Le telefonate mute – indice:
- Telefonate mute e anonime
- Cosa prevede l’art. 660 codice penale
- Il reato di molestie e disturbo della persona
- Lo stato di sofferenza
Ricevete telefonate mute che vi angosciano e vi turbano? La Corte di Cassazione, con la recente sentenza n. 13363/19, ha chiarito che integrano il reato di molestia e disturbo alle persone, di cui all’art. 660 c.p.
Telefonate mute e anonime
La pronuncia della Suprema Corte trae origine dal ricorso presentato da un uomo condannato dal tribunale a una pena in ordine al delitto di molestia e disturbo alle persone, di cui all’art. 660 c.p.. L’uomo, infatti, attraverso il telefono e per motivo “biasimevole”, recava molestie a un’altra persona, effettuando numerose telefonate di giorno e di notte, “mute e anonime”.
I tabulati della persona offesa permettevano così di identificare l’uomo. La quale, impaurita per tale atteggiamento, aveva denunciato in modo preciso gli orari in cui erano pervenute le telefonate sul proprio cellulare. La vittima lamentava che gli squilli reiterati e le telefonate avevano generato un profondo turbamento emotivo. Turbamento che era sfociato in uno stato di sofferenza, evidenziato anche dal giudice nel corso della deposizione.
Cosa prevede l’art. 660 codice penale
Ricordiamo che il dispositivo dell’art. 660 c.p. recita che
Chiunque, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo è punito con l’arresto fino a sei mesi o con l’ammenda fino a cinquecentosedici euro.
In tal senso, e prima ancora di approfondire le valutazioni degli Ermellini, sottolineiamo come il concetto di petulanza e il biasimevole motivo sono gli elementi che qualificano in senso oggettivo la condotta delittuosa, e che per poter configurarsi il reato in questione, il disturbo e la molestia devono essere indirizzati verso determinate persone, e non verso la collettività in generale.
Il ricorrente in Cassazione lamenta proprio la falsa applicazione dell’art. 660 cod. pen., considerato che il Tribunale non avrebbe considerato che dalla lettura della deposizione testimoniale della persona offesa, non si evince alcuna interferenza nella sua libertà, né alcuna mutazione delle condizioni di vita conseguente alla ricezione delle telefonate.
Il ricorrente lamenta anche il mancato riconoscimento della causa di non punibilità per tenuità particolare del fatto, ex art. 131 bis cod. pen., considerato che i contatti telefonici erano consistiti in un “mero scherzo tra amici”.
Il reato di molestie e disturbo alla persona
Nelle loro motivazioni, gli Ermellini sottolineano in premessa che il reato di molestie o di disturbo alla persona ha come obiettivo quello di prevenire il turbamento della pubblica tranquillità, attuato mediante l’offesa alla quiete privata.
Come già rammentato con sentenza n. 8198/2006, il reato in oggetto consiste in una qualsiasi condotta oggettivamente idonea a molestare e disturbare terze persone, interferendo così nell’altrui vita privata e nell’altrui vita di relazione.
In particolare, precisano anche i giudici della Suprema Corte in premessa, ai fini della sussistenza del reato, gli intenti scherzosi o persecutori sono del tutto irrilevanti, una volta accertato che il comportamento è stato contraddistinto dalla caratteristica della petulanza, ovvero da un agire pressante, ripetitivo, insistente, indiscreto e impertinente, tale da interferire sgradevolmente nella sfera della quiete e della libertà delle persone.
Stato di sofferenza
Chiarito ciò, la Corte di Cassazione ha giudicato infondato il ricorso, perché il giudice di merito, indipendentemente dalle affermazioni della persona offesa, che si era tranquillizzata dopo aver scoperto (ma solo dopo l’intervento e le indagini della polizia giudiziaria) l’identità dell’autore del fatto, ha evidenziato un turbamento persistente della persona offesa per due mesi, per le modalità della condotta posta in essere, e cioè telefonate mute e anonime, effettuate anche di notte sulla sua utenza telefonica.
Per gli Ermellini, dunque, il Tribunale ha correttamente applicato i principi più volte affermati in giurisprudenza di legittimità, per i quali anche i semplici squilli, se idonei a cagionare un turbamento o una molestia, possono integrare il reato contestato.
Sempre per i giudici della Suprema Corte sarebbe stato correttamente disattesa la richiesta di applicazione dell’art. 131 bis cod. pen., evidenziando il numero di telefonate e degli squilli accertati sulla base dei tabulati, lo stato di sofferenza della vittima, manifestato anche durante la deposizione in aula e soprattutto che il condannato non è nuovo a simili fatti, così prendendo atto che non ricorre il caso di particolare tenuità di cui all’art. 131 bis cod. pen., ravvisabile solo quando il comportamento non è abituale e non è stato posto in essere con condotte plurime, abituali e reiterate.
Alla luce di quanto sopra, pertanto, i giudici in Cassazione ritengono che il ricorso sia infondato.