Quante ore di lavoro per avere diritto al buono pasto – guida rapida
- Il diritto alla pausa e alla mensa (o al buono pasto)
- Il ricorso in Cassazione
- La natura del diritto al buono pasto
- L’articolazione dell’orario e il diritto al buono pasto
Quante ore al giorno bisogna lavorare per avere diritto al buono pasto? A fornire una risposta è stata l’ordinanza n. 21440 del 31 luglio 2024, con la Cassazione che afferma come la consumazione del pasto sia collegata alla pausa di lavoro e avvenga nel corso della stessa e, laddove la contrattazione collettiva lo preveda, il diritto alla mensa o ai sostitutivi buoni pasto sorge se la prestazione supera le sei ore.
Come sempre, cerchiamo di comprendere come si sia arrivati a tale pronuncia ricostruendo brevemente i fatti.
Il diritto alla pausa e alla mensa (o al buono pasto)
La Corte d’Appello confermava la sentenza del Tribunale che aveva accolto la domanda proposta da un dipendente turnista dell’ASL accertando il suo diritto alla erogazione dei buoni pasto per ogni turno lavorativo eccedente le sei ore dalla data della domanda e condannando così l’ASL al risarcimento del danno.
In particolare, la Corte d’Appello osservava come l’articolo 29, comma 2, CCNL Comparto Sanita del 2001, doveva essere interpretato in combinato disposto con I’articolo 8 D.Lgs. nr. 66/2003, ritenendo che sulla base di tali disposizioni il diritto alla mensa doveva essere identificato con il diritto alla pausa.
Il diritto alla mensa doveva, dunque, riconoscersi a tutti i dipendenti che effettuavano un orario di lavoro giornaliero eccedente le 6 ore. Considerato che i turni del dipendente seguivano lo schema 7.00/13.00, 13.00/20.00 e 20.00/7,00, riteneva che alla medesima non potesse essere riconosciuto il diritto alla mensa nei giorni in cui aveva svolto attività lavorativa antimeridiana (dalle 7.00 alle 13.00), in quanto tale arco temporale non eccedeva le sei ore, mentre il presupposto dell’attività eccedente le sei ore era presente negli atri due turni di lavoro.
La Corte osservava che il dipendente non avrebbe potuto usufruire del servizio di mensa istituito dall’ASL perché non poteva essere sospeso il servizio di assistenza e non vi era un servizio di mensa serale ed ha pertanto ritenuto doveva riconoscersi il suo diritto ai buoni pasto.
Quindi, doveva confermarsi il capo della sentenza del Tribunale sul risarcimento del danno, per avere il dipendente provveduto a proprie spese al pasto nei giorni in cui aveva effettuato una prestazione lavorativa eccedente le sei ore.
Il ricorso in Cassazione
Con un unico motivo di ricorso, viene denunciata la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 29, comma 2, del CCNL Comparto Sanità del 7.4.1999, modificato ed integrato in data 20.09.2001 e dell’art. 8 del d. Igs. n. 66/2003, in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3 cod. proc. civ.
Viene così dedotto come a tenore della norma contrattuale il criterio per riconoscere il diritto alla mensa era l’impossibilità – in rapporto all’articolazione dell’orario di lavoro – di pranzare fuori dall’ambiente di lavoro. Il dipendente poteva provvedere alla consumazione del pasto prima di iniziare il turno pomeridiano ed il turno notturno.
Ora, viene ricordato come la norma dell’articolo 8 d.lgs. nr. 66/2003 non attribuiva il diritto alla mensa ma disciplinava solo il diritto alla pausa, essendo dunque solo una possibilità quella di consumare il pasto durante la pausa.
La proposta interpretazione trovava conferma nel disposto dell’articolo 45 CCNL 14.9.2000, a tenore del quale possono usufruire della mensa i dipendenti che prestano attività lavorativa di mattino con prosecuzione nelle ore pomeridiane.
La natura del diritto al buono pasto
Il ricorso è però infondato, in conformità alla prevalente giurisprudenza di legittimità, secondo cui il diritto alla fruizione del buono pasto non ha natura retributiva ma costituisce una erogazione di carattere assistenziale, connessa al rapporto di lavoro da un nesso meramente occasionale, avente il fine di conciliare le esigenze di servizio con le esigenze quotidiane del lavoratore.
Proprio per questa natura, il diritto al buono pasto è strettamente collegato alle disposizioni della contrattazione collettiva che lo prevedono.
In questo caso, si rimanda all’art. 29 del CCNL 20 settembre 2001, integrativo del CCNL del 7 aprile 1999, a tenore del quale:
Le aziende, in relazione al proprio assetto organizzativo e compatibilmente con le risorse disponibili, possono istituire mense di servizio o, in alternativa, garantire l’esercizio del diritto di mensa con modalità sostitutive.
Hanno diritto alla mensa tutti i dipendenti, ivi compresi quelli che prestano la propria attività in posizione di comando, nei giorni di effettiva presenza al lavoro, in relazione alla particolare articolazione dell’orario.
Il pasto va consumato al di fuori dell’orario di lavoro. Il tempo impiegato per il consumo del pasto è rilevato con i normali mezzi di controllo dell’orario e non deve essere superiore a trenta minuti.
Il costo del pasto determinato in sostituzione del servizio mensa non può superare L. 10.000. Il dipendente è tenuto a contribuire in ogni case nella misura fissa di L. 2000 per ogni pasto. Il pasto non è monetizzabile.
Sono disapplicati il D.P.R. n. 270 del 1987, art. 33 e D.P.R. n. 384 del 1990, art. 68, comma 2.
L’evoluzione normativa
I giudici di legittimità ricordano poi come questa disposizione sia stata cambiata dall’art. 4 del CCNL del 31 luglio 2009 in questo modo:
Le aziende, in relazione al proprio assetto organizzativo e compatibilmente con fe risorse disponibili, possono istituire mense di servizio o, in alternativa, garantire l’esercizio del diritto di mensa con modalità sostitutive. In ogni caso l’organizzazione e la gestione dei suddetti servizi, rientrano nell’autonomia gestionale delle aziende, mentre resta ferma la competenza del CCNL nella definizione delle regole in merite alla fruibilità e all’esercizio del diritto di mensa da parte dei lavoratori (…)
Le Regioni, sulla base di rilevazioni relative al costo della vita nei diversi ambiti regionali e al contesto socio-sanitario di riferimento, possono fornire alle aziende indicazioni in merito alla valorizzazione – nel quadro delle risorse disponibili – dei servizi di mensa nel rispetto della partecipazione economica del dipendente finora prevista. Nel caso di erogazione dell’esercizio del diritto di mensa con modalità sostitutive, queste ultime non possono comunque avere un valore economico inferiore a quello in atto ed il dipendente è tenuto a contribuire nella misura di un quinto del costo unitario del pasto. Il pasto non monetizzabile.
Per i giudici di Cassazione non è invece conferente al giudizio quanto previsto dall’art. 45 CCNL 14.9.2000, che è richiamato dall’ASL, poiché è relativo al diverso comparto Regioni e Autonomie locali.
L’articolazione dell’orario e il diritto al buono pasto
Con queste premesse, rimane da capire la questione centrale della causa, che riguarda lo stabilire quale sia la “particolare articolazione dell’orario” che, ai sensi del comma 2 del richiamato articolo 29 CCNL integrativo Sanita, attribuisce il diritto alla mensa ai dipendenti presenti in servizio.
Ricordano i giudici di legittimità che l’articolo 26 del CCNL Sanita 1998/2001, del 7.4.1999, sull’orario di lavoro, non contiene utili indicazioni sul punto, perché si limita a stabilire un orario di lavoro settimanale di 36 ore ed a fissare i criteri generali per la sua distribuzione.
Si può attingere a un chiaro indice interpretativo con la disposizione del comma 3 del medesimo articolo 29 CCNL integrativo 20.9.2001, a tenore del quale il pasto va consumato al di fuori dell’orario di lavoro ed il tempo a tal fine impiegato è rilevato con i normali strumenti di controllo dell’orario e non deve essere superiore a 30 minuti.
Da questa norma è possibile ricavare l’interpretazione secondo cui la fruizione del pasto— ed il connesso diritto alla mensa o al buono pasto—è prevista nell’ambito di un intervallo non lavorato. Diversamente, non potrebbe esercitarsi alcun controllo sulla sua durata.
Pertanto, si può convenire sul fatto che la “particolare articolazione dell’orario di lavoro” è quella collegata alla fruizione di un intervallo di lavoro.
Di qui il rilievo del d.lgs. 8 aprile 2003 n. 66 (Attuazione delle direttive 93/104/CE e 2000/34/CE concernenti taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro), articolo 8, secondo cui il lavoratore deve beneficiare di un intervallo per pausa qualora I’orario di lavoro giornaliero ecceda il limite di sei ore, ai fini del recupero delle energie psicofisiche e della eventuale consumazione del pasto.
Modalità e durata della pausa
Le modalità e la durata della pausa sono stabilite dai contratti collettivi di lavoro ed, in difetto di disciplina collettiva, la durata non è inferiore a dieci minuti e la collocazione deve tener conto delle esigenze tecniche del processo lavorativo.
Anche nel testo legislativo, dunque, la consumazione del pasto è connessa alla pausa di lavoro e avviene nel corso della stessa.
Peraltro, proseguono ancora i giudici della Suprema Corte, non sfugge il fatto che la stessa difesa della parte ricorrente lega il diritto alla mensa ad una obbligatoria sosta lavorativa. Assume però che la norma contrattuale richiederebbe, altresì, che l’attività lavorativa sia prestata “nelle fasce orarie normalmente destinate alla consumazione del pasto”.
Tuttavia, una eventuale volontà delle parti sociali in questo senso è espressa, con l’indicazione di fasce orarie di lavoro che danno diritto alla mensa. Le fasce, invece, non sono affatto previste.
Quindi, l’interpretazione secondo cui il diritto alla mensa ex articolo 29, comma 2, CCNL integrativo Sanità 20.9.2001 sia legato al diritto alla pausa, è coerente con i principi già enunciati dalla Corte di legittimità con sentenza n. 31137/2019, in relazione alle previsioni dell’articolo 40 CCNL 28 maggio 2004 del Comparto Agenzie fiscali.
Ne consegue che, per i giudici della Suprema Corte, il giudice del merito avrebbe correttamente interpretato la disposizione contrattuale, con conseguente rigetto dell’impugnazione.