Licenziato per aver stampato troppo: legittimo o no? – guida rapida
- L’opinione della Corte di Appello
- Il giudizio di proporzionalità della sanzione
- La maggiore tutela per il lavoratore
È legittimo licenziare il dipendente che stampa troppo in ufficio? Con l’ordinanza n. 20698 del 25.07.2024, la Cassazione si è espressa negativamente, ammettendo l’illegittimità del licenziamento del dipendente accusato di stampare in modo eccessivo, dal momento che questo comportamento può essere sussunto nell’ipotesi di mancata osservanza dei doveri d’ufficio e della conservazione dei beni aziendali punita dal CCNL con una sanzione conservativa. Proviamo a ricostruire brevemente l’evoluzione del caso del dipendente licenziato e le considerazioni dei giudici di legittimità.
L’opinione della Corte di Appello
La Corte di Appello di Roma, con la sentenza impugnata, aveva confermato la pronuncia di primo grado nella parte in cui aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento disciplinare intimato al lavoratore dal datore.
In sintesi, la Corte ha considerato che
certamente la condotta contestata alla dipendente, consistita nell’effettuare riprese fotografiche del posto di lavoro senza autorizzazione datoriale, nel procedere alla stampa di un considerevole numero di pagine in spregio al buon utilizzo delle risorse aziendali e nel non fornire al datore di lavoro alcuna spiegazione al riguardo, integra un’ipotesi di violazione degli obblighi di cui all’art. 220, 1 e 2 comma, del CCNL in atti, in quanto con tale comportamento (il lavoratore) non ha adempiuto all’obbligo di osservare nel modo più scrupoloso i doveri di ufficio e di conservare diligentemente i materiali aziendali
tuttavia, la Corte ha condiviso l’opinione del Tribunale ritenendo che
la condotta tenuta dalla lavoratrice non sia caratterizzata da una gravità tale da giustificarne il licenziamento ai sensi dell’art. 225 del CCNL, risultando pertanto sproporzionata tale sanzione.
Per quanto poi concerne la tutela applicabile, la Corte ha argomentato che
i fatti addebitati alla lavoratrice, così come processualmente accertati, sono connotati da antigiuridicità e non risultano ricompresi nelle fattispecie per le quali la contrattazione collettiva prevede sanzioni conservative
e ha aggiunto poi che
nel caso di specie non può operarsi alcuna “attività di sussunzione” della condotta contestata alla lavoratrice in una fattispecie formulata con clausola generale punibile con misure conservative; si tratta invero di un giudizio sulla gravità dei fatti addebitati e quindi sulla proporzionalità o meno della sanzione espulsiva.
Quindi, la Corte, accogliendo il motivo di reclamo della lavoratrice relativo alla quantificazione dell’indennità risarcitoria, determinata dal Tribunale nella misura minima prevista dalla legge,
tenuto conto dell’anzianità lavorativa del ……. (circa 16 anni) e delle caratteristiche anche dimensionali della Fondazione (che ha oltre 100 dipendenti),
l’ha quantificata in misura pari a diciotto mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.
Il dato di lavoro ricorre in Cassazione ma, le motivazioni vengono respinte dai giudici di legittimità.
Il giudizio di proporzionalità della sanzione
Innanzitutto, i giudici di legittimità richiamano la recente Cass. n. 8642 del 2024, con cui si stabilisce che il giudizio di proporzionalità della sanzione è devoluto al giudice di merito.
La valutazione su tale proporzionalità, che implica un apprezzamento dei fatti storici che hanno dato origine alla controversia, è sindacabile in sede di legittimità solo e unicamente se la motivazione della sentenza impugnata sul punto manchi del tutto, o sia affetta da vizi giuridici consistenti nell’essere stata essa articolata su espressioni od argomenti tra loro inconciliabili, o ancora perplessi ovvero manifestamente ed obiettivamente incomprensibili.
Ancora, in caso di contestazione della valutazione sulla proporzionalità della condotta addebitata, il ricorrente per ottenere la cassazione della sentenza impugnata, non può limitarsi ad invocare una diversa combinazione di detti elementi o un diverso peso specifico di ciascuno di essi, ma deve denunciare entro i limiti della cd. “doppia conforme” l’omesso esame di un fatto che ai fini del giudizio di proporzionalità deve avere un valore decisivo, nel senso che l’elemento trascurato avrebbe condotto ad un diverso esito della controversia con certezza e non con grado di mera probabilità.
Per i giudici di legittimità non sono certamente tali i precedenti disciplinari, che rappresentano al più uno degli elementi da valutare ai fini dell’integrazione della giusta causa di recesso, che sono molteplici (gravità dei fatti addebitati, portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, circostanze in cui sono state commessi, intensità dell’elemento intenzionale, etc.).
Per il resto, il motivo denuncia una radicale contraddittorietà della motivazione chiaramente insussistente.
Il Collegio non ravvisa alcun contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili e non è sufficiente a determinare il vizio radicale della nullità della sentenza né una eventuale insufficienza motivazionale, né, tanto meno, la circostanza che la medesima non soddisfi le aspettative di chi è rimasto soccombente.
La maggiore tutela per il lavoratore licenziato
I giudici di legittimità passano poi a esaminare il ricorso principale del lavoratore, con motivi che tendono ad ottenere una maggiore tutela rispetto a quella riconosciuta dai giudici del merito. Il terzo motivo in sentenza, che assorbe gli altri due, viene accolto.
Di fatto, per i giudici di legittimità la sentenza impugnata sul punto non è conforme al principio di diritto secondo cui:
in tema di licenziamento disciplinare, al fine di selezionare la tutela applicabile tra quelle previste dall’art. 18 commi 4 e 5 della legge n. 300 del 20 maggio 1970, come novellata dalla legge n. 92 del 28 giugno 2012, è consentita al giudice la sussunzione della condotta addebitata al lavoratore ed in concreto accertata giudizialmente nella previsione contrattuale che punisca l’illecito con sanzione conservativa anche laddove sia espressa attraverso clausole generali o elastiche.
Tale operazione di interpretazione e sussunzione non trasmoda nel giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato restando nei limiti dell’attuazione del principio di proporzionalità come già eseguito dalle parti sociali attraverso la previsione del contratto collettivo (Cass. n. 11665 del 2022)
La successiva Cass. n. 13744 del 2022 ha poi ricostruito il quadro dei provvedimenti disciplinari stabilito dal CCNL per i dipendenti di aziende del terziario distribuzione e servizi del 18 luglio 2008. Ha sancito così che il comportamento non grave di un lavoratore – che cioè non attinga a quel grado di gravità di violazione degli obblighi di cui all’art. 220, 1 e 2 comma, che giustifica il licenziamento disciplinare ai sensi dell’art. 225 dello stesso CCNL
ben può essere sussunto nell’ipotesi, prevista dall’art. 220, secondo comma del CCNL citato, del lavoratore che esegua con negligenza il lavoro affidatogli: e pertanto espressa con norma elastica, sanzionata in via conservativa con la multa, nei limiti di attuazione del principio di proporzionalità già eseguito dalle parti sociali attraverso detta previsione.
Poiché anche nel caso in oggetto la Corte territoriale ha già accertato che la condotta contestata al lavoratore
integra un’ipotesi di violazione degli obblighi di cui all’art. 220, 1 e 2 comma, del CCNL in atti, in quanto con tale comportamento la Regini non ha adempiuto all’obbligo di osservare nel modo più scrupoloso i doveri di ufficio e di conservare diligentemente i materiali aziendali
sebbene non caratterizzata da una gravità tale da giustificarne il licenziamento, tale condotta andava sussunta tra quelle punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, con conseguente operatività della tutela stabilita dal comma 4 dell’art. 18 l. n. 300 del 1970.
In conclusione, si accoglie il terzo motivo del ricorso principale del lavoratore, che assorbe gli altri motivi. La sentenza impugnata deve essere cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio al giudice indicato in dispositivo, che si uniformerà al principio innanzi richiamato.