La responsabilità del pediatra – indice:
Stando a quanto afferma la sentenza n. 3206/2019, non ricade nei casi di colpa lieve, bensì in quelli di colpa grave, il pediatra che rinvia la visita domiciliare per il suo piccolo paziente, effettuandola solamente quando si accorge che il bambino è affetto da una grave infezione.
In questo caso, infatti, i giudici della Suprema Corte concordano nel ritenere che tale comportamento ingiustificatamente attendista da parte del medico non possa essere sminuito con definizione di colpa lieve, poiché il comportamento del personale sanitario si discosta in misura marcata dalla condotta medica ritenuta appropriata.
Sottovalutazione delle condizioni del paziente
Il caso all’attenzione dei giudici di legittimità coinvolge, purtroppo, l’esito nefasto della salute di un bambino, con il pediatra che avrebbe gravemente sottovalutato le condizioni generali e respiratorie del piccolo paziente, omettendo di prescrivere quegli esami di laboratorio che avrebbero dato utili riscontri sul suo malessere.
Il pediatra ha invece ritardato gli interventi richiesti. In particolare, dopo cinque giorni, al temine delle cure indicate, il bambino presentava ancora un quadro contraddistinto da febbre persistente, da tosse e da raffreddore. Sarebbe stato pertanto opportuno approfondire, mediante osservazione clinica diretta, i motivi della mancata risposta alla terapia, anche in ragione della differente reazione manifestata dal fratello del piccolo, che invece era guarito.
Viene insomma ritenuto insufficiente il solo contatto telefonico con la madre del bambino ai fini della formulazione di una corretta diagnosi, incapace di valutare correttamente il rischio di complicazioni più temute nell’ipotesi di infezioni delle vie respiratorie di origine virale, come otiti e polmoniti.
Tutto ciò è stato valutato dai giudici territoriali come grave negligenza, avendo il pediatra mancato ingiustificatamente di porre attenzione all’evoluzione della situazione patologica del bambino, nonostante la pregressa conoscenza dell’infezione respiratoria, procrastinando così al pomeriggio del giorno successivo la visita domiciliare.
Per quanto concerne gli altri comportamenti rilevati in sede di giudizio, è stato riscontrato il comportamento gravemente negligente e imperito del pediatra, che in seguito a una telefonata mattutina con la quale la madre del bambino comunicava un drastico abbassamento della temperatura corporea del piccolo, non aveva ritenuto tale elemento allarmante, in funzione di un peggioramento dello stato generale di salute, con possibile comparsa di una situazione settica. Il pediatra si limitava invece a prescrivere la somministrazione di paracetamolo per una stomatite, omettendo di sottoporre a immediata visita il bambino o disporre il suo immediato invio in pronto soccorso.
Era stato infine appurato che durante la tardiva visita domiciliare del bambino, il pediatra si sia limitato ad auscultare il torace, senza misurare la temperatura corporea o valutare la frequenza respiratoria e cardiaca, né la pressione arteriosa, né lo stato di idratazione delle mucose. Non era stato nato nemmeno rilievo alla presenza di un esantema petecchiale, indicativo di grave sepsi batterica in atto.
In virtù di ciò, è stato ritenuto (anche in considerazione del rapido aggravamento, visto e che il piccolo moriva 2 ore e mezzo dopo la visita della pediatra) che già durante la visita fossero apprezzabili elementi tali da consigliare un immediato invio in pronto soccorso.
Ingiustificato atteggiamento attendista
Sotto tale profilo, dunque, la Cassazione ritiene che sia stato correttamente addebitato al pediatra un atteggiamento ingiustificatamente attendista, con una generale sottovalutazione del quadro clinico del paziente, nonostante – ribadiamo – i sintomi manifestati avrebbero dovuto indurre a un approccio ben diverso, sia mediante un’immediata visita domiciliare del paziente, sia mediante l’immediato indirizzamento del paziente in ambito ospedaliero.
A nulla rilevano le prove richieste dal pediatra, considerato che le argomentazioni già riassunte e contenute nelle due sentenze di merito sarebbero sufficienti per poter rendere superfluo e comunque non decisivo l’espletamento di una ulteriore perizia.
Per quanto attiene il nesso causale, già la sentenza di primo grado aveva osservato come l’omessa osservazione clinica del bambino, e in particolare l’omessa auscultazione, hanno impedito la stessa possibilità di formulare una diagnosi corretta.
Il comportamento alternativo, lecito, avrebbe invece potuto consentire di rilevare segni semiologici propri di un interessamento respiratorio polmonare, che avrebbero dovuto indurre il pediatra a prescrivere accertamenti di tipo radiografico.
I giudici rammentano inoltre come studi scientifici abbiano evidenziato l’esistenza di un rapporto statistico secondo cui il rischio morte viene ridotto significativamente nei casi di pazienti aggrediti sul piano terapeutico in modo tempestivo ed efficace.
In questo caso, si ritiene che le condotte omissive contestate al pediatra abbiano determinato le condizioni dell’evento fatale con un elevato grado di probabilità logica o di credibilità razionale, potendosi così escludere che la morte del bimbo si sarebbe verificata con identici tempi e con la stessa intensità se il pediatra non avesse omesso i comportamenti dovuti sul piano della migliore perizia e diligenza medica.
Colpa grave del pediatra
Infine, per quanto attiene la colpa lieve che è stata invocata dal pediatra, i giudici della Suprema Corte rammentano che la sentenza impugnata ha già adeguatamente motivato sul punto, nel senso di escluderla.
I giudici territoriali hanno infatti correttamente considerato una notevole divergenza tra la condotta tenuta dal pediatra e quella cui sarebbe stata tenuta, avuto riguardo della grave sottovalutazione delle condizioni generali e respiratorie del bambino, che avrebbero imposto la necessità di specifici riscontri con esami di laboratorio.
Sotto tale profilo viene dunque rimarcata la sussistenza di un marcato allontanamento del comportamento del pediatra da un’appropriata condotta medica, certamente qualificabile in termini di colpa grave, tale da escludere che la fattispecie in questione possa essere ricondotta alla previsione decriminalizzate di cui alla legge Balduzzi.