Modifica unilaterale contratti bancari: quando non è legittima – guida rapida
- Le lamentele del ricorrente sulla modifica contrattuale unilaterale
- Gli orientamenti della giurisprudenza
- Le implicazioni dei diversi orientamenti
- La facoltà di modificare unilateralmente il contratto
- L’aumento di un costo pari a zero
- I principi di diritto
Il Collegio di Coordinamento dell’Arbitro Bancario Finanziario si è espresso, con decisione n. 6781 del 3 luglio 2023, sul tema della modifica unilaterale contratti bancari, ovvero di una clausole relativa al canone annuo di un conto corrente bancario, da parte dell’istituto di credito.
La clausola in questione, che rientrava nel pacchetto Senza Opzione Assistenza in Filiale, era originariamente valorizzata a zero. Il ricorrente, nella fase di sottoscrizione del contratto, aveva deciso di aderire all’opzione a canone zero, con un’offerta che consentiva di operare gratuitamente mediante il servizio informatico, ovvero tramite Internet o Servizio Clienti, prevedendo così il pagamento delle sole operazioni effettuate in filiale.
Di contro, nell’ipotesi in cui il ricorrente si fosse voluto avvalere dell’assenza in filiale (appunto, la denominata Opzione Assistenza in Filiale), potendo disporre di un numero illimitato di operazioni gratuite tramite tutti i canali della banca, sia online che fisici, avrebbe dovuto versare uno specifico corrispettivo a titolo di canone.
Il conto corrente è stato aperto nel 2013 mentre in data 24 luglio 2019 la banca inviava al cliente una prima proposta di modifica unilaterale, mediante la quale veniva introdotta una variazione del canone annuo (addebitato mensilmente), aumentandone l’importo da euro 0 a euro 12.
Con la seconda proposta di modifica unilaterale del 21 marzo 2022, la voce di costo veniva ulteriormente aumentata da euro 12 a euro 24. La facoltà di modifica unilaterale delle condizioni economiche indicate nel Foglio Informativo, contenuta nel contratto, era stata approvata dal cliente in modo specifico.
Le lamentele del ricorrente sulla modifica unilaterale contratti bancari
La parte ricorrente si doleva degli incrementi di canone applicati dall’istituto di credito, ricorrendo all’Arbitro domandano che il canone del conto corrente tornasse ad essere definitivamente a zero come era prima delle due proposte di modifica unilaterale inviate dalla banca, e che tutti i canoni finora versati fossero stornati.
Nello specifico, per il ricorrente le modifiche intervenute unilateralmente sul contratto erano illegittime, poiché le stesse non avrebbero costituito un legittimo esercizio dello ius variandi, ma avrebbero determinato l’introduzione di un nuovo onero, estraneo all’ambito applicativo dell’art. 118 TUB.
Dal canto suo, l’intermediario si difendeva contestando le doglianze del ricorrente, insistendo sulla legittimità delle proposte di modifica unilaterale e osservando in dettaglio che il contratto di conto corrente prevedeva fin dall’origine, nella propria disciplina economica, l’applicazione di un canone annuo applicato diversamente a seconda delle esigenze.
Il canone era pari a euro 24, nel caso in cui però il cliente avesse optato per l’assistenza in filiale, e pari a euro 0 nel caso in cui invece non avesse voluto avvalersi di tale opzione.
Gli orientamenti della giurisprudenza
Nel rimettere al Collegio di Coordinamento la questione, il Collegio milanese ripercorreva gli orientamenti non uniformi che si sono succeduti sulla questione.
In particolare, stando a un primo orientamento, che è prevalente fra i Collegi territoriali, “là dove vi sia l’indicazione di una voce di costo, valorizzata a “zero” nella documentazione contrattuale, l’esercizio dello ius variandi non avrebbe spazio, in quanto “menzionare una commissione avvalorandola a costo zero almeno [equivale] a non imporre oneri di quel genere” (così Coll. Milano, dec. n. 2670/2018 e 12448/2020; 12453/2020; Coll. Roma, dec. n. 15128/2020; Coll. Napoli, dec. n. 5299/2021).
Le altre pronunce
A questa impostazione aderiscono alcune pronunce che, tuttavia, secondo quanto rappresentato nell’ordinanza di rimessione, divergerebbero dal caso in esame perché il contratto era stato pubblicizzato come “gratuito per sempre”, una circostanza poi smentita dal successivo esercizio di ius variandi.
Nell’ordinanza si osserva come i precedenti sopra richiamati “propendono per una rigorosa interpretazione estensiva del presupposto della “preesistenza” della clausola oggetto di ius variandi. La clausola oggetto della modifica non sarebbe preesistente sia quando essa non è materialmente scritta nel regolamento contrattuale, sia quando, pur menzionata nel contratto, sia inizialmente indicata a “zero” dall’intermediario” – si legge nella decisione.
Pertanto, non viene ammessa la pur diffusa pratica commerciale sulla base della quale le condizioni economiche, in un rapporto a tempo indeterminato, vengono inizialmente valorizzate a zero, salvo, successivamente, essere modificate unilateralmente dall’intermediario, in caso di sopravvenienze del rapporto tali da determinare squilibri tra le prestazioni.
Ancora in relazione alla stessa fattispecie, lo scorso anno con la decisione n. 16575/2022 il Collegio di Napoli ha rilevato come “nei sistemi di diritto continentale, lo “zero” è misura che in principio indica e rappresenta che ciò a cui la cifra viene nel concreto riferita, è una attività, ovvero un servizio di ordine gratuito, non già oneroso”. Pertanto, secondo questa prospettazione “non può essere dubbio … che l’adozione – in corso di contratto – di un valore positivo a fronte dello svolgimento di un’attività o di un servizio, che in precedenza era valorizzato a zero, comporti il transito da un’attività, o servizio, di natura gratuita a un’attività, o servizio, di natura per contro onerosa”.
Il secondo orientamento
Il secondo orientamento che viene richiamato dal Collegio rimettente si colloca invece su una prospettiva opposta: reputa infatti ammissibile la modifica di una condizione economica del contratto per il semplice fatto che la clausola faccia parte del regolamento contrattuale.
Tale impostazione pertanto non fornisce alcun rilievo al fatto che il parametro negoziale oggetto di modifica sia stato originariamente fissato a “zero”. Il solo fatto che la clausola faccia parte del regolamento contrattuale, a prescindere dall’indicazione dell’originario importo in un valore pari o superiore a zero, rende legittima la modifica.
In alcune recenti pronunce, i collegi territoriali hanno dunque ritenuto legittimo l’esercizio dello ius variandi in relazione riferimento alla modifica della condizione economica “spese fisse ad ogni liquidazione”, inizialmente prevista a zero e modificata, a 7,50 euro trimestrali. Una conclusione che si giustifica perché “la clausola sulle spese fisse di liquidazione del conto corrente, pur se gratuita, deve considerarsi una condizione economica presente nel contratto, per cui, l’aumento di un costo, da un valore pari a zero a un qualsivoglia valore positivo, non costituisce l’introduzione di un nuovo costo contrattuale, ma una modifica di una pattuizione già esistente, legittimamente introdotta ex. art. 118” (così Coll. Palermo, dec. n. 191/2023).
Le implicazioni dei diversi orientamenti
Una volta riassunti i diversi orientamenti, l’ordinanza di rimessione si sofferma anche sulle diverse implicazioni nell’aderire all’uno o all’altro.
In particolare, si legge,
ammettere che, sempre e in ogni caso, la semplice indicazione nel contratto di una condizione economica consente all’intermediario di aumentare unilateralmente gli importi addebitati alla clientela agevola, probabilmente, iniziative commerciali opportunistiche. La (più o meno) generalizzata valorizzazione a zero di una molteplicità di voci economiche applicate dall’intermediario al rapporto con il cliente potrebbe apparire finalizzata all’iniziale acquisizione di clientela, con la programmata intenzione di modificare, alla prima occasione utile, le condizioni economiche.
Di contro, prosegue la stessa ordinanza
limitarsi ad affermare che valorizzare a “zero” una condizione contrattuale equivale a non scrivere tale clausola nel regolamento (con conseguente impossibilità per l’intermediario di procedere unilateralmente alla modifica del parametro contrattuale), implica un eccesso di protezione della clientela, che pare mal conciliarsi con le altre tutele espressamente previste dall’ordinamento.
In particolare, prosegue l’ordinanza, bisogna rimarcare come il requisito del giustificato motivo implica un approfondito scrutinio sulle caratteristiche della sopravvenienza contrattuale e sulla correlazione di essa con le tipologie di contratti e le tariffe interessati dalle variazioni e con l’incremento dei costi posto a base della modifica.
La facoltà di modificare unilateralmente il contratto
Riassunto quanto sopra, il Collegio di coordinamento ricorda come la facoltà degli intermediari di modificare unilateralmente le condizioni contrattuali è disciplinata dall’art. 118 TUB, comma 1, ai sensi del quale
Nei contratti a tempo indeterminato può essere convenuta, con clausola approvata specificamente dal cliente, la facoltà di modificare unilateralmente i tassi, i prezzi e le altre condizioni previste dal contratto qualora sussista un giustificato motivo.
Sulla portata dello ius variandi, invece, il Ministero dello Sviluppo Economico, con circolare n. 5574 del 21 febbraio 2007, ha precisato che
(…) le “modifiche” disciplinate dal nuovo articolo 118 TUB, riguardando soltanto le fattispecie di variazioni previste dal contratto, non possono comportare l’introduzione di clausole ex novo.
A soffermarsi è anche la Banca d’Italia, che nella nota n. 245941 del 13 ottobre 2014 precisa altresì che “nei rapporti di durata l’attribuzione a una delle parti del potere di modifica unilaterale favorisce il mantenimento, ovvero, il ripristino dell’originario equilibrio fra le prestazioni previste dal contratto”.
Sulla base di questa ricostruzione normativa, l’orientamento dell’ABF è storicamente quello di ritenere che mediante il meccanismo di modifica unilaterale previsto dell’art. 118 TUB si possano modificare solo clausole contrattuali già esistenti, mentre non possono essere introdotte clausole nuove.
In particolare, l’ABF ha affermato in diverse occasioni che
il potere di modifica unilaterale del contratto riconosciuto all’intermediario dall’art. 118 TUB, in quanto eccezione alla regola generale della immodificabilità del contratto senza il consenso di entrambe le parti, deve intendersi limitato alla possibilità di modificare clausole e condizioni – sia di carattere economico che di natura normativa – già esistenti, e non spingersi sino al punto di introdurre clausole e condizioni del tutto nuove, tali da incidere in maniera sostanziale sull’equilibrio contrattuale, modificandone addirittura parzialmente la natura.
Nel dettaglio, con la sua decisione n. 1889/2016, il Collegio di Coordinamento ha rilevato che lo scopo dello ius variandi è quello di
conservare l’equilibrio (sinallagmatico) tra le singole prestazioni contrattuali, passando attraverso il mantenimento dell’equilibrio sinallagmatico dell’intero complesso delle prestazioni contrattuali, tipologicamente simili, effettuate dall’imprenditore nei confronti di un numero indefinito di controparti (…).
Ha replicato lo stesso principio anche il Collegio di Coordinamento con decisione n. 26498/2018, in cui si specifica che
il divieto di introduzione di clausole nuove, nei casi in cui l’intermediario invochi l’esercizio dello ius variandi ex art. 118 del TUB e formalmente dichiari di avere solo modificato una clausola preesistente viene in rilievo la verifica dell’elemento di “novità” in relazione alla modifica apportata. A questo proposito, pare corretto ritenere che non sia semplice modifica l’introduzione ex novo di un onere, un obbligo, una controprestazione o qualsivoglia altro termine o condizione (economica o normativa) nel contratto, che non sia già previsto nell’assetto originario determinato dalle parti. Infatti, tali variazioni si traducono nell’aggiunta di nuovi costi, in quanto non si pongono come mera modifica di oneri già previsti nel contratto e realizzano, così, un’alterazione del sinallagma negoziale in senso sfavorevole al cliente.
L’aumento di un costo pari a zero
Fatte salve tali riflessioni, le pronunce si concentrano sulla circostanza che la variazione introduca o meno una condizione di fatto nuova, che può alterare il sinallagma contrattuale. Il vaglio sulla novità della clausola modificata presuppone pertanto il raffronto della modifica con il regolamento contrattuale originariamente pattuito e l’analisi dei suoi effetti sul sinallagma.
Ora, alcuni Collegi territoriali ABF ritengono che l’aumento di un costo originariamente previsto pari a zero equivalga a introdurre ex novo un onere non previsto, e che dunque non possa essere disposto unilateralmente dall’intermediario con il meccanismo di cui all’art. 118 TUB.
La pensa così il Collegio di Milano con decisione n.15724/22, secondo cui
dalla comunicazione ricevuta dal ricorrente in data 14.5.2021, si evince che l’intermediario intendeva modificare il conto corrente “pacchetto SMART” aumentando le “spese fisse di liquidazione” da Euro 0,00 a Euro 6,00 trimestrali. Come precisato dalle Disposizioni di Trasparenza del 29.7.2009 (v. sez. IV, Comunicazioni alla clientela), sulla base di un’indicazione del Ministero dello Sviluppo Economico, la facoltà di modificare unilateralmente le clausole contrattuali prevista dall’art. 118 TUB non può essere utilizzata dagli intermediari per introdurre ex novo clausole, prima assenti nel regolamento contrattuale.
Altri collegi la pensano però diversamente, affermando che l’esercizio dello ius variandi con riferimento alla modifica delle condizioni economiche inizialmente previste a zero sia legittimo, a patto che siano provate da un giustificato motivo.
I criteri assunti dal Collegio
Appare evidente come il Collegio di Coordinamento abbia adottato ritenuto che ai fini della decisione risultino dirimenti sia la natura dell’offerta per come prevista in contratto, sia i principi espressi nelle precedenti decisioni di questo Collegio.
Di fatti, se è vero che l’attenzione deve essere rivolta alla complessiva alterazione dell’originario quadro economico convenuto dalle parti, è anche vero che non ci si può dimenticare come il servizio di gestione del conto corrente scelto dal cliente, prima gratuito, sia poi diventato oneroso.
Al ricorrente erano state prospettate due distinte soluzioni di conto corrente (con o senza Opzione Assistenza in filiale), diverse in termini di onerosità proprio in virtù delle diverse prestazioni erogate dalla banca.
La prima delle due opzioni era onerosa, perché intendeva remunerare un servizio offerto dall’intermediario (l’assistenza in filiale per il conto corrente). La seconda era invece all’inizio valorizzata a zero, essendo gratuita in quanto non comprensiva di quella prestazione.
L’assenza del corrispettivo
Ora, l’assenza di un corrispettivo per la formula scelta dal ricorrente è determinata proprio dall’assenza di una controprestazione da parte dell’intermediario. Si deve poi apprezzare la differenza tra il rendere oneroso un servizio prima gratuito (la gestione informatica del conto) e maggiorare l’onere di un servizio già oneroso (la gestione presso la filiale e l’intervento di personale della banca), ritenendo così ancora più vero il fatto che si trova un giustificato motivo addotto, ovvero impegni gestionali generali cui la banca è sottoposta da norme europee.
Il Collegio di Coordinamento osserva inoltre come il giustificato motivo non riguardi la clausola di servizi alla clientela ma l’incremento dei costi per la clientela dovuto all’entrata in vigore del d.lgs. n. 30/2016, attuativo della direttiva 2014/49/UE sui sistemi di garanzia dei depositi, che aveva variato in modo significativo i criteri di contribuzione al Fondo Interbancario di Tutela dei depositi (c.d. FITD), generando così uno “sbilanciamento nell’equilibrio economico dei contratti in essere … non più sostenibile per la Banca”, che, a seguito di un monitoraggio delle posizioni di due anni, rilevava un incremento delle contribuzioni al FITD del 65% in due anni.
Questo aumento dei costi per la Banca si riversa con proporzionalità sulla clientela mediante la proposta di modifica unilaterale inviata nel 2019 a tutti i titolari di conti correnti incisi da tale modifica e garantiti dal FITD, rimarcando così la coerenza tra la modifica unilaterale proposta e l’evento che ne costituisce il giustificato motivo.
La controprestazione
Si legge così come si ritenga corretto “ritenere che non sia una semplice modifica l’introduzione ex novo di un onere, un obbligo, una controprestazione o qualsivoglia altro termine o condizione (economica o normativa) nel contratto…[perché] tali variazioni si traducono nell’aggiunta di nuovi costi, in quanto non si pongono come mera modifica di oneri già previsti nel contratto e realizzano, così, un’alterazione del sinallagma negoziale in senso sfavorevole al cliente”.
Si richiama inoltre la nota della Banca d’Italia n. 245941/14 del 5.09.2014 (“Modifica unilaterale delle condizioni contrattuali ai sensi dell’art. 118 TUB”), dove si precisa che la ratio del riconoscimento dello ius variandi consiste nel favorire il mantenimento ovvero il ripristino dell’originario equilibrio “fra le prestazioni previste dal contratto”.
Nella fattispecie di cui si parla, il “Conto Corrente senza Opzione assistenza in filiale” si caratterizza per l’assenza di una prestazione a carico dell’intermediario che consiste – appunto – nella “assistenza in filiale”. Ed è proprio questo a giustificare il “costo zero”.
Tale caratteristica rende al contempo problematico individuare l’esigenza di un ripristino/mantenimento dell’equilibrio fra prestazioni non previste in contratto e, pertanto, non suscettibili di risentire gli effetti di un mutamento sopravvenuto.
I principi di diritto
In conclusione, il Collegio afferma i seguenti principi
Ai fini della valutazione della legittimità della modifica unilaterale, per come declinata dall’art. 118 TUB, occorre tener conto del concreto assetto di interessi che le parti hanno voluto fissare nello specifico regolamento contrattuale. Pertanto, ove la valorizzazione a zero di un costo sia indicativa di un servizio non fornito dall’intermediario, la relativa modifica unilaterale ex art. 118 TUB equivale all’inserimento di una nuova clausola originariamente non prevista dal contratto. Quest’ultima, in quanto tale, è illegittima.
Per tali motivi si accerta l’inefficacia della modifica unilaterale del canone “Senza Opzione assistenza in filiale” e per l’effetto dichiara non dovuta la nuova voce di costo, disponendo la restituzione di quanto nelle more corrisposto dalla parte ricorrente.