Il mobbing sul lavoro – indice:
- Lesioni personali colpose
- Prescrizione del reato
- Riscontri condotte lesive
- Causa delle lesioni personali
- Reato di stalking
- Le prove del mobbing sul lavoro
- Conclusioni
Con il termine mobbing si intende un fenomeno che si manifesta nell’ambito di un gruppo sociale. Quando alcuni membri del gruppo assumono dei comportamenti vessatori e persecutori nei confronti di uno dei membri che lo compongono si può avere mobbing. Tale fenomeno si verifica in diversi gruppi sociali: molto di frequente nei luoghi di lavoro. I membri del gruppo che pongono in essere comportamenti mobbizzanti sono di solito il datore di lavoro nei confronti di un dipendente oppure alcuni dei suoi dipendenti. Questi, gerarchicamente sovraordinati ad un altro dipendente, possono con i propri comportamenti rendere il soggetto vittima di mobbing.
Il mobbing è un fenomeno studiato dalla scienza, in quanto può dare origine ad alcune patologie psico-fisiche. In quanto tale il mobbing può in alcuni casi anche integrare una condotta sanzionata penalmente. La Corte di Cassazione, con due recenti sentenze, ha ritenuto che alcuni casi di mobbing possano integrare i reati di lesioni personali colpose ex articolo 582 del codice penale ovvero il reato di atti persecutori ex articolo 612-bis del codice penale. Il mobbing inoltre può integrare anche il reato di maltrattamenti in famiglia ex articolo 571 del codice penale se i comportamenti vessatori vengono posti in essere in un contesto parafamiliare.
Mobbing sul lavoro e reato di lesioni personali colpose
Il mobbing sul lavoro, ovvero le condotte vessatorie da parte del datore sul dipendente, possono costituire utile base per condurre a una condanna per lesioni personali. Tale reato è previsto all’articolo 582 del codice penale secondo cui “Chiunque cagiona ad alcuno una lesione personale, dalla quale deriva una malattia nel corpo o nella mente, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni”.
A ricordarlo è la recente sentenza n. 44890/2018 della Corte di Cassazione, che si è espressa sul caso di un datore di lavoro che ha determinato una patologia psichiatrica a un proprio lavoratore, in seguito a comportamenti vessatori e persecutori, espressioni ingiuriose, pressioni per lo svolgimento dell’attività lavorativa e continue contestazioni disciplinari.
Prescrizione del reato di lesioni personali colpose
Nei motivi della decisione, gli Ermellini rammentano innanzitutto come nel reato di lesioni personali colpose (in ambito lavorativo o meno) la prescrizione inizia a decorrere dal momento dell’evento. Inizia cioè a decorrere dal momento dell’insorgenza della malattia, anche se non ancora stabilizzata, o divenuta irreversibile o permanente.
In tal senso, appare dunque in contrasto la visione degli Ermellini con quella della Corte di merito. Quest’ultima faceva riferimento alla decorrenza inquadrandola come la data di cessione del rapporto di lavoro.
Una decisione che gli Ermellini affermano non essere “ancorata né ad alcuna specifica condotta ulteriormente lesiva (…) né ad alcuna specifica interferenza con il progredire della patologia psichica da cui fu colpito (il lavoratore, ndr)”.
Riscontri delle condotte lesive
I giudici si soffermano poi sulla necessità di ottenere dei riscontri delle condotte lesive. In sede processuale sono in merito emersi diversi elementi di riscontro delle dichiarazioni della persona offesa. Con particolare e specifico riferimento alle documentazioni disciplinari, alle contestazioni e alle condizioni sanitarie, oltre che alcuni contributi dichiarativi forniti dai testimoni e dai consulenti di parte. Tali periti hanno chiarito l’esistenza di un disagio manifestato dal lavoratore nell’ambito dell’ambiente professionale.
Gli Ermellini sottolineano altresì che la mancata escussione di altri dipendenti della stessa impresa non rileva ai fini di una maturazione della decisività dell’assunzione di queste fonti di prova orali.
Evidenziano in tal proposito che per “prova decisiva” deve intendersi la prova che “confrontata con le argomentazioni contenute nella motivazione, si riveli tale da dimostrare che, ove esperita, avrebbe sicuramente determinato una diversa pronuncia; ovvero quella che, non assunta o non valutata, vizia la sentenza intaccandone la struttura portante”.
Causa delle lesioni personali
I giudici della Suprema Corte passano quindi a occuparsi del nesso di causa ed effetto tra le condotte poste in essere dal datore di lavoro e le lesioni lamentate dal lavoratore.
Per far ciò rammentano come “una volta che sia stata ravvisata l’astratta riferibilità causale delle patologie psichiche (integranti la nozione di lesioni) alle condizioni cui la persona offesa era sottoposta dal datore di lavoro (come sopra anticipato: condotta della quale è stata data dimostrazione, anche per via documentale), la sentenza impugnata pone l’accento sull’assenza di una dimostrazione su ipotetici decorsi casuali alternativi, e sulla non emersione di eventuali fattori causali sopravvenuti, idonei a interrompere il nesso eziologico”.
Su questo assunto, continuano i giudici di legittimità, “non riverbera effetto il mancato riconoscimento del disturbo depressivo maggiore da parte del consulente del P.M.”. L’organo giudiziario ha peraltro confermato che il lavoratore era affetto da una sindrome ansiosa su base “reattiva”. Tale sindrome così clinicamente definita, precisano i giudici, non presenta andamento esclusivamente “endogeno”. Si relaziona meglio pertanto – sotto il profilo della riconducibilità causale – alle condizioni vessatorie cui il lavoratore era sottoposto dal proprio datore.
Reato di stalking e mobbing sul lavoro
Con la sentenza n. 31273 del 14/09/2020 invece la Corte di Cassazione stabilisce che nulla osti all’integrazione del reato di atti persecutori in caso di mobbing. Ciò qualora tale fenomeno si esplichi in una delle condotte descritte all’articolo 612-bis del codice penale. Ai sensi di tale norma commette reato di atti persecutori “chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita“.
Nel caso affrontato dalla Corte i giudici di primo e secondo grado di giudizio condannavano un datore di lavoro al reato di atti persecutori. Tale soggetto aveva posto in essere comportamenti vessatori plurimi e reiterati nei confronti di un proprio dipendente. Fra questi comportamenti rilevano in particolare:
- l’atto con cui il datore di lavoro impediva fisicamente al lavoratore di abbandonare l’ufficio. Occasione in cui è stato richiesto anche l’intervento del 118;
- il successivo licenziamento pretestuoso e ritorsivo del lavoratore.
Tali atti vessatori determinavano plurimi elementi del reato di atti persecutori di cui al primo comma dell’articolo 612-bis fra cui:
- lo stato di ansia e di paura nella persona offesa;
- la modifica delle abitudini di vita.
Si legge nella sentenza in commento che: “Integra il delitto di atti persecutori la condotta di “mobbing” del datore di lavoro che ponga in essere una mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti convergenti nell’esprimere ostilità verso il lavoratore dipendente e preordinati alla sua mortificazione ed isolamento nell’ambiente di lavoro, tali da determinare un “vulnus” alla libera autodeterminazione della vittima, così realizzando uno degli eventi alternativi previsti dall’art. 612-bis cod. pen.”.
Come dimostrare il mobbing sul lavoro: le prove
Affinché il giudice qualifichi gli atti che sono sottoposti al suo accertamento quali comportamenti mobbizzanti sono necessarie delle prove ben determinate.
Nell’ordinanza n. 10992 del 09/06/2020 della Corte di Cassazione si ricava come la ricorrente avesse intrapreso il giudizio per far accertare determinati comportamenti del proprio datore di lavoro come atti di mobbing. In particolare si trattava di:
- diverse utilizzazioni della lavoratrice ritenuti dalla stessa come dequalificanti;
- trasferimenti della lavoratrice.
La Corte tuttavia nella massima dell’ordinanza stabilisce che “Ai fini della configurabilità di una ipotesi di “mobbing”, non è condizione sufficiente l’accertata esistenza di una dequalificazione o di plurime condotte datoriali illegittime, essendo a tal fine necessario che il lavoratore alleghi e provi, con ulteriori e concreti elementi, che i comportamenti datoriali siano il frutto di un disegno persecutorio unificante, preordinato alla prevaricazione”.
Conclusioni
Si viene ora a trarre le conclusioni di quanto sopra brevemente rammentato. Secondo gli Ermellini dunque deve ritenersi configurata l’ipotesi di reato di lesioni personali quale conseguenza della condotta mobbizzante tenuta dal datore di lavoro nei confronti del dipendente solo dopo aver portato alcune prove. In particolare:
- la prova della patologia;
- la dimostrazione della astratta riferibilità della stessa alle vessazioni;
- la verifica dell’assenza della sussistenza di ipotetici decorsi causali alternativi e sopravvenuti, che fossero idonei a interrompere il nesso eziologico.
Risulta inoltre utile rammentare quanto condiviso in apertura di questo approfondimento. In tema di lesioni personali colpose (dentro o fuori il contesto lavorativo), la prescrizione inizia a decorrere dal momento dell’evento. Inizia ovvero a decorrere dal momento in cui insorge la malattia, e non dal momento in cui cessa il rapporto di lavoro.
Si chiude l’approfondimento ricordando quanto affermato con l’ultima recente pronuncia di legittimità in materia di mobbing e di tutela penale del lavoratore dipendente. Il datore di lavoro può essere condannato per reato di atti persecutori ex articolo 612-bis del codice penale. Ciò può accadere quando il lavoratore dipendente dimostri di essere stato vittima di comportamenti provocanti gli effetti descritti dall’articolo 612-bis quali stato di ansia grave e paura o modifica delle proprie abitudini di vita.