La quantificazione del danno degli amministratori: Cassazione – indice:
- La vicenda
- L’azione di responsabilità
- L’amministrazione di fatto
- Il danno alla società fallita
- La quantificazione del danno
- Conclusioni
Con l’ordinanza n. 21730 dell’8 ottobre 2020 la Cassazione ha rigettato il ricorso depositato da due amministratori di Srl contro la sentenza della Corte d’appello che liquidava il danno loro imputabile a seguito di azione di responsabilità esercitata nei loro confronti dal curatore fallimentare in una somma pari all’importo dato dalla differenza tra il passivo e l’attivo fallimentare. Nella sentenza i giudici sottolineano come la liquidazione del danno sia stata così determinata in relazione al quantum risarcitorio domandato dal curatore fallimentare. La quantificazione del danno tuttavia sarebbe avvenuta in base a due elementi che avevano pregiudicato il patrimonio sociale.
Si è trattato di un caso controverso che ha dato modo alla Corte Suprema di esprimersi con riguardo a più aspetti. Un primo aspetto attinente all’amministrazione di fatto di una società di capitali. Un secondo aspetto, fulcro della vicenda, inerente alla quantificazione del danno degli amministratori responsabili di “mala gestio” della società. L’ordinanza si pone inoltre come spunto per un richiamo alla disciplina dell’azione di responsabilità contro gli amministratori nelle società di capitali.
La quantificazione del danno degli amministratori e il caso discusso
A seguito del fallimento di una Società a responsabilità limitata, il curatore che si occupava della formazione dello stato passivo ha proposto un‘azione di responsabilità contro due degli amministratori della società stessa per aver riscontrato il mancato possesso di scritture contabili e libri sociali obbligatori. I due amministratori affermavano che la gestione amministrativa della società fosse in capo ad altri due amministratori proprietari di altra società cooperante con la fallita.
In primo grado di giudizio il Tribunale ha respinto la domanda di risarcimento nei confronti di suddetti amministratori. La Corte di Appello tuttavia riformava la sentenza condannando gli amministratori al pagamento di un’ingente somma da destinare alla procedura fallimentare.
Due degli amministratori chiamati in causa, in disaccordo con la pronuncia di secondo grado, hanno deciso allora di ricorrere in Cassazione.
L’azione di responsabilità contro gli amministratori nel fallimento
Nella procedura fallimentare l’azione di responsabilità contro gli amministratori può essere proposta, ai sensi dell’articolo 2394-bis del codice civile, dal curatore del fallimento, dal commissario liquidatore e dal commissario straordinario.
Nella legge fallimentare inoltre si legge all’articolo 146 che “Sono esercitate dal curatore previa autorizzazione del giudice delegato, sentito il comitato dei creditori: a) le azioni di responsabilità contro gli amministratori…”.
Gli amministratori della società fallita infatti, in virtù del medesimo articolo, sono tenuti ad adempiere agli stessi obblighi imposti al fallito.
Tale azione di responsabilità ha i seguenti risvolti sul piano probatorio:
- il curatore fallimentare ha l’onere di dimostrare il nesso di causalità tra le violazioni commesse e i danni imputabili agli amministratori;
- gli amministratori invece a loro discolpa devono dimostrare con prove positive l’osservanza dei loro doveri e l’adempimento degli obblighi facenti capo ad essi.
L’amministrazione di fatto nella Srl
Il ricorso in Cassazione dei due amministratori si basava su due motivi, il primo dei quali ha dato modo ai giudici di pronunciarsi circa l’amministrazione di fatto delle società di capitali e la loro responsabilità. La Corte del merito infatti attribuiva ad uno degli amministratori proprietario della società che cooperava sistematicamente con quella fallita la qualità di amministratore di fatto. Gli imputava inoltre la responsabilità ex artt. 2392 e 2476 del codice civile in virtù del fatto che, si legge nella sentenza, “la disciplina della responsabilità degli amministratori delle società di capitali è applicabile anche a coloro i quali si siano ingeriti nella gestione sociale in assenza di una qualsivoglia investitura, ancorché irregolare o implicita, da parte della società, così individuandosi il cosiddetto amministratore di fatto”.
La Corte del merito infatti riportava quali forme di ingerenza dei suddetti soggetti:
- la gestione dei rapporti contrattuali in essere tra la società e soggetti i terzi (in particolare si trattava di contratti di appalto di servizi);
- la direzione del personale dipendente della società.
Dall’ingerenza in tali attività deducevano i giudici la “sistematicità e completezza” necessarie a qualificare l’amministrazione di fatto.
I due amministratori, negando tale loro attribuita posizione, denunciavano pertanto la falsa applicazione degli artt. 2392 e 2476 del codice civile sulla responsabilità degli amministratori di società di capitali.
Verso la quantificazione del danno: il secondo motivo di ricorso e la Corte di merito
In secondo luogo i ricorrenti denunciavano la mancata formazione probatoria del nesso di causalità tra i fatti commessi da loro commessi e il danno che ne sarebbe derivato. La dimostrazione del nesso di causalità gravava sul curatore. Solo con ciò, a loro dire, si sarebbe potuto accollargli il risarcimento del danno di cui inoltre contestavano la liquidazione effettuata con valutazione equitativa ai sensi dell’articolo 1226 del codice civile.
Il danno arrecato dai ricorrenti alla società fallita sarebbe stato un progressivo impoverimento del patrimonio. Tale impoverimento sarebbe avvenuto mediante la dispersione di beni e crediti ovvero un destino sconosciuto di determinate poste del bilancio. In particolare, ad opinione della Corte, rilevavano i crediti risultanti dal bilancio i quali, presumibilmente riscossi, non erano stati destinati all’acquisto di beni strumentali all’attività né al pagamento delle retribuzioni e dei contributi del personale dipendente.
La valutazione del giudice di merito in ordine alla liquidazione del danno pertanto si sarebbe tradotta in un importo maggiore rispetto a quello effettivamente liquidato. La liquidazione definitiva quale risultato della differenza tra il passivo e l’attivo fallimentare sarebbe così stata determinata in ragione dei limiti della domanda risarcitoria proposta in via principale dal curatore.
Gli elementi di quantificazione del danno
I ricorrenti, contestando i criteri di valutazione del giudice di merito, si rifacevano ad una pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione secondo cui la determinazione e liquidazione del danno nella misura pari alla differenza tra il passivo e l’attivo fallimentare può essere utilizzato solo quando la liquidazione avviene in maniera equitativa e con sufficiente materiale probatorio accertante il nesso di causalità tra i fatti dolosi o colposi e il danno. La sola mancata tenuta delle scritture contabili e dei libri obbligatori da parte degli amministratori invece non giustificherebbe la quantificazione del danno con tale criterio.
La Cassazione nel confermare il ragionamento della Corte di merito sottolinea l’indipendenza della misura del danno rispetto alla differenza tra l’attivo e il passivo fallimentare. Afferma piuttosto che due fattori hanno determinato la quantificazione del danno, consistente nel pregiudizio patrimoniale alla società:
- la dispersione di attività patrimoniali ovvero il “depauperamento del patrimonio societario”. La condotta dolosa o gravemente colposa degli amministratori, già inoltre condannati in sede penale di bancarotta fraudolenta, avrebbe determinato tale impoverimento. La Corte in particolare specifica “avendo riguardo soprattutto a crediti che, secondo la Corte di merito, dovevano ritenersi incassati, senza che le somme percepite fossero state però poi reimpiegate a beneficio della società: segnatamente per l’acquisto di beni strumentali o il pagamento dei dipendenti”;
- il “debito accumulato per le retribuzioni dovute ai lavoratori della fallita, che, a seguito della revoca delle autorizzazioni e le perdite accumulate (cui non aveva fatto seguito la ricostituzione del capitale sociale), avrebbe potuto essere evitato con la messa in liquidazione e lo scioglimento della società o con la risoluzione dei rapporti in essere con i dipendenti stessi…”.
Conclusioni sulla quantificazione del danno degli amministratori nell’ordinanza
Rigettando il ricorso dei due amministratori e non riscontrando motivi fondati di accoglimento e modifica della pronuncia della Corte di merito il Supremo Collegio conclude la sentenza con le seguenti parole:
“In conclusione, deve riconoscersi conforme al diritto la decisione di merito che, con riferimento all’azione di responsabilità promossa dal curatore a norma della L. Fall., art. 146, comma 2, quantifichi il danno avendo riguardo all’accertata colpevole dispersione di elementi dell’attivo patrimoniale da parte degli amministratori, oltre che al colpevole protrarsi di un attività produttiva implicante l’assunzione di maggiori debiti della società, a nulla rilevando che l’importo oggetto di liquidazione sulla base di tali criteri sia ridotto a una minor somma, nella specie corrispondente alla differenza tra il passivo e l’attivo fallimentare, in ragione del limite quantitativo della pretesa fatta valere”.
I giudici ribadiscono dunque che la liquidazione del danno nella misura risultante dalla differenza tra l’attivo e il passivo fallimentare è stata conseguenza di un danno quantificato in misura superiore a quanto domandato in via risarcitoria dalla curatela che era di più ristretta entità. La somma pertanto si doveva ridurre in relazione a quanto richiesto nella domanda di risarcimento.