La recente sentenza n. 38183 del 30 dicembre 2022 da parte della Corte di Cassazione afferma che il risarcimento del danno previsto per il licenziamento illegittimo spetta in ogni caso. Pertanto, è attribuito anche nel caso in cui il recesso sia rimasto privo di effetti e il rapporto di lavoro sia di fatto proseguito.
I fatti
Con sentenza in data 11 marzo 2019, la Corte d’appello aveva respinto il reclamo principale proposto dal ricorrente contro la decisione del Tribunale che, pronunciandosi sull’ordinanza emessa all’esito della fase sommaria, aveva dichiarato illegittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato al ricorrente dal datore di lavoro, rigettando le domande di reintegrazione e condanna al pagamento dell’indennità di risarcimento.
La Corte d’appello ha poi ritenuto inammissibile la domanda finalizzata a ottenere che venisse dichiarato il diritto del ricorrente all’assunzione presso il datore di lavoro in dipendenza del subentro di detta società nell’appalto per il servizio di igiene urbana del Comune, presso cui il ricorrente era occupato all’epoca del licenziamento.
In particolare, il giudice di seconde cure, condividendo l’iter argomentativo del Tribunale, ha ritenuto non consistenti le motivazioni poste a fondamento del reclamo in relazione
- all’insussistenza di un ulteriore licenziamento intimato al dipendente
- alla non ricorrenza dei presupposti per il richiesto risarcimento del danno
- all’impossibilità di pronunciarsi sulla diversa domanda relativa all’assunzione da parte di società subentrante in sede di cambio appalto.
In aggiunta a ciò, la Corte ritiene infondate le censure avanzate dalla società reclamante in relazione alla ritenuta non ricorrenza dei presupposti che sono stati posti a fondamento del provvedimento interdittivo del Prefetto su cui il licenziamento era fondato, oltre che del susseguente atto di recesso.
I motivi del ricorso
Sono tre i motivi su cui si basa il ricorso:
- con il primo motivo di ricorso viene dedotta la a violazione e falsa applicazione degli articoli 1362, 1363 e 2118 c.c, della L. n. 604 del 1966, articolo 2, comma 1, della L. n. 604 del 1966, articolo 6, comma 1, e della L. n. 300 del 1970, articolo 18, con riferimento all’articolo 360 c.p.c., n. 3. In particolare, si lamenta l’erroneità della sentenza nella parte in cui ha ritenuto sussistere un ulteriore licenziamento del ricorrente, oltre a quello già dichiarato illegittimo dal Tribunale, e non riconosciuto la tutela reintegratoria del lavoratore
- con il secondo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, articolo 18, commi 4 e 7, sempre sotto il profilo dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver la decisione della Corte d’appello negato la tutela risarcitoria al lavoratore per l’illegittimo licenziamento intimato, poiché fondato su ipotesi di totale insussistenza del fatto posto a base del recesso datoriale
- con il terzo motivo si censura la decisione impugnata per violazione e/o falsa applicazione della L. n. 92 del 2012, articolo 1, comma 48, in riferimento all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, deducendosi l’errore della Corte d’appello per aver ritenuto di non poter decidere sulla domanda relativa all’accertamento del diritto del ricorrente ad essere assunto da impresa subentrante in appalto da cui era cessata l’azienda che lo aveva licenziato, alla luce dell’utilizzazione del rito di cui alla L. n. 92 del 2012, articolo 1, comma 48 e ss..
Le decisioni della Corte di Cassazione
Il primo motivo viene ritenuto infondato. Di fatti, come risulta dalla sentenza e dalle deduzioni del ricorrente, il primo licenziamento è stato reputato illegittimo alla luce della ritenuta insussistenza del fatto posto a base del medesimo. Dall’interdittiva prefettizia il nominativo del ricorrente figurava infatti fra i dipendenti della società nei cui riguardi erano stati accertati precedenti penali. Non figurava invece tra quelli che risultavano appartenere ad associazioni mafiose, così come tra quelli degli altri dipendenti segnalati all’Autorità giudiziaria e/o condannati per reati gravi indicati nell’interdittiva medesima.
Nonostante ciò, la Corte ha condiviso correttamente il processo decisorio del Tribunale, escludendo che l’accertata illegittimita’ del licenziamento intimato potesse far discendere le tutele invocate. Ad esso, infatti, era seguito un altro recesso, già regolarmente comunicato con una lettera che citava come causa del licenziamento la fine dell’appalto del servizio di igiene urbana con il Comune. Il licenziamento non aveva formato oggetto di alcuna impugnativa ad hoc. Pertanto, costituiva autonoma causa di risoluzione del rapporto di lavoro.
La Corte ha evidenziato – condividendo le argomentazioni del primo giudice – che il tenore letterale della lettera di licenziamento rendesse palese della missiva del 28/12/2015 rendeva palese, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, la volontà di risolvere il rapporto, in relazione alla cessazione dell’appalto.
L’intento delle parti
Per i giudici, l’espressione “vorra’… considerare che l’esito della procedura potrebbe determinare l’anticipazione della data di risoluzione del rapporto” doveva infatti reputarsi chiaramente riferita alla pendenza ed agli effetti “della procedura introdotta nei suoi confronti avanti alla direzione del lavoro di Catania L. 28 giugno 2012, n. 92, ex articolo 1″.
Per la Cassazione deve ritenersi come non implausibile (anzi, per i giudici della Suprema Corte sostenuta da adeguato fondamento), l’interpretazione offerta dalla Corte nella parte in cui ritiene che dalla lettura della comunicazione considerasse emergente la volontà di licenziamento, collegata all’estinzione dell’appalto del servizio di igiene urbana e la chiarificazione circa l’eventuale anticipata cessazione del rapporto lavorativo per effetto dell’esito della relativa procedura.
La Corte d’appello ha poi precisato che non si sarebbe fatto luogo al risarcimento per la inoperativita’ della presunzione assoluta di danno pari a cinque mensilità ai sensi dello Statuto dei Lavoratori, ma soprattutto per aver comunque il dipendente continuato a lavorare, percependo la relativa retribuzione nel periodo tra la data di decorrenza dell’efficacia del primo licenziamento e quella di cessazione del rapporto alla luce della comunicazione della volontà espulsiva correlata all’estinzione dell’appalto.
La volontà di risoluzione del rapporto
Secondo quanto si legge nel testo della sentenza della Suprema Corte, entrambi i giudici hanno sottolineato come nella comunicazione risultasse chiara la volontà di risoluzione del rapporto a motivo della scadenza dell’appalto ed a prescindere dall’esito della procedura avviata con lettera di licenziamento, essendosi il ricorrente limitato a fornire la propria personale interpretazione della comunicazione in oggetto, in difetto di riferimenti testuali pertinenti e sulla scorta, sostanzialmente, del solo uso del verbo condizionale, riferito, tuttavia, alla procedura introdotta innanzi alla direzione del lavoro.
Ora, è utile evidenziare – proseguono i giudici – come l’interpretazione negoziale sia riservata al giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità, tranne il caso della violazione delle regole legali di ermeneutica contrattuale, che tuttavia non può dirsi esistente sul semplice rilievo che il giudice di merito abbia scelto una piuttosto che un’altra tra le molteplici interpretazioni del testo negoziale.
Dunque, quando di una clausola siano possibili due o più interpretazioni, non è ammesso alla parte, che aveva proposto l’interpretazione disattesa dal giudice, dolersi in sede di legittimità del fatto che ne sia stata privilegiata un’altra.
Il secondo motivo
Il secondo motivo è accolto in questi termini. L’articolo 18, comma 7, della L. n. 300 del 1970, rivisto dalla L. n. 92 del 2012, regola l’apparato sanzionatorio da applicare in caso di accertamento della illegittimità di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo è stato inciso da due recenti sentenze della Corte Costituzionale, successive alla pronuncia rescindente, con riferimento ai requisiti per l’applicazione della tutela reintegratoria:
- la sentenza n. 59 del 2021 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 18, comma 7, secondo periodo, della L. 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dalla L. 28 giugno 2012, n. 92, articolo 1, comma 42, lettera b), nella parte in cui prevede che il giudice, se accerta la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, “puo’ altresi’ applicare” – invece che “applica altresi’” – la disciplina di cui allo stesso articolo 18, comma 4
- la sentenza n. 125 del 2022 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della L. 20 maggio 1970, n. 300, articolo 18, comma 7, secondo periodo, come modificato dalla L. 28 giugno 2012, n. 92, articolo 1, comma 42, lettera b), limitatamente alla parola “manifesta“. Per effetto dell’intervento della Corte costituzionale, il giudice, una volta accertata l’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ordina – in simmetria col regime dei licenziamenti soggettivi – la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, senza alcuna facolta’ di scelta tra tutela ripristinatoria e tutela economica.
Le decisioni
La Corte ricorda ancora come lei stessi, in relazione all’indennità di risarcimento prevista dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, che il risarcimento del danno ex l. n. 300 del 1970, articolo 18, nella misura minima di cinque mensilità, deve essere dovuto per il solo fatto dell’intimazione di un licenziamento illegittimo, e dunque indipendentemente dalla necessità di un intervento di reintegrazione e, pertanto, anche quando il rapporto di lavoro non abbia avuto un’effettiva interruzione.
Le valutazioni della Corte
In particolare, la Suprema Corte afferma che se si riconosce illegittimo il licenziamento, si condanna il datore di lavoro a pagare il risarcimento in questione, pur nelle ipotesi in cui egli non esegua il licenziamento medesimo e di rinnovarlo per altra causale.
Ora, essendosi il primo licenziamento già perfezionato nel momento in cui la manifestazione di volontà del datore di lavoro recedente à giunta a conoscenza del lavoratore e, dunque, ancor prima del verificarsi dell’effetto risolutivo, differito a data successiva, è comunque dovuta la condanna al pagamento del risarcimento dei danni nella misura minima inderogabile di cinque mensilità.
Nella fattispecie, aggiungono i giudici della Suprema Corte, risulta essere accertato come il ricorrente abbia continuato a lavorare – percependo la relativa retribuzione – per circa un mese, e come dunque non possa essere disposta in suo favore alcuna condanna alla corresponsione delle retribuzioni.
Deve però ritenersi la sussistenza del diritto al risarcimento del danno, nella misura minima di cinque mensilità, per effetto del combinato disposto dei commi 7, 2 e 4 dell’articolo 18 della L. n. 300 del 1970.
Il terzo motivo
Infine, il terzo motivo è infondato.
La Corte premette come abbia già chiarito con la sentenza n. 38209 del 2021 che possono essere proposte, oltre alle domande relative all’impugnativa del licenziamento nelle ipotesi regolate dall’articolo 18 Statuto dei Lavoratori, solamente quelle fondate sui medesimi fatti costitutivi (la cessazione del rapporto di lavoro) perché il loro esame non determina un ampliamento indebito del tema sottoposto a decisione e consente di evitare il frazionamento dei processi e le pronunzie di mero rito.
Sono inammissibili le domande fondate su fatti differenti, anche se originati dallo stesso accertamento dell’illegittimità del licenziamento. In particolare, prosegue la pronuncia, in sede di legittimità si afferma che non può realizzarsi un indebito ampliamento del thema decidendum, non coerente con i principi e le esigenze acceleratorie sottese all’introduzione della norma ex l. n. 92 del 2012, che prevede testualmente che “con il ricorso non possono essere proposte domande diverse da quelle di cui al comma 47 del presente articolo, salvo che siano fondate sugli identici fatti costitutivi“, deve essere ricondotto un significato che risponda all’intento di evitare che il “thema decidendum”, individuato con riferimento al nucleo della controversia necessariamente assoggettato al rito speciale, si allarghi con l’introduzione di nuovi temi d’indagine, tali da ritardare il processo, vanificando la celerità della sua conclusione.