Offese su Facebook, non licenziato perché è reazione di un illecito – guida rapida
Con ordinanza n. 26446 del 10 ottobre 2024 la Corte di Cassazione ha affermato che non può essere licenziato il dipendente che su Facebook ha offeso il datore di lavoro, se l’offesa scaturisce da una condotta illecita di costui.
Cerchiamo dunque di riepilogare quali sono i principali fatti e come si sia giunti a tale motivazione.
Il licenziamento disciplinare
Con lettera del 31 maggio 2019, in esito ad una contestazione di qualche settimana prima, il datore di lavoro intimava il licenziamento disciplinare alla dipendente per avere pubblicato il 12 aprile 2019, sul suo profilo Facebook,
frasi altamente denigratorie, offensive e diffamatorie nei confronti della società e, in particolare, verso la persona del suo amministratore delegato (…)
Impugnato il recesso dinanzi al Tribunale di Firenze, i giudici rigettavano le domande del lavoratore, che presentava così reclamo presso la Corte di appello di Firenze, che con sentenza a margina di attività istruttoria, annullava il licenziamento e condannava la società a reintegrare nel posto di lavoro il dipendente, oltre a corrispondere una indennità risarcitoria.
I giudici di seconde cure rilevano come i fatti oggetto dell’addebito erano inquadrabili nelle vicende legate alla salubrità degli ambienti della palazzina in cui lavorava il dipendente.
La palazzina ospitava all’epoca dei fatti l’impianto di potabilizzazione, una sessantina di amministrativi, il personale addetto all’impianto. Qui, veniva rilevato come nell’aprile del 2019 si fosse verificata una fuoriuscita di sostanze tossiche, con conseguente intossicazione di un gruppo di lavoratori.
L’episodio, sottolinea ancora la Corte territoriale, era stato preceduto da una lunga serie di doglianze dei lavoratori riguardanti la salubrità dell’area dello stabile.
Licenziamento per giusta causa o no?
I giudici del reclamo escludevano che il fatto addebitato potesse essere qualificato come delitto per il quale il CCNL di categoria prevedeva il licenziamento per giusta causa.
I giudici evidenziavano infatti che le condotte commesse non integravano comunque la nozione legale di giusta causa del giustificato motivo soggettivo proprio per le ragioni esposte in ordine alla sussistenza dei presupposti di cui all’art. 599 cp, operanti anche a livello putativo e all’anzianità aziendale del lavoratore.
La Corte territoriale, pertanto, riteneva il licenziamento illegittimo e sproporzionato, pur ammettendo il rilievo disciplinare di quanto accaduto.
Per quanto concerne la tutela da applicare, i giudici di reclamo non hanno ravvisato, ai fini dell’applicabilità della sanzione del licenziamento senza preavviso, azioni costituenti delitti a termini di legge ovvero gravi comportamenti lesivi della dignità della persona.
I motivi del ricorso per le offese su Facebook
I motivi del ricorso possono essere sintetizzati in questo modo.
Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 599 e 59 co. 4 cp, degli artt. 2104, 2106 e 2119 cc nonché dell’art. 3 legge n 604/1966, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 cpc, per avere erroneamente la Corte territoriale ritenuto che costituisse delitto la condotta gravemente denigratoria tenuta del datore di lavoro e, quindi, che non rientrasse nella fattispecie di cui all’art. 21 co. 5 del CCNL Settore Gas Acqua che prevedeva il licenziamento disciplinare per il caso in cui il dipendente aveva commesso azioni che costituivano delitto a termini di legge.
Il datore di lavoro che la Corte fiorentina, in base a tale erronea interpretazione, non aveva considerato che l’art. 599 cp esclude la punibilità del reato ma non anche la natura di illecito civile del fatto.
Dall’altro lato, che ai fini della operatività della non punibilità del fatto, occorreva che la provocazione dovesse verificarsi in un momento immediatamente precedente alla reazione dell’autore fatto.
Sottolinea poi che la valutazione di un atto disciplinarmente rilevante doveva rivestire autonomia rispetto ai profili penalistici.
L’omesso esame di fatto decisivo per il giudizio
Con il secondo motivo si eccepisce invece l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio.
Rappresenta infatti il ricorrente che la Corte territoriale, sul presupposto che era stato intimato, a seguito della graduazione della sanzione, licenziamento con preavviso in relazione a tre condotte contestate (avere affermato che “Amministratore delegato in una occasione si sarebbe rivolto verso la dipendente con l’epiteto ‘testa di *****’, avere profferito all’indirizzo del lavoratore l’offesa ‘che muoia quel ********’, avere scritto che la società, nei confronti dei propri dipendenti, si era comportata nel senso che “gli hanno dato i fiit come le mosche”) aveva valutato solo i comportamenti lesivi della dignità della persona (Amministratore delegato) ma non anche le frasi offensive della reputazione e della immagine della società.
Ulteriormente, con il terzo motivo il datore di lavoro si duole della violazione e falsa applicazione degli artt. 2082, 2094, 2104, 2106 e 2119 cc, nonché dell’art. 3 della legge n. 604/1966, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 cpc.
Secondo il ricorrente, infatti, la Corte di appello avrebbe erroneamente escluso che, nella cui condotta dl lavoratore, non fossero ravvisabili gli estremi della insubordinazione grave trattandosi comunque di un comportamento da conseguiva un riflesso negativo sull‘attività aziendale, li dove era appunto diretto sia nei confronti dell’amministratore delegato che della società, e per non avere tenuto conto che il licenziamento era avvenuto per giustificato motivo soggettivo e non per giusta causa.
L’inadempimento degli obblighi del prestatore di lavoro e le offese su Facebook
Con il quarto motivo, poi, il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1324, 1362, 1363, 2082, 2094, 2104, 2106 e 2119 cc, 21 CCNL 18.5.2017 per i lavoratori del Settore Gas Acqua, art. 3 legge n. 604/1966, 30 legge n. 183/2010 e 18 co. 4 legge n. 300 del 1970, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 cpc.
Per il lavoratore, infatti, avere la Corte distrettuale operato il giudizio di graduazione della sanzione anche se il fatto contestato ed accertato non era espressamente contemplato da una previsione di fonte negoziale vincolante per il datore di lavoro e per non avere accertato se l’illecito addebitato, per le sue caratteristiche oggettive e soggettive, integrasse un notevole inadempimento degli obblighi del prestatore di lavoro anche al di là della sussistenza della giusta causa ex art. 2119 cc.
Con il quinto e ultimo motivo, la società obietta la violazione la falsa applicazione dell’art. 18 co. 4 legge n. 300 del 1970, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 cpc, per non avere considerato, ai fini dell’aliunde perceptum, i redditi di lavoro percepiti dalla dipendente nel periodo oltre i dodici mesi dal licenziamento quando, invece, la lettera della legge non avvalorava tale interpretazione (“dal giorno del licenziamento a quello della effettiva reintegrazione“).
Il giudizio di legittimità per le offese su Facebook
Per i giudici della Suprema Corte, il primo motivo è infondato. L’art. 21 n. 5 del CCNL Settore Gas – Acqua qui applicabile, recita:
Verrà comminata la sanzione del licenziamento senza preavviso a quei lavoratori che commettono infrazioni alla disciplina ed alla diligenza del lavoro che siano così gravi da non consentire la prosecuzione nemmeno provvisoria del rapporto di lavoro o che commettano azioni che costituiscono delitto a termine di legge, anche non specificamente richiamate nel presente Contratto, come ad esempio – pone in essere gravi comportamenti lesivi della dignità della persona in ragione della condizione sessuale…
Il problema posto dalla censura è dunque quello di accertare se, allorquando la contrattazione collettiva fa riferimento testuale al concetto di “delitto“, la verifica giudiziale in ambito lavoristico sia autonoma rispetto a quella penale e se una eventuale causa di non punibilità in concreto possa incidere anche sulla natura di illecito civile del fatto. Il secondo problema concerne, invece, la corretta applicazione dell’art. 599 cp come effettuata dalla Corte distrettuale.
Ebbene, in riferimento alla prima questione, i giudici di seconde cure si sono attenuti ai principi, statuiti in sede di legittimità in relazione alla risarcibilità del danno non patrimoniale ex art. 2059 cod. civ. validi anche per il caso de quo, secondo cui
l’inesistenza di una pronuncia del giudice penale non costituisce impedimento all’accertamento da parte del giudice civile della sussistenza degli elementi costitutivi del reato e, in ogni caso, l’accertamento del giudice civile deve essere condotto secondo la legge penale e deve avere ad oggetto l’esistenza del reato in tutti i suoi elementi oggettivi e soggettivi, ivi comprese eventuali cause di giustificazione e l’eccesso colposo ad esse relativo.
L’accertamento dell’esistenza del reato per le offese su Facebook
La Corte di Cassazione ricorda dunque che il giudice civile deve accertare “incidenter tantum” l’esistenza del reato, nei suoi elementi obiettivi e soggettivi, individuandone l’autore e procedendo al relativo accertamento nel rispetto dei canoni della legge penale.
In maniera corretta, pertanto, la Corte territoriale avrebbe svolto un accertamento anche sulla non punibilità del fatto, costituente reato doloso, in concreto e in ordine, quindi, alla ravvisabilità della condotta quale delitto per escludere l’ipotesi sanzionata con il licenziamento senza preavviso dalla contrattazione collettiva.
La Corte territoriale si è poi pronunciata in maniera esaustiva anche sul problema se il comportamento riscontrato possa o meno essere comunque rilevante ai fini della sussistenza della giusta causa di licenziamento.
La conclusione cui si è giunti è stata negativa. Gli stessi fatti sul piano penalistico ritenuti idonei ad escludere la esistenza di un delitto sono stati considerati rilevanti sul piano del rapporto di lavoro ai fini della valutazione della non gravità del fatto. Il fatto è infatti stato qualificato come uno “sfogo” legato alla particolare emotività determinata da un accadimento contingente che la lavoratrice, non irragionevolmente, aveva ritenuto potersi essere realizzato e, secondo lei, ingiustamente minimizzato dalla datrice di lavoro.
In relazione agli aspetti penalistici, la Corte ritiene che l’applicabilità della causa di non punibilità della provocazione, di cui all’art. 599 cp, la cui natura giuridica in sede di legittimità è stata individuata quale scusante e non come scriminante, sia corretta. Si è infatti in presenza di un fatto ingiusto ritenuto a livello putativo di responsabilità della datrice di lavoro, con reazione istantanea da parte di un soggetto che era comunque coinvolto in quanto era rimasto infortunato nell’evento il marito e, quindi, in presenza di uno stato di ira.
L’esame delle condotte addebitate
Si arriva così al secondo motivo, identicamente non meritevole di accoglimento.
Nel suo esame la Corte territoriale ha tenuto presente la circostanza della frase (“ai dipendenti gli hanno dato i flit come le mosche“), come si evince dallo storico della impugnata pronuncia e dall’impianto decisionale della sentenza. Emerge così in modo chiaro come abbia già escluso che le condotte addebitate alla lavoratrice valessero ad integrare “gli illeciti specificamente richiamati nella lettera di licenziamento (un’ipotesi di delitto, insubordinazione grave)“.
La decisione è in altri termini stata ragionata e ha riguardato entrambi gli illeciti oggetto della contestazione disciplinare. Non è dunque stata limitata solo alle frasi rivolte verso l’amministratore delegato, come sostiene parte ricorrente.
Infondato è il terzo motivo. In tema di licenziamento disciplinare, infatti, la nozione di insubordinazione non può essere limitata al rifiuto di adempimento delle disposizioni dei superiori. Deve infatti ricomprende ogni condotta che sia finalizzata a pregiudicare l’esecuzione e il corretto svolgimento delle disposizioni nel quadro dell’organizzazione aziendale.
Il concetto di insubordinazione
Nella fattispecie in esame, i giudici del merito hanno correttamente escluso che gli addebiti mossi rientrassero nell’ambito applicativo del concetto di insubordinazione, perché concretamente la vicenda non aveva riguardato aspetti che afferivano all’osservanza di disposizioni interne dettate dal datore di lavoro sull’uso di beni aziendali con la messa in discussione dell’autorità dei preposti della datrice di lavoro. Riguardava invece l’uso di espressioni, obiettivamente offensive e diffamatorie, proferite in una situazione in cui il rischio di un evento, più volte denunciato, si era invece verificato.
Insomma, non sarebbe ravvisabile sia un rifiuto di adempimento delle disposizioni dei superiori gerarchici, sia l’inosservanza delle disposizioni per l’esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dall’imprenditore o dai suoi collaboratori.
Per quanto poi attiene l’obiezione che la Corte territoriale non aveva tenuto conto che il licenziamento era avvenuto per giustificato motivo soggettivo e non per giusta causa, va precisato che i giudici di seconde cure hanno considerato in modo esatto tale circostanza. Hanno evidenziato che il licenziamento era stato intimato con preavviso solo in considerazione dell’assenza di precedenti disciplinari del lavoratore e non per la mancanza di giusta causa, come effettivamente risulta dal provvedimento di recesso.
Il giudizio di graduazione della sanzione
Si passa così al quarto e penultimo motivo, ritenuto infondato nella parte in cui si critica che la Corte territoriale aveva operato impropriamente un giudizio di graduazione della sanzione, sebbene il fatto contestato ed accertato non fosse espressamente contemplato da una previsione di fonte negoziale vincolante per il datore di lavoro.
Per i giudici di legittimità, i giudici di seconde cure avevano operato in linea con il recente orientamento della giurisprudenza di legittimità, per cui in tema di licenziamento disciplinare, al fine di selezionare la tutela applicabile tra quelle previste dall’art. 18, commi 4 e 5, della L. n. 300 del 1970, come novellato dalla L. n. 92 del 2012,
il giudice può sussumere la condotta addebitata al lavoratore, e in concreto accertata giudizialmente, nella previsione contrattuale che, con clausola generale ed elastica, punisca l’illecito con sanzione conservativa, né detta operazione di interpretazione e sussunzione trasmoda nel giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato, restando nei limiti dell’attuazione del principio di proporzionalità, come eseguito dalle parti sociali attraverso la previsione del contratto collettivo.
La Corte di appello ha infatti ritenuto la condotta accertata rientrante nella ipotesi di chi “pone in essere comportamenti lesivi della dignità della persona, anche in ragione della condizione sessuale“, puniti con la sanzione conservativa della sospensione dal lavoro e dalla retribuzione perché il fatto accertato era stato sì considerato offensivo ma non punibile come delitto e non sussumibile nelle fattispecie sanzionate con il licenziamento senza preavviso.
L’accertamento determina poi l’assorbimento della trattazione della doglianza della seconda parte del motivo, in cui si lamenta la mancata valutazione sul fatto che l’illecito addebitato comunque avrebbe potuto integrare un notevole inadempimento degli obblighi del prestatore di lavoro tale da essere passibile di licenziamento con preavviso.
La conformità alle precedenti sentenze
Si arriva così al quinto e ultimo motivo, ritenuto anch’esso infondato.
Oltre al difetto di specificità della censura nella sua esatta e precisa articolazione, osserva la Corte di legittimità che la gravata sentenza è conforme ai precedenti della stessa Corte, che ha precisato che
in base all’art. 18, comma 4, della L. n. 300 del 1970, come modificato dall’art. 1, comma 42, della L. n. 92 del 2012, la determinazione dell’indennità risarcitoria deve avvenire attraverso il calcolo dell’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, a titolo di “aliunde perceptum” o “percipiendum”,
e, comunque, entro la misura massima corrispondente a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto, senza che possa attribuirsi rilievo alla collocazione temporale della o delle attività lavorative svolte dal dipendente licenziato nel corso del periodo di estromissione; se il risultato di questo calcolo è superiore o uguale all’importo corrispondente a dodici mensilità di retribuzione, l’indennità va riconosciuta in misura pari a tale tetto massimo.
Nel caso in esame, per una migliore comprensione dei fatti, si sottolinea come, a fronte del licenziamento intimato in data 31.5.2019 e della reintegra disposta con sentenza di secondo grado del 16.12.2021, la rioccupazione del lavoratore è stata dall’1.3.2021 al 28.2.2022, con contratto a termine con scadenza 28.2.2022.