. Il decreto prevede che i datori di lavoro che hanno diritto al trattamento di integrazione salariale ordinaria infatti possano usufruire del trattamento per un massimo di 13 settimane. I datori di lavoro che invece rientrano nel campo di applicazione del Fondo di integrazione salariale o della Cassa integrazione in deroga possono usufruire del trattamento per un massimo di 28 settimane.
Il legislatore tuttavia ha previsto alcune eccezioni all’operare di tali preclusioni e sospensioni come ad esempio nei casi di cessazione definitiva dell’attività d’impresa o di fallimento.
Decreto legge n. 73/2021
Fermo restando quanto previsto dal Decreto Sostegni, il Decreto Sostegni-bis ha introdotto ulteriori novità in materia di blocco dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo.
L’ultimo decreto legge entrato in vigore, il n. 73 dello scorso 25 maggio, ha previsto le predette preclusioni e sospensioni per i datori di lavoro che fanno domanda di trattamento di integrazione salariale ordinaria e straordinaria a partire dal 1 luglio 2021 per l’intera durata di fruizione del trattamento fino al 31/12/2021.