Responsabilità medica – indice:
Durante il parto, le ostetriche svolgono evidentemente un ruolo di primo piano, tale da far sorgere loro potenziali responsabilità gravi, e comparabili a quelle in capo al ginecologo.
L’occasione per poter tornare su questo argomento ci è proposta dalla recente sentenza Corte di Cassazione, sez. IV Penale, n. 47801 del 5 -19 ottobre 2018.
La valutazione del rischio
In primo luogo, i giudici della Corte di Cassazione si soffermano sulla qualificabilità della gravidanza, ricordando come la sua definizione di “protratta” anziché di “fuori termine” risulta eccentrica rispetto al tema della valutazione del “rischio” della gravidanza.
In particolare, per gli Ermellini il fatto che la gravidanza della paziente fosse “a rischio”, e come tale meritevole di monitoraggio qualificato rispetto a quello ordinario, derivava non tanto dal fatto che il travaglio intervenisse in una gravidanza protratta (ovvero quella oltre la 42ma settimana di durata), bensì in una condizione di rischio complessiva, risultante da una valutazione di sintesi, in cui la durata della gravidanza non era indifferente, ma si sommava alle due induzioni del travaglio mediante ossitocina e, ancor più, al manifestarsi di crescenti segni di sofferenza fetale già presenti al momento in cui il ginecologo interessato dalla vicenda ha assunto servizio.
La corte territoriale ha in tal senso correttamente affermato che compito del ginecologo che ha assunto il servizio di turno, quello di sincerarsi della situazione sottostante e, in base ad essi, adeguando il monitoraggio alle peculiarità della situazione pregressa.
La responsabilità congiunta del ginecologo e dell’ostetrica
La Suprema Corte rammenta dunque quanto già affermato a proposito della responsabilità congiunta e concorrente del medico ginecologo e dell’ostetrica al manifestarsi di sofferenza fetale.
Sulla base di un indirizzo giurisprudenziale già consolidato, è stata affermata la corresponsabilità del ginecologo (nel trascurare i segnali di sofferenza fetale) e delle ostetriche (nel venir meno al dovere di segnalare il peggioramento del tracciato cardiotocografico), trattandosi di attività rientranti nelle competenze di entrambe le figure professionali operanti in equipe.
La Suprema Corte sottolinea poi come l’obbligo di diligenza grava su ciascun componente dell’equipe medica, e non solamente in relazione alle specifiche mansioni a lui affidate, bensì anche per quanto attiene il controllo sull’operato e sugli errori altrui che siano evidenti e non settoriali. Ne deriva che non rileva l’obiezione del ginecologo secondo cui il monitoraggio doveva essere gestito in via esclusiva dall’ostetrica. Di contro, il ginecologo non si sarebbe dovuto limitare ad assicurare la sua reperibilità, bensì avrebbe dovuto vigilare attivamente sull’evolversi della situazione. Non avendo assunto tale doverosa modalità comportamentale, venne a conoscenza del peggioramento della situazione a rischio quando fu chiamato dall’ostetrica, e quando ormai era troppo tardi.
La colpa del personale sanitario
Ulteriormente, i giudici della Suprema Corte rammentano che sulla base della normativa in essere la distinzione tra colpa lieve e colpa grave, agli effetti penali, non assume rilievo, poiché la responsabilità penale resta “ferma” nel caso in cui non vi sia stata osservanza delle linee guida e delle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, come accaduto nel caso in esame.
Tutto ciò osservato, gli Ermellini rammentano che in tema di responsabilità per attività medico chirurgica, al fine di distinguere la colpa lieve dalla colpa grave, possono essere utilizzati i seguenti parametri valutativi della condotta tenuta dall’agente:
- la misura della divergenza tra la condotta effettivamente tenuta e quella che era da attendersi,
- la misura del rimprovero personale sulla base delle specifiche condizioni dell’agente;
- la motivazione della condotta;
- la consapevolezza o meno di tenere una condotta pericolosa.
Elementi che, per i giudici di legittimità, sarebbero stati attentamente già scrutinati in sede di merito, confermando così che il livello di scostamento della condotta omissiva del ginecologo fosse elevato. E che proprio tale scostamento impone di escludere che, nella specie, possa parlarsi di colpa non grave.
A conferma di ciò, la corte territoriale aveva precisato che qualora fosse stata predisposta tempestivamente a cura del ginecologo la sala parto per il taglio cesareo, fin dall’insorgere dei primi segni di sofferenza fetale, il feto sarebbe stato estratto almeno un’ora prima e ciò, alla luce della tempistica narrata in sentenza, avrebbe scongiurato il rischio che l’ipossia desse luogo al fenomeno di acidosi metabolica alla base delle gravissime lesioni cerebrali riportate dal bambino.
Sulla base di quanto sopra riassunto, gli Ermellini condividono che è di tutta evidenza che il grado della colpa del ginecologo è stato correttamente qualificato come “grave”.