Riduzione durata societaria e recesso del socio – indice:
- Il diritto di recesso nel Codice civile
- Il ricorso
- La legittimità del recesso
- La riforma del diritto societario
- La modifica della durata della società
- Le conclusioni
- La relazione al d.lgs. 6/2003
- La giurisprudenza
La riduzione della durata della società mediante espressa delibera non comporta l’attribuzione al socio di un diritto autonomo di recesso ex art. 2437. Tale effetto, infatti, consegue solamente nelle ipotesi di eliminazione delle cause di recesso previste ex lege derogabili e di eliminazione di ulteriori clausole di recesso previste dallo statuto. Nel caso in esame, invece, si trattava del passaggio della durata della società da tempo indeterminato a tempo determinato.
Su ciò si è espressa la sentenza Cass. civ., Sez. I, 24 febbraio 2022, n. 6280.
Il diritto di recesso nel Codice civile
L’unico motivo dedotto nel caso è la violazione e la falsa applicazione dell’art. 2437 c.c. da parte della Corte d’appello.
Rubricato Diritto di recesso, l’articolo prevede che:
Hanno diritto di recedere, per tutte o parte delle loro azioni, i soci che non hanno concorso alle deliberazioni riguardanti:
- a) la modifica della clausola dell’oggetto sociale, quando consente un cambiamento significativo dell’attività della società;
- b) la trasformazione della società;
- c) il trasferimento della sede sociale all’estero;
- d) la revoca dello stato di liquidazione;
- e) l’eliminazione di una o più cause di recesso previste dal successivo comma ovvero dallo statuto;
- f) la modifica dei criteri di determinazione del valore dell’azione in caso di recesso;
- g) le modificazioni dello statuto concernenti i diritti di voto o di partecipazione.
Salvo che lo statuto disponga diversamente, hanno diritto di recedere i soci che non hanno concorso all’approvazione delle deliberazioni riguardanti:
- a) la proroga del termine;
- b) l’introduzione o la rimozione di vincoli alla circolazione dei titoli azionari.
Se la società è costituita a tempo indeterminato e le azioni non sono quotate in un mercato regolamentato il socio può recedere con il preavviso di almeno centottanta giorni; lo statuto può prevedere un termine maggiore, non superiore ad un anno.
Lo statuto delle società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio può prevedere ulteriori cause di recesso.
Restano salve le disposizioni dettate in tema di recesso per le società soggette ad attività di direzione e coordinamento.
È nullo ogni patto volto ad escludere o rendere più gravoso l’esercizio del diritto di recesso nelle ipotesi previste dal primo comma del presente articolo.
Il ricorso
Secondo il ricorrente, la Corte distrettuale avrebbe dovuto riconoscere piena efficacia al recesso esercitato in seguito alla deliberazione assunta dall’assemblea della società, che aveva avuto l’effetto di privare l’esponente del diritto di recedere ad nutum dalla società, conseguente alla durata di questa assimilabile alla durata indeterminata.
In particolare, il ricorrente afferma che la Corte di appello avrebbe errato nell’interpretazione della norma. A suo parere, infatti, la formula adottata dal legislatore, con previsione del primo comma lett. e)
l’eliminazione di una o più cause di recesso previste dal successivo comma ovvero dallo statuto combinata con quella contenuta al secondo comma, sarebbe omnicomprensiva e riguarderebbe ogni deliberazione che abbia avuto l’effetto di privare i soci di una facoltà di recesso, adottate senza il voto favorevole del socio interessato a recedere.
In particolare, il ricorrente sostiene che la durata della società prevista dallo statuto era equiparabile a quella a tempo indeterminato. Di conseguenza, avrebbe fatto conseguire al socio il diritto di recedere ad nutum.
Ancora, il ricorrente ritiene che la delibera di riduzione della durata aveva indirettamente eliminato tale facoltà. E che ciò, pertanto, rendeva legittimo il recesso dallo stesso esercitato.
La richiesta del ricorrente
In sintesi, il ricorrente domanda di sapere se
l’art. 2437, primo comma, lett. e), cod.civ., deve essere letto nel senso che qualunque deliberazione assembleare avente ad oggetto una modifica statutaria che abbia l’effetto di privare un socio della facoltà di recedere dalla società al medesimo spettante in base al combinato disposto delle disposizioni normative e statutarie vigenti al momento dell’adozione della stessa deliberazione assembleare, sia in sé sufficiente per far sorgere in capo ai soci assenti o dissenzienti il diritto di recedere dalla società – come dallo stesso propugnato – oppure nel senso che tale diritto di recesso sorge solo laddove si tratti di deliberazione assembleare riguardante le ipotesi indicate dall’art. 2437, secondo comma, cod.civ. (proroga del termine di durata della società e/o introduzione o rimozione di vincoli alla circolazione dei titoli azionari)”.
Il ricorso è infondato. Vediamo insieme per quali motivi.
Legittimità del recesso
La Suprema Corte rammenta come la controversia sia circoscritta alla legittimità o meno del recesso esercitato dal socio, assente in sede di delibera cha ha modificata la durata societaria.
Secondo la Corte di appello, il cambiamento della durata societaria la aveva fatta sostanzialmente equiparare in una società a tempo determinato.
Lo statuto delle società per azioni è modificabile a maggioranza nel rispetto dei rigorosi quorum previsti per l’assemblea straordinaria, e non all’unanimità. Come sottolineato dalla dottrina, si è tenuto conto del carattere programmatico insito nel contratto sociale, che deve poter essere adeguato in conseguenza delle necessità dettate dall’esercizio dell’attività di impresa e non può, di converso, presentarsi come cristallizzazione di una composizione di interessi.
Ora, poiché queste modifiche possono comportare una effettiva modifica degli elementi essenziali presenti nel contratto, sono stati adottati degli strumenti di contemperamento con il principio di tutela delle minoranze, intese come i soci non consenzienti.
In questo ambito il diritto di recesso assume il ruolo di un efficace strumento di tutela del socio contro i cambiamenti sostanziali dell’operazione cui partecipa. Tuttavia, la disciplina è altresì conformata in maniera tale da perseguire, nel contempo, anche una finalità di favore verso la realizzazione e la stabilità dell’aggregazione societaria e delle risorse al fine di evitare il depauperamento del patrimonio sociale e, di conseguenza, la garanzia che questo realizza per i creditori sociali.
La riforma del diritto societario
La Corte rammenta dunque che, se il legislatore del Codice del 1942 aveva rigorosamente circoscritto le cause di recesso alla previsione normativa, il legislatore della riforma del 2003 aveva esplicitato la volontà in modo differente.
La nuova versione dell’art. 2437 c.c., infatti, non solo annovera un più ampio catalogo di cause di recesso normativamente previste, ma riconosce anche all’autonomia statutaria la facoltà di individuarne di ulteriori. Sebbene, come noto, questa facoltà sia riservata alle sole società che non fanno appello al mercato del capitale di rischio, come nel caso in esame. E che, dunque, non godono del pieno e inderogabile diritto alla libera trasferibilità delle azioni, rispetto al quale il recesso si configura come uno strumento alternativo.
Quanto sopra non toglie però che le fattispecie per le quali è riconosciuto il diritto di recesso per il socio che non abbia concorso all’approvazione delle deliberazioni indicate nella norma in esame, o nei casi previsti statutariamente, ove consentito, si continuino a connotare come di stretta interpretazione, in ragione delle finalità prima ricordate, connesse all’istituto in esame.
In tale contesto, fermo restando il principio per cui rimane nullo ogni patto volto ad escludere o a rendere più gravoso l’esercizio del diritto di recesso nelle ipotesi di cui all’art. 2437 c.c., primo comma, cod.civ., si individuano due categorie di cause di recesso:
- Le cause di recesso necessarie e statutariamente ineliminabili
- Le cause di recesso disponibili, poiché eliminabili statutariamente, anche se l’eliminazione quando viene attuata mediate una deliberazione assembleare è, a sua volta, foriera dell’attribuzione di un autonomo diritto di recesso.
La modifica della durata della società
Ora, tornando sul tema oggetto della controversia, e cioè il rapporto tra la durata della società per azioni, la sua modifica e il diritto di recesso, va osservato che l’elemento temporale è rilevante in due ipotesi.
La proroga della durata societaria
La prima ipotesi è la proroga della durata della società. In questo caso la legge riconosce una autonoma causa di recesso che, però, è derogabile in via statutaria.
La società a tempo indeterminato
La seconda ipotesi è relativa al caso della società costituita a tempo indeterminato, le cui azioni non sono quotate sui mercati regolamentari. Una situazione sulla quale, al di là dell’adozione di qualsiasi delibera da parte dell’assemblea, viene riconosciuto il diritto di recesso ad nutum, da esercitare secondo i tempi previsti dal legislatore, derogabile statutariamente in peius entro il limite massimo di un anno, ma non eliminabile.
Nella fattispecie oggetto di discussione, si valuta l’applicabilità ex art. 2437 c.c.. Un’applicazione che va però esclusa, considerato che la fattispecie in esame non è sussumibile nelle ipotesi sopra contemplate.
Il recesso, infatti, non è stato esercitato in ragione della proroga della durata della società, né perché la società aveva una durata a tempo indeterminato. Anzi, nel caso, è stata ridotta.
L’opinione della Corte
La Corte osserva dunque che il diritto di recesso ad nutum attribuito dal terzo comma della disposizione in esame, è connesso direttamente alla durata indeterminata statutariamente prevista per la società, e non alla modifica della stessa.
Sul piano della modifica della durata, in verità, rileva solamente la proroga. Mentre l’opposta ipotesi della riduzione della durata non è fonte di autonomo diritto di recesso del socio. Né, peraltro, ciò può dedursi per implicito dalla facoltà prevista dal terzo comma dello stesso art. 2437 c.c.
La previsione dettata dal terzo comma appena rammentato riconosce la facoltà di recesso in caso di proroga della società e dunque è intesa tutelare il socio. L’obiettivo è infatti quello di evitare che questi, nelle ipotesi in cui le azioni non siano quotate in un mercato regolamentato, sia costretto dal vincolo sociale oltre un tempo ragionevole contro la sua volontà.
È evidente che le motivazioni alla base di questa tutela non esistono nel caso opposto. O, meglio, nel caso in cui la durata della società sia ridotta. Tanto che questa ipotesi non rientra nelle fattispecie previste ex lege al primo comma, che alla lettera e) non contiene infatti alcun rinvio all’ipotesi prevista dal terzo e dal secondo comma.
Quindi, si può ben rammentare come sia solo la durata indeterminata della società per azioni a giustificare e ad attribuire il diritto di recesso al socio. E non la sua riduzione.
Le conclusioni
Si giunge così alle conclusioni formulate dalla Suprema Corte, per cui la richiesta di applicazione dell’art. 2437 c.c. non è adeguata.
Se infatti, come si può evincere dalla lettura coordinata dell’articolo, sono parificate sul piano della tutela sia le cause di recesso legali che quelle che sono previste statutariamente, ove consentito, pur tuttavia perché possa essere esercitato questo diritto di recesso è necessario che l’eliminazione abbia riguardato un caso di recesso specificamente riconosciuto dalla legge o dallo statuto.
In proposito, i giudici sottolineano come lo spazio riconosciuto all’autonomia privata, in relazione all’esercizio del diritto di recesso, non può che collocarsi nel solco tracciato dal legislatore. Il quale, se da un lato ha enucleato con precisione un ristretto numero di cause di recesso non eliminabili e non derogabili, e circoscritto le cause di recesso derogabili, dall’altro lato ha espressamente previsto che la facoltà di introdurre ulteriori clausole di recesso sia veicolata all’interno dello statuto con l’obiettivo di coniugare la maggiore autonomia privata normativamente riconosciuta a quelle società che non fanno ricorso al capitale di rischio con le esigenze di trasparenza e di conoscibilità anche da parte dei terzi delle ulteriori ipotesi di fuoriuscita del socio, potenzialmente atte a incidere sull’assetto patrimoniale della società.
Cause derogabili e non derogabili
Quindi, si legge ancora nella motivazioni, si afferma che la deliberazione di riduzione della durata della società, che comporti il passaggio della durata da tempo indeterminato a durata a tempo determinato, non attribuisce al socio un autonomo diritto di recesso ex lege, alla stregua di quello previsto dalla disciplina dettata dall’art. 2437 c.c., perché questo effetto consegue solamente nelle ipotesi di eliminazione delle cause di recesso previste ex lege derogabili e di eliminazione delle ulteriori clausole di recesso specificamente previste dallo statuto, ove consentito, ipotesi che nel caso in esame non ricorrono.
Da tali considerazioni si evince che la questione della equiparazione della prolungata durata della società per azioni alla durata a tempo indeterminato, ravvisata dalla Corte di appello e non costituente oggetto di impugnazione, come osservato dalla ricorrente, è priva di decisività, perché la disamina svolta dal giudice e la decisione impugnata prescindono da tale tema.
Il ricorso viene quindi rigettato.
Relazione illustrativa al D.Lgs. 6/2003
La posizione dei giudici della Suprema Corte è evidentemente coerente con le riflessioni contenute nella relazione illustrativa al d. lgs. 6/2003 laddove si sancisce che la delega preveda che la disciplina del recesso fosse rivista nel senso di consentire allo statuto delle società di ampliare le cause di recesso, e di individuare i criteri di determinazione del valore della partecipazione del recedente che contemperino i suoi interessi e l’esigenza di tutelare l’integrità del capitale sociale e gli interessi dei creditori. Il tutto, nel quadro di una concezione del recesso come estremo ma efficace mezzo di tutela del socio contro i cambiamenti sostanziali dell’operazione cui partecipa.
Nella relazione si anticipava altresì la divisione in tre categorie delle cause di recesso:
- Necessarie, ineliminabili, aumentate rispetto alla versione precedente dell’art. 2437 c.c.
- Previste in principio, ma eliminabili in sede di statuto
- Altre determinabili dallo statuto, con una libertà limitata alle società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, in considerazione della turbativa che in società con diffusa platea azionaria porterebbero facili e diffusi recessi.
Ora, ricordava il legislatore, considerato che la nuova disciplina delle società per azioni tende a porre al suo centro l’azione, piuttosto che la persona del socio, si è ritenuto di consentire il recesso per una parte della partecipazione, ritenendo così coerente che – mutato il quadro dell’operazione – il socio voglia rischiare di meno, ma continuare ad essere socio.
Gli altri articoli
Ciò premesso, la relazione evidenziava come all’art. 2437 bis le modalità del recesso chiarissero i profili procedurali senza indicare nulla di particolare. all’art. 2437 ter le modalità di determinazione del valore della quota del recedente, penalizzati dalla disciplina previgente, costituivano grave problema, dovendosi conciliare un atto e un intento liquidatorio – quello del socio – con i caratteri di una società, di un’impresa, in esercizio, e le due prospettive.
Nell’ipotesi che lo statuto non preveda nulla si è fatto riferimento alla consistenza patrimoniale. Si è voluto così indicare la non vincolatività dei dati contabili. Si è fatto altresì riferimento alle prospettive reddituali, quale elemento correttivo della situazione patrimoniale. Il riferimento al valore di mercato rimane pertanto eventuale.
Ulteriormente, si legge nella relazione, si è contestualmente previsto che lo statuto, allora a seconda il diverso assetto delle varie società, possa dare indicazioni analitiche di quali poste rettificare, e sui criteri di rettifica.
In tale ipotesi potrà tenersi conto, qualora lo statuto lo indichi, anche dell’avviamento, o di altri criteri.
La liquidazione
All’art. 2437 quater il procedimento di liquidazione è stato poi arricchito di diverse ipotesi, graduate in successione. Si è prevista così l’opzione di altri soci, la vendita a terzi. Per la necessaria tutela dei creditori sociali si è inoltre previsto che, dovendo ricorrere al rimborso diretto, solo in mancanza di riserve disponibili si possa diminuire il capitale. Si lascia comunque in questo caso alla società la facoltà di deliberare lo scioglimento.
Alla deliberazione di diminuzione del capitale sociale si applica la disciplina della diminuzione volontaria, con la logica conseguenza che se l’opposizione dei soci è accolta la società si scioglie.
La giurisprudenza
Ricordiamo qui alcune delle sentenze più importanti in tema di recesso del socio.
Recesso del socio nelle società cooperative
La sentenza Cass. civ. n. 26190/2017 si è occupata del recesso convenzionale nelle società cooperative. Ha dunque indicato che tale recesso può essere subordinato alla ricorrenza di determinati presupposti o condizioni, come l’autorizzazione o l’approvazione del consiglio di amministrazione a cui è attribuito il potere discrezionale di verificare la corrispondenza dei fatti specifici che sono dedotti alle ipotesi statutariamente contemplate.
Questo potere non può essere esercitato da altri organi societari o da terzi estranei alla società, nemmeno in caso di inerzia. Non può inoltre essere rimesso all’autorità giudiziaria. Si riferisce infatti alla tutela dell’interesse della società cooperativa, la cui valutazione è attribuita in modo esclusivo all’organo ritenuto dal contratto sociale idoneo alle valutazioni necessarie, ovvero il consiglio di amministrazione.
Recesso del socio dissenziente
Per la Cass. civ. n. 21641/2005, in tema di società per azioni, l’art. 2437 c.c. attribuisce il diritto di recesso al socio dissenziente per le deliberazioni assembleari che riguardano il mutamento dell’oggetto sociale, il cambiamento del tipo di società o il trasferimento della sede sociale all’estero.
Il presupposto che fa sorgere questo diritto è, pertanto, la formulazione di un dissenso che postula la qualità di socio al momento in cui viene assunta la deliberazione della quale si discute. La conseguenza è che il diritto stesso non compete a chi abbia acquisito le azioni della società in una data successiva a quella di adozione della stessa delibera, anche se anteriore a quella della iscrizione nel registro delle imprese. Non può farsi leva, in senso contrario, sul rischio che tale socio ignori la modificazione del contratto sociale frattanto intervenuta. Deve infatti la corrispondente tutela essere ricercata nella sfera dei rapporti contrattuali tra il venditore e l’acquirente delle azioni. O, comunque, su un piano che non coinvolga la società.
Limiti al recesso legale del socio
Per Cass. civ. n. 2979/2016 il recesso legale del socio, di cui all’art. 2523 c.c. e all’art. 2437 c.c., non può essere limitato o soppresso. La limitazione non è dunque ammissibile nemmeno in caso di clausole statutarie, senza violare la norma di legge attributiva del diritto potestativo. Nel caso in cui invece la facoltà trovi la sua fonte nelle clausole statutarie e, pertanto, sorga con l’atto costitutivo come manifestazione della volontà negoziale, è suscettibile di essere disciplinata e conformata mediante clausole che specifichino le situazioni legittimanti il relativo esercizio. Oppure, lo limitino o lo condizionino, prevedendo magari la necessità – per essere efficace – di una positiva constatazione del consiglio di amministrazione sull’effettiva ricorrenza della situazione che legittima il recesso stesso.
Rimborso delle azioni del socio che recede
La sentenza Cass. civ. n. 17012/2004 afferma che il diritto di rimborso delle azioni che spetta al socio che recede, ex art. 2437 c.c., è rigorosamente ancorato alle quotazioni di mercato che sono registrate nel semestre anteriore del giorno in cui è stata assunta la deliberazione assembleare che legittima il recesso. La conseguenza è che pretese variazioni di misura del possesso azionario del socio receduto che si sono verificate in un momento successivo al periodo compreso in quel semestre non possono entrare nel calcolo del rimborso spettante. Ciò è tanto più vero quando le ulteriori azioni delle quali il socio sarebbe divenuto titolare in un momento successivo siano di nuova emissione, derivando da un’operazione di aumento del capitale sociale. Nella fattispecie in esame, si trattava di una delibera di aumento gratuito del capitale sociale a seguito di deliberazione di modifica dell’oggetto sociale.
Liquidazione della partecipazione del socio receduto
Secondo Cass. civ. n. 15787/2010, nelle ipotesi di recesso da società non quotate in borsa, la liquidazione della partecipazione spettante al socio va effettuata, ex art. 2437 c.c., con riferimento alla situazione patrimoniale della società, come risultante dall’ultimo bilancio di esercizio. Si deve tenere conto, pertanto, solo degli elementi che possono essere iscritti in questo bilancio, secondo i criteri di cui agli artt. 2423 e ss. c.c.
La pronuncia si inserisce nel solco della precedente Cass. civ. n. 5850/2002, secondo cui per le società non quotate in borsa il rimborso delle azioni del socio receduto deve avvenire, a norma dell’art. 2437 c.c., con riferimento alla situazione patrimoniale della società che risulta dal bilancio dell’ultimo esercizio. Rileva infatti la finalità della norma consistente nella necessità di liquidare in favore del socio una quota che sia più vicina possibile al reale ed effettivo valore del patrimonio della società. E non già l’ultimo bilancio approvato, bensì il bilancio relativo all’ultimo anno, conclusosi precedentemente al giorno del recesso.
Effetti del recesso del socio
La Cass. civ. n. 5548/2004 ricorda che il recesso del socio da una società è un negozio unilaterale recettizio. Si perfeziona e produce i suoi effetti sin dal momento in cui la dichiarazione che lo esprime è pervenuta nella conoscenza della società destinataria. In caso di società per azioni, si ricorda, l’art. 2437 c.c., secondo comma, c.c., ne subordina l’esercizio al rispetto di un periodo breve di decadenza pari a tre giorni dalla data di assemblea che ha assunto la deliberazione da cui il diritto di recesso del socio dissenziente trae origine. O, in alternativa, quindici giorni dall’iscrizione di tale deliberazione nel registro delle imprese se il socio non ha partecipato all’assemblea.
Da ciò consegue:
- da un lato che non è configurabile un preannuncio dell’atto di recesso, formulato nel rispetto del termine di decadenza, in vista dell’esercizio di un diritto di recesso da far poi valere al di fuori del termine di decadenza;
- dall’altro lato che l’atto di recesso non è suscettibile di revoca né può essere subordinato a condizioni che ne rendono incerti gli effetti nel tempo. Almeno, a partire dal momento in cui sono scaduti i termini per eventuali analoghe dichiarazioni di altri soci assenti o dissenzienti dalla medesima deliberazione.
La sentenza si inserisce nel solco tracciato dalla precedente Cass. civ. n. 12/1998, con qui si ricordava che l’atto con il quale il socio dissenziente in relazione a deliberazioni che riguardano il cambiamento dell’oggetto o del tipo di società, o il trasferimento della sede sociale all’estero, esercita il diritto di recesso ex art. 2437 c.c., ha natura di atto unilaterale recettizio.
Le conseguenze
Ne consegue che l’atto produce i suoi effetti solamente nel momento in cui viene portato a conoscenza della società. Con l’ulteriore conseguenza che i termini ex art. 2437 c.c. potranno ritenersi rispettati solo se entro il loro scadere la dichiarazione di recesso è stata portata a conoscenza della società. E, dunque, non solo inviata dal recedente. Non rileva che, per la brevità del termine e per la prescrizione normativa che richiede la trasmissione della dichiarazione con raccomandata, l’esercizio del diritto di recesso da parte del socio dissenziente verrebbe ad essere oltremodo compresso. Posto che la norma, pur prevedendo l’invio di raccomandata, non esclude che la trasmissione della dichiarazione di recesso avvenga attraverso altre forme. Tali forme potranno presentare le medesime (o maggiori) caratteristiche di certezza della raccomandata.