Rischio cambio nel contratto di finanziamento – indice
- La disponibilità al finanziamento dell’opera
- Ristoro del danno da abusiva concessione del credito
- L’opinione della Corte
Con la sentenza Cassazione Civile, Sez. III, 30 ottobre 2023, n. 30063, la Suprema Corte si è espressa in relazione alla validità della clausola di rischio cambio presente in un contratto di leasing, imponendo di fatto di valutarla in rapporto alla causa concreta del contratto, e non della clausola stessa.
La discussione sulla validità della clausola di rischio cambio si era infatti mossa in rapporto alla sua autonomia rispetto al contratto di leasing, cosa che aveva condotto parte di giurisprudenza e dottrina a qualificarla come un derivato implicito.
La Corte di Cassazione aveva però escluso la natura di derivato implicito della clausola, affermando invece che il giudizio di meritevolezza dovesse essere condotto in rapporto alla finalità perseguita dalle parti e non alla sua convenienza, chiarezza, aleatorietà.
Ebbene, la pronuncia oggi in commento sembra inserirsi con maggiore forza in questo tracciato, con i giudici della Corte che evidenziano come la clausola di rischio cambio debba essere valutata
con riguardo allo scopo perseguito dalle parti, con la precisazione che tale indagine riguarda, innanzitutto, la causa concreta del contratto – sotto il profilo della liceità e dell’adeguatezza dell’assetto sinallagmatico rispetto agli specifici interessi perseguiti dalle parti -, che non si arresta al momento della genesi del regolamento negoziale, investendo sia la fase precontrattuale sia quella dell’attuazione del rapporto ed esigendo la necessaria valutazione globale dell’assetto degli interessi, in relazione al risultato sostanziale ed al fine perseguito.
Valutiamo insieme come si sia giunti a tale sentenza.
La disponibilità al finanziamento dell’opera
Con ricorso ex art. 93 I.fall. un istituto di credito domandava I’ammissione al passivo del fallimento di una società a responsabilità limitata posta in liquidazione.
Il ricorso premetteva come la società fosse proprietaria di una vasta porzione di terreno edificabile e avesse stipulato una convenzione con il Comune, in base alla quale la s.r.l. si era obbligata alla realizzazione della nuova sede della Questura e della caserma della Polizia Stradale. Di contro, il Comune si era a sua volta impegnato a rilasciare le concessioni edilizie necessarie affinché la società potesse realizzasse sull’area di sua spettanza un insediamento integrato commerciale, direzionale e residenziale.
La banca si era resa disponibile al finanziamento dell’opera, concedendo così alla società un’apertura di credito regolata su distinti conti correnti ed assistita da ipoteca volontaria sulla porzione di terreno summenzionata. Affermava inoltre che il rapporto tra la società ed il Comune non aveva avuto lo sviluppo preventivato perché, tra l’altro, il Comune aveva negato il rilascio del permesso per la costruzione dell’insediamento integrato commerciale, direzionale e residenziale.
La società finita con l’essere largamente esposta (per oltre 24 milioni di euro) nei confronti dell’istituto di credito. Successivamente, la società era dichiarata fallita dal Tribunale, con l’istituto di credito che domandava I’ammissione al passivo del fallimento della società con prelazione ipotecaria.
L’ammissione al credito
Il giudice delegato negava però l’ammissione del credito evidenziando come dalla documentazione acquisita si desumeva che la banca avesse fatto luogo all’erogazione del credito in favore della società allorché era patente lo stato di insolvenza della s.r.l., e che dunque l’istituto di credito era stato concorrente, con gli organi di gestione e di controllo della società poi fallita, nell’aggravamento del dissesto patrimoniale e finanziario.
Il giudice delegato evidenziava ancora come I’ingente finanziamento sia erogato nonostante I’esiguo ammontare del capitale della società e la modesta consistenza del complesso immobiliare sul quale era iscritta ipoteca a garanzia dell’obbligazione restitutoria. Ancora, si evidenziava come il curatore fallimentare si fosse riservato il diritto di agire in responsabilità nei confronti della banca, in concorso con gli amministratori ed i sindaci, per far valere la propria pretesa risarcitoria, di ammontare superiore all’importo del credito per il quale era stata invocata l’ammissione al passivo.
L’istituto di credito proponeva opposizione allo stato passivo, resisteva il curatore del fallimento della società in liquidazione.
Il primo grado di giudizio
Nel primo grado di giudizio, il tribunale rigettava I’opposizione ritenendo peraltro “raggiunta la prova dell’efficienza causale (…) dell’erogazione del finanziamento nel depauperamento del patrimonio sociale, sub specie di aggravamento del dissesto già in atto al momento della stipulazione”, e affermando che il comportamento della banca era “caratterizzato da profili di colpa idonei a giustificare I’affermazione di responsabilità”.
Riteneva ancora che sulla scorta di una oculata valutazione la banca avrebbe potuto rendersi conto dell’inadeguatezza della garanzia ipotecaria accordata, e che il danno andava quantificato almeno nell’importo pari all’ammontare dell’esposizione debitoria della società nei confronti dell’istituto di credito.
Infine, si reputa che la pretesa risarcitoria come vantata dal curatore del fallimento sia legittimamente eccepita in compensazione, cosi che la domanda di ammissione al passivo è correttamente respinta, e si escluda che la prescrizione, anche quinquennale, sia compiuta, con i termini di decorrenza che avrebbero coinciso invece con il giorno della dichiarazione di fallimento, perché solo in quel momento il curatore “poteva appurare il reale stato patrimoniale dell’impresa, prendendo contezza, tra I’altro, che i bilanci erano stati redatti secondo modalità che consentissero di dissimulare le ingenti perdite subite” dalla società.
Ristoro del danno da abusiva concessione di credito
Dinanzi alla decisione di cui sopra, la società acquirente del credito dalla banca ha proposto ricorso, denunciando che il tribunale abbia errato nell’opinare per la legittimazione del curatore ad invocare, in via di eccezione di compensazione, il ristoro del danno da asserita abusiva concessione di credito, e deducendo che nella specie difetta la prova che la banca abbia concesso il finanziamento allorché la società versava in stato di dissesto.
Il ricorrente deduce ancora come sia da escludere che all’atto della concessione del finanziamento la società fosse sottocapitalizzata e che dai bilanci depositati non risultava che la società versasse in stato di insolvenza sia nel momento della concessione dell’apertura di credito che successivamente. Ancora, il creditore considera che in considerazione del valore dei terreni edificabili e delle opere che vi venivano via via costruite l’ipoteca fosse adeguata.
Con altro motivo di ricorso il creditore deduce come il tribunale abbia errato nel reputare comprovato il nesso di causalità tra il finanziamento concesso ed il depauperamento del patrimonio sociale, sub specie di aggravamento del dissesto e che ha errato nell’aver negato che il venir meno dei presupposti (l’accordo con il Comune) che avevano indotto alla richiesta ed alla concessione del finanziamento, fosse da qualificare in guisa di fatto sopravvenuto interruttivo del nesso causale.
Il ricorrente contesta ancora la quantificazione del danno e deduce che siffatto ipotetico danno non è il pregiudizio sofferto società ma quello eventuale dei singoli creditori, qualora fosse dimostrata la loro totale insoddisfazione, e che il danno fosse da quantificare in misura pari alla differenza tra la consistenza del patrimonio della società in epoca antecedente ed in epoca successiva al verificarsi del supposto evento lesivo, tenendo conto degli eventuali vantaggi dalla società che sono conseguiti per effetto dell‘assunto fatto lesivo.
Natura precontrattuale e termini di prescrizione
Infine, deduce che ad opinare per la natura precontrattuale della responsabilità della banca il preteso risarcimento sarebbe stato da circoscrivere al cosiddetto interesse negativo, che il tribunale non ha tenuto conto della formulata istanza di c.t.u. volta alla determinazione del valore degli immobili ipotecati e che la liquidazione equitativa del danno avrebbe imposto la dimostrazione da parte del curatore dell’esistenza di danni risarcibili ed il riscontro, quanto meno, della particolare difficolta di provare il danno nel suo preciso ammontare.
Per quanto poi riguarda i termini di prescrizione, il ricorrente afferma che il termine comincia a decorrere dal momento in cui il danno si è verificato, ovvero dal momento in cui danno si manifesta all’esterno e diviene percepibile.
L’opinione della Corte
Tutto ciò premesso, la Cassazione si sofferma sull’accoglimento del primo motivo di ricorso, assorbendo l’esame degli altri.
La Corte reputa infatti che il tribunale abbia circoscritto e commisurato la (concorrente) responsabilità della banca al danno cagionato al patrimonio sociale, sostenendo che il giudice a quo ha riferito il fenomeno della concessione abusiva del credito anche ai creditori della società, che possono anch’essi subire i danni condotta illecita eventualmente atti a scaturire. Tuttavia, il tribunale ha rigorosamente provveduto nell’excursus teorico che funge da premessa al suo dictum.
Di contro, in sede di delibazione della concreta fattispecie – che involge propriamente non già l’ipotesi dell’indebito mantenimento della linea di credito dapprima concessa bensì I’ipotesi dell’abusiva concessione ab origine del finanziamento – il giudice ha circoscritto il pregiudizio in tal guisa rilevante alla menomazione cagionata al patrimonio della società.
D’altronde, il tribunale ha fatto luogo ad un duplice rilievo. Da una parte ha affermato che “nel caso di specie (…) ciò che viene lamentato e il danno cagionato al patrimonio sociale dalla condotta di concessione abusiva di credito”. Dall’altra parte ha puntualizzato che “va (..) tendenzialmente esclusa la legittimazione del Curatore alla proposizione delle azioni a tutela dei creditori lesi dalla condotta dell’istituto di credito”.
In questo ambito, il profilo della legittimazione del curatore del fallimento, quanto meno nella fattispecie ora in esame, non si prospetta in termini problematici. Il curatore fallimentare è infatti legittimato ad azionare la responsabilità connessa al danno patrimoniale sofferto dall’imprenditore finanziato, perché il curatore gestore ex art. 31 l.fall. del patrimonio del fallito e dunque abilitato ad azionare ex artt. 42 e 43 l.fall. un diritto soggettivo già radicato nel patrimonio dell’imprenditore finanziato poi fallito.
La tipologia di danno causato dal contratto di finanziamento
In tali termini, pertanto, la Corte ha reputato di condividere il rilievo nelle conclusioni del Pubblico Ministero, a tenor del quale “nel caso di specie il danno fatto valere è quello cagionato al patrimonio della società poi fallita”.
È il secondo profilo di censura ad essere meritevole di accoglimento. La Corte ha ricordato come da tempo spieghi come I’anomalia della “motivazione apparente” si configuri se il giudice di merito, pur individuando gli elementi da cui ha desunto il proprio convincimento, non proceda ad una loro approfondita disamina logico/giuridica.
L’erogazione del credito è qualificabile come “abusiva” se effettuata, con dolo o colpa, ad un’impresa che si palesi in una situazione di difficolta economico-finanziaria ed in assenza di concrete prospettive di superamento della crisi.
In questo caso, I’erogazione del credito integra infatti un illecito del soggetto finanziatore, per esser questi venuto meno ai suoi doveri primari di prudente gestione, ed obbliga il medesimo soggetto al risarcimento del danno, ove ne discenda un aggravamento del dissesto favorito dalla continuazione dell’attivita di impresa.
È ancora la Corte a ricordare come la concessione abusiva di credito “designa I’agire del finanziatore che conceda, o continui a concedere, incautamente credito in favore dell’imprenditore che versi in istato d’insolvenza o comunque di crisi conclamata”, intendendo che “quel che rileva è unicamente l’insussistenza di fondate prospettive, in base a ragionevolezza e ad una valutazione ex ante, di superamento [della] crisi”.
L’indebitamento di rilevante portata
Il tribunale ha assunto che rivestiva valenza, in rapporto all’entita del finanziamento ed alla complessa operazione immobiliare intrapresa, la ridotta consistenza del capitale sociale della società, elemento indicativo della debolezza dell’assetto economico della stessa s.r.l., ovvero che la concreta disciplina del finanziamento aveva “determinato I’applicazione di interessi passivi su somme molto elevate in relazione al patrimonio della società, generando un indebitamento di rilevante portata”, e che “già al momento della stipula del contratto di apertura di credito le condizioni patrimoniali della societa [lasciavano] prevedere I’esito infausto dell’operazione di finanziamento”.
Infine, il tribunale ha anche posto in risalto che nella relazione ex art. 33 I.fall. il curatore aveva rilevato che la società fosse rimasta inattiva per un periodo di tre anni, e che al termine di questo periodo i bilanci mostrassero un andamento in perdita, e che il curatore aveva rilevato “una situazione di insolvenza acclarata fin dall’esercizi 2001 e, presumibilmente, sin dalla costituzione della società”.
La Corte, di contro, sostiene che il tribunale, considerato che I’apertura di credito controversa risale al 2000, avrebbe dovuto senz’altro attendere, a decorrere quanto meno dall’esercizio chiuso al 31.12.1999, ossia dall’esercizio antecedente all’operazione di finanziamento de qua agitur, e sino all’ultimo esercizio precedente la data della dichiarazione di fallimento.
La concessione abusiva del contratto di finanziamento
In questo modo si sarebbe acquisito riscontro dell’impatto dell’erogazione creditizia de qua agitur, recte del carattere se del caso “abusivo” dell’apertura di credito sia in dipendenza dell’eventuale stato di crisi in cui già versava la società alla data del rogito di concessione dell’apertura creditizia sia in dipendenza dell’eventuale palesarsi – sulla scorta di una prudente valutazione ex ante – già alla data del rogito dell’insussistenza di concrete prospettive di superamento della crisi.
Tutto ciò valutato, la Corte sostiene che da un lato non hanno valenza decisiva, “siccome di significato del tutto neutro ovvero del tutto generico rispetto alla consistenza del patrimonio netto ed alla sua prospettiva evolutiva correlata, in vista del superamento dell’eventuale stato di crisi, all’erogazione creditizia de qua agitur, la modesta consistenza del capitale sociale, la “debolezza dell’assetto economico della società”, I’applicazione di interessi passivi atti a generare un indebitamento rilevante, I” “aspecifico” rilievo delle perdite di cui ai bilanci degli esercizi 2001 e successivi, l’assunta inadeguatezza della garanzia ipotecaria accordata in relazione “alle caratteristiche concrete dell’operazione immobiliare finanziata”.
Per altro verso, riveste una certa qual plausibilità il rilievo della ricorrente, secondo cui la specifica veste giuridica, sub specie di apertura di credito, dell’erogazione finanziaria comportava che “più l’apertura di credito veniva utilizzata, più la società finanziata aumentava il proprio patrimonio immobiliare”, ossia che all’incremento della voce “debiti verso banche”, di cui al passivo dello stato patrimoniale, era inevitabilmente destinato a correlarsi I’incremento della corrispondente voce delle “immobilizzazioni materiali” di cui all’attivo dello stato patrimoniale.
In tale scenario non può dunque che opinarsi, in conclusione, nel senso che I’impugnata pronuncia, in primo luogo in ordine al profilo “oggettivo” della condotta asseritamente “abusiva”, manifesta una obiettiva carenza nella indicazione del criterio logico-giuridico che ha condotto il tribunale alla formazione del proprio convincimento.