Offesa su Facebook – indice:
- I tre motivi del ricorso
- I motivi della decisione
- L’offesa in presenza o assenza della persona offesa
- Le valutazioni della Suprema Corte
La sentenza Cass. pen., Sez. V., 2 dicembre 2021 n. 4462 ha stabilito che se l’offesa sul social media è rivolta mentre l’insultato è online, non c’è reato.
Si chiude in tal modo un caso giunto alla Suprema Corte dopo l’impugnativa della sentenza in appello, che aveva confermato la decisione di primo grado, la quale aveva condannato una persona, sia a fini civili che penali, per aver diffamato un altro soggetto sul social network.
I giudici di prime cure, così come quelli in appello, aveva ricostruito la vicenda evidenziando come l’imputato avesse pubblicato su una chat intrattenuta con l’offeso e con altre persone, una serie di commenti offensivi verso l’insultato.
Avverso tale sentenza l’imputato ha proporso ricorso in Cassazione con tre motivi.
I tre motivi del ricorso
Con il primo motivo del ricorso l’imputato lamenta il travisamento della consulenza tecnica di parte, la mancata assunzione della prova decisiva, le violazioni di legge e la mancanza, la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione.
In particolare, il ricorrente contesta che la sola stampa degli screenshots estrapolati dalla persona offesa e dal teste di polizia giudiziaria non sarebbe sufficiente per provare che l’imputato abbia pubblicato i messaggi diffamatori. I controlli del consulente tecnico della difesa – che aveva analizzato il profilo dell’imputato e di un soggetto che aveva partecipato alla conversazione – avevano infatti dato esito negativo. Né, si legge nella sentenza, era emerso che una conversazione di quel tipo fosse stata archiviata o cancellata. La persona offesa, dal canto suo, aveva sempre negato l’autorizzazione all’accesso al suo profilo, teso a verificare se vi fosse il post incriminato.
Con il secondo motivo di ricorso si lamenta la violazione degli artt. 594, 595 c.p. e artt. 192 e 187 c.p.p., oltre alla mancanza, alla contradditorietà e alla manifesta illogicità della motivazione in ordine alla qualificazione del fatto come diffamazione, piuttosto che come ingiuria.
Infine, con il terzo motivo, si lamenta la violazione degli artt. 595, 599 c.p. e artt. 192 e 187 c.p.p., oltre alla mancanza di contradditorietà e alla manifesta illogicità della motivazione. Si legge infatti nel ricorso che l’imputato avrebbe agito in preda a uno stato d’ira determinato dal comportamento della persona offesa.
Il ricorso è fondato e la sentenza impugnata deve essere annullata. Cerchiamo di vedere insieme quali sono i motivi di questa decisione.
I motivi della decisione
Il primo motivo di ricorso – si legge nella sentenza – discute il giudizio di riferibilità soggettiva del fatto all’imputato.
L’inammissibilità deriva in questo caso dal fatto che non vi è confronto con il passaggio della sentenza impugnata che ha evinto la riferibilità dei messaggi provenienti dal profilo dell’imputato, all’odierno prevenuto dalla circostanza che la modifica successiva nel profilo dell’imputato stesso, che aveva avuto effetto anche sui messaggi precedenti.
I giudici, peraltro, ritengono come “non manifestatamente illogica” l’argomentazione della sentenza impugnata che ritiene comprovata la provenienza dei messaggi anche dal collegamento di essi con l’articolo che lo riguardava e dunque con la pertinenza della discussione con la sua posizione.
Viene ritenuto altresì infondato il terzo motivo del ricorso, oltre che generico. Il motivo di ricorso sarebbe infatti caratterizzato da un’impostazione che non affronta l’argomentazione che fonda il diniego della Corte territoriale, ovvero il fatto che il messaggio non conteneva profili provocatori.
Si ritiene invece fondato il secondo motivo di ricorso. Pur, si legge, nella sola parte in cui sostiene l’esistenza di un vizio motivazionale quanto alla qualificazione del fatto come ingiuria piuttosto che come diffamazione. Si rimarca la partecipazione della persona offesa alla conversazione incriminata.
L’offesa in presenza o assenza della persona offesa
A questo punto i giudici della Suprema Corte richiamano la sentenza n. 13252 del 4 marzo 2021, che nell’interrogarsi sulla natura ingiuriosa o diffamatoria dell’invio di e-mail a più destinatari, tra cui anche l’offeso, ha schematizzato in modo interessante le situazioni concrete in relazione ai vari strumenti di comunicazione che possono dare luogo all’addebito ex art. 594 c.p., o ex art. 595 c.p., che andiamo ora a riepilogare:
- se l’offesa è diretta a una persona presente nella conversazione, è ingiuria anche se sono presenti altre persone
- se l’offesa è diretta a una persona distante, è ingiuria solamente se la comunicazione offensiva avviene solo tra autore e destinatario
- di contro, se la comunicazione a distanza è indirizzata ad altre persone all’offeso, si configura il reato di diffamazione
- se l’offesa riguardante un assente è comunicata ad almeno due persone (presenti o distanti), integra sempre la diffamazione.
Ora, la decisione in discorso ha approfondito il concetto di presenza rispetto ai moderni sistemi di comunicazione. Ritiene che accanto alla presenza fisica in unità di tempo e di luogo, di offeso, autore del fatto e spettatori, vi siano poi situazioni ad essa sostanzialmente equiparabile. Da realizzarsi, si legge, con l’ausilio dei moderni sistemi tecnologici (call conference, audioconferenza e videoconferenza).
Le valutazioni della Suprema Corte
La sentenza richiamata dai giudici di Cassazione condivide poi che “i numerosi applicativi attualmente in uso per la comunicazione tra persone fisicamente distanti non modificano, nella sostanza, la linea di discrimine tra le due figure come sopra tracciata, dovendo porsi solo una particolare attenzione alle caratteristiche specifiche del programma e alle funzioni utilizzate nel caso concreto. Molti programmi mettono a disposizione degli utenti una variegata gamma di servizi: messaggistica istantanea (scritta o vocale), videochiamata, chiamate cd. “VoIP” (conversazione telefonica effettuate sfruttando la connessione internet).
Sono state sviluppate diverse piattaforme per convocare riunioni a distanza tra un numero, anche rilevante, di persone presenti virtualmente. Le medesime piattaforme permettono di scrivere, durante la riunione, messaggi diretti a tutti i partecipanti, ovvero a uno o ad alcuni di essi. Per tale ragione il mero riferimento a una definizione generica (chat, call) o alla denominazione commerciale del programma è, di per sè, privo di significato e foriero di equivoci, laddove non accompagnato dalla indicazione delle caratteristiche precise dello strumento di comunicazione impiegato nel caso specifico”.
Quindi, la Corte prosegue evidenziando che, per distinguere tra i reati ex artt. 594 e 595 c.p., è decisivo il criterio discretivo della presenza, anche se virtuale, dell’offeso.
Pertanto, non si potrà che valutare caso per caso. Nel caso in cui l’offesa sia proferita nel corso di una riunione a distanza, o da remoto, tra più persone contestualmente collegate, alla quale partecipa anche l’offeso, ricorrerà l’ipotesi dell’ingiuria commessa alla presenza di più persone (fatto depenalizzato).
Se invece vengono in rilievo delle comunicazioni scritte o vocali, indirizzate all’offeso e ad altre persone, non contestualmente presenti (sia con presenza virtuale o da remoto), ricorreranno i presupposti della diffamazione.
Riassunto ciò, i giudici della Suprema Corte invitano il giudice di rinvio a tenere conto di questo schema.