Il reato di maltrattamenti in famiglia – indice:
- Cos’è
- L’interesse tutelato
- I soggetti attivi e passivi
- I maltrattamenti
- L’elemento psicologico
- La condotta
- Cultura e consenso
- Fattispecie aggravate
- Violenza assistita
L’articolo 572 del codice penale, primo comma, stabilisce che “Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da tre a sette anni”.
Una norma di largo utilizzo nei tempi che corrono, non solo per il sempre più frequente verificarsi di violenza tra le mura familiari ma anche per l’ampio ambito di applicazione. Il diritto penale infatti punisce le condotte violente che possono sfociare in maltrattamenti in famiglia ovvero in maltrattamenti nei confronti di altri soggetti con i quali si intrattengono relazioni strette e abituali.
Tale reato si colloca fra i delitti contro la famiglia ovvero nel capo IV che disciplina “i delitti contro l’assistenza familiare”. Si tiene a precisare che, sebbene il legislatore lo abbia collocato in tale sezione, è riduttivo ritenere che l’interesse giuridico tutelato dalla norma sia la famiglia posto che la stessa ricomprende tra i soggetti attivi e passivi del reato un ampio spettro di persone.
Cos’è il reato di maltrattamenti in famiglia
Il reato di maltrattamenti in famiglia è una norma del codice penale che punisce chiunque maltratta un familiare o un convivente ovvero un soggetto sul quale esercita un’autorità ad esempio per ragioni di lavoro, di status sociale ovvero su una persona che gli è stata affidata per altre ragioni previste dalla norma.
La fattispecie delittuosa pertanto tutela non solo soggetti facenti parte di un nucleo familiare, bensì tutte le vittime di maltrattamenti che subiscono tale affronto da parte di un soggetto con cui hanno un rapporto personale, continuativo e abituale.
Essendo un delitto, tale reato è punito con la pena della reclusione che varia a seconda che si tratti dell’ipotesi semplice di reato di cui al primo comma ovvero delle ipotesi previste nei successivi secondo e terzo comma.
È un reato procedibile d’ufficio che ha carattere dell’abitualità e non della permanenza, il cui elemento psicologico è costituito dal dolo.
Essendo un reato disciplinato da un’unica norma avente portata generica, a differenza di quella prevista per il maltrattamento di animali che è più dettagliata, la sua disciplina dev’essere ricostruita anche mediante alcuni significativi interventi giurisprudenziali.
L’interesse tutelato
L’articolo 2 della Costituzione è fondamentale per individuare l’interesse giuridico tutelato tramite la norma sul reato di maltrattamenti in famiglia. Questo afferma che “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.
I maltrattamenti infatti, sia che vengano subiti da un familiare sia che vengano subiti da un soggetto con qualifica diversa rispetto all’autore del reato, calpestano la personalità e la dignità della persona umana. La personalità della persona infatti si esplica nei rapporti con gli altri esseri umani in qualsiasi qualità intrattenuti. Sia che si tratti perciò di una relazione familiare, lavorativa o sociale i maltrattamenti non solo danneggiano l’integrità fisica della vittima ma anche quella morale offendendo dunque proprio quel diritto inviolabile allo svolgimento della personalità garantito dalla Costituzione all’articolo 2.
È inoltre dall’offesa alla dignità della persona e alla compressione del suo diritto all’espansione della personalità che deriva, come si vedrà, il carattere dell’abitualità della condotta.
Agente e vittima del reato di maltrattamenti in famiglia
Per quanto riguarda i soggetti attivi e passivi del reato bisogna distinguere il caso in cui la norma chieda un rapporto qualificato da quelli in cui si riferisce a rapporti derivanti da una convivenza.
Nel secondo caso la norma assoggetta alla pena prevista chiunque ponga in essere i maltrattamenti nei confronti di un convivente. L’ambito di applicazione qui è molto vasto e non richiede un rapporto qualificato tra l’agente e la vittima se non il solo requisito della condivisione di spazi comuni. L’autore del reato può essere pertanto qualsiasi persona a prescindere dalla tipologia di vincolo personale in essere con la vittima.
La questione è più complessa per quanto riguarda i casi in cui la norma richiede un rapporto qualificato. Si tratta dei seguenti tre rapporti:
- familiari;
- di esercizio di autorità, come ad esempio quello che si esercita in un rapporto lavorativo;
- di affidamento per ragioni di istruzione, cura, educazione, vigilanza o custodia. Si pensi ad esempio al rapporto scolastico tra l’insegnante e l’alunno.
Per quanto riguarda il concetto di “familiari” e di famiglia si richiama una sentenza della Corte di Cassazione, la n. 9242/2010. I giudici hanno definito famiglia ai sensi della norma “ogni consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà, senza la necessità della convivenza e della coabitazione”.
I maltrattamenti: la condotta abituale e reiterata
Premesso che i maltrattamenti non consistono nell’abuso di mezzi di correzione o di disciplina di cui all’articolo 571 c.p., ogni azione violenta o non violenta che comprime o impedisce lo sviluppo della personalità umana può considerarsi maltrattamento.
Gli interventi della Corte di Cassazione sul concetto di maltrattamenti sono i più disparati. Fra i più significativi si segnala la nota sentenza n. 8396/1996 in cui i giudici hanno stabilito che “Nello schema del delitto di maltrattamenti in famiglia non rientrano soltanto le percosse, le lesioni, le ingiurie, le minacce e le privazioni e le umiliazioni imposte alla vittima ma anche gli atti di disprezzo e di offesa alla sua dignità che si risolvano in vere e proprie sofferenze morali...”.
Nella stessa sentenza inoltre la giurisprudenza solleva il carattere di abitualità della condotta necessario affinché vi sia reato di maltrattamenti in famiglia.
La Corte afferma infatti che non rileva ai fini dell’insussistenza dell’illecito il fatto che i comportamenti violenti siano esercitati alternativamente a periodi di tranquillità o in situazioni contingenti. È sufficiente il ripetersi di tali azioni in maniera sistematica e abituale.
In una più recente sentenza della stessa Corte, la n. 40340/2007, i giudici hanno affermato che “Nel caso in cui venga posto in essere un uso sistematico della violenza, correttamente è ravvisato il reato di maltrattamenti di cui all’articolo 572 c.p. mentre non è possibile configurare il meno grave reato di abuso dei mezzi di correzione di cui all’art. 571 c.p., anche laddove, in ipotesi, la condotta sia stata sorretta da un asserito animus corrigendi”.
L’elemento psicologico
Si accennava all’inizio che l’elemento psicologico del reato di maltrattamenti in famiglia è il dolo. Si tratta infatti di un delitto in cui è necessario tale elemento soggettivo per configurarsi il reato. La giurisprudenza precisa che è sufficiente un dolo generico consistente “nella coscienza e volontà di sottoporre il soggetto passivo ad una serie di sofferenze fisiche e morali in modo continuo e abituale in modo da lederne complessivamente la personalità“ (Cass. 11476/1997).
Ritorna nelle parole della Corte quel comportamento lesivo della personalità della vittima necessario al configurarsi della fattispecie.
In mancanza del dolo, cosi come individuato dalla giurisprudenza, non può esserci il reato di maltrattamenti in famiglia. Come ha affermato la Cassazione nella sentenza 6490/2009 quando manchino nell’agente “la coscienza e la volontà di sottoporre i soggetti passivi ad una serie di sofferenze fisiche o morali in modo continuativo ed abituale...i singoli atti lesivi, certamente verificatisi, non possono che essere letti come forme espressive di reazioni determinate da tensioni contingenti, anche se non infrequenti nel descritto contesto familiare; detti atti non appaiono, per quanto accertato in sede di merito, tra loro connessi e cementati dalla volontà unitaria e persistente dell’agente di sottoporre i soggetti passivi a ingiuste sofferenze morali o fisiche, si da rendere abitualmente doloroso il rapporto relazionale”.
Condotta commissiva od omissiva
Quando si pensa ai maltrattamenti, dandone un connotato per lo più fisico, viene naturale pensare ad una condotta commissiva. In realtà c’è chi ha pensato che si possono avere dei maltrattamenti anche con condotte omissive. La norma non si esprime in merito e pertanto ci ha pensato la giurisprudenza a dare una risposta.
Con la sentenza n. 41142/2010 la Corte di Cassazione ha stabilito, con riguardo al rapporto tra un minore e il responsabile della sua educazione e assistenza che “il reato di maltrattamenti in famiglia può rimanere realizzato in linea di principio anche in condotte omissive individuabili pure nel deliberato astenersi da parte del responsabile della educazione e della assistenza al minore, dall’impedire gli effetti illegittimi di una propria condotta diretta verso altri soggetti”.
A titolo esemplificativo si cita un altro esempio di condotta omissiva che integra il reato in esame. Si pensi agli operatori sanitari delle case di riposo per anziani che non ottemperino ai loro obblighi di assistenza, cura e nutrizione degli anziani. In tal caso, tuttavia, ma non solo, il reato di maltrattamenti si sostanzia nella combinazione di condotte commissive ed omissive.
Cultura, consenso e maltrattamenti in famiglia
Nei tempi più recenti, sono state sempre più frequenti le ondate migratorie verso l’Italia. La giurisprudenza infatti si è dovuta cimentare su episodi di maltrattamenti in famiglia in cui la vittima del reato ha acconsentito al maltrattamento in ragione della cultura di appartenenza.
I giudici hanno dovuto operare un principio di prevalenza tra la tolleranza culturale e i diritti della persona. Senza alcun dubbio la giurisprudenza ha dato maggior peso ai diritti della persona. Ciò in ragione di una costituzione che li considera limiti invalicabili dall’introduzione di nuovi usi e costumi nella nostra società civile.
Le fattispecie aggravate del reato di maltrattamenti in famiglia
La legge 69/2019, chiamata Codice Rosso e recante disposizioni a tutela delle vittime della violenza domestica e di genere, ha introdotto una fattispecie aggravata del reato di maltrattamenti in famiglia al secondo comma dell’art. 572 c.p. Allo stesso tempo tale recente corpo normativo ha eliminato dall’articolo 61 c.p. sulle aggravanti comuni del reato il riferimento ai maltrattamenti.
Tale fattispecie aggravata si ha quando “il fatto è commesso in presenza o in danno di persona minore, di donna in stato di gravidanza o di persona con disabilità come definita ai sensi dell’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero se il fatto è commesso con armi“.
In questo caso il reato è punito con la pena prevista per la fattispecie semplice del reato. Ovvero della reclusione da tre a sette anni, aumentata fino alla metà.
Al comma terzo dell’art. 572 c.p. invece sono previste delle ipotesi di evento che possono aggravare il reato e aumentarne di conseguenza la pena. Si tratta del verificarsi di eventi non desiderati dall’agente e che, in caso contrario, configurerebbero i reati di lesioni personali dolose o di omicidio doloso. Ci sarebbe pertanto il concorso di tali reati con il reato di maltrattamenti. Gli eventi che possono verificarsi sono i seguenti:
- una lesione personale grave, caso in cui la reclusione è determinata fra i 4 e i 9 anni;
- una lesione personale gravissima, in cui la reclusione dai 7 ai 15 anni;
- la morte della vittima, con la reclusione dai 12 ai 24 anni.
La violenza “assistita” o ” indiretta”
Sempre nel quadro normativo delle disposizioni a tutela dei minori e delle donne contro la violenza di cui alla legge 69/2019 è stata introdotta all’ultimo comma dell’articolo 572 c.p. un’ipotesi chiamata di violenza assistita o indiretta.
L’ultimo comma della norma infatti recita “Il minore di anni diciotto che assiste ai maltrattamenti di cui al presente articolo si considera persona offesa dal reato”.
La disposizione si inserisce in quella parte della norma che vuole tutelare la famiglia. Di quest’ultima il legislatore ha inteso tutelare non solo l’integrità del nucleo bensì l’incolumità fisica e psichica dei suoi membri. A maggior ragione se si tratta di minori sui quali occasioni di violenza e sofferenza possono incidere su un sano sviluppo psichico.