La Corte di Cassazione, sezione lavoro, si è espressa in maniera netta e severa con riguardo al licenziamento di quel dipendente che faceva timbrare a un suo collega il badge identificativo, attestando così falsamente la propria presenza in ufficio.
Con l’ordinanza n. 13269/2018, infatti, un simile atteggiamento sarebbe idoneo per violare i fondamentali doveri che scaturiscono dal vincolo di subordinazione che lega il dipendente al proprio datore di lavoro, e sarebbe altresì in grado di integrare il reato di tentata truffa, divenendo così fattispecie penalmente rilevante.
Timbratura del badge e reato di tentata truffa
Il caso si è occupato di un dipendente che, insieme ad altri due colleghi, avevo domandato a un collaboratore di timbrare al suo posto il proprio badge identificativo, di cui aveva preventivamente indicato l’ubicazione, presumendo di poter giungere a lavoro in ritardo a causa di alcuni imprevisti di natura personale.
A conferma di tale “progetto”, il collaboratore aveva timbrato il badge alle ore 11.35, permettendo così al dipendente in malafede di risultare in ingresso in tale orario di puntualità: il ricorrente si era invece presentato sul luogo di lavoro, e aveva contestualmente iniziato la propria prestazione, solamente alle ore 12.50, oltre un’ora dopo la timbratura fraudolenta.
Una simile condotta era stata oggetto di conferma non solamente dalle testimonianze che sono state acquisite, quanto anche dal medesimo ricorrente, nell’occasione in cui gli sono state domandate giustificazioni specifiche sul proprio comportamento, dopo contestazione formulata da parte aziendale.
I giudici di merito si sono dunque espressi su questo caso, affermando che la sanzione del licenziamento è apparsa essere proporzionale alla mancanza commessa, che sempre secondo i giudici territoriali sarebbe in grado di ledere in modo grave e irrimediabile il vincolo fiduciario che dovrebbe regolare il rapporto di lavoro tra il dipendente e il datore di lavoro.
Il ricorrente, tuttavia, non la pensa così, affermando che la sanzione non sarebbe proporzionale alla gravità del proprio comportamento. In particolare, la Corte distrettuale – lamenta il ricorrente – non avrebbe dato la giusta rilevanza a una serie di circostanze ed elementi determinanti, come la portata della patologia di cui il lavoratore soffriva (attacchi di panico, ansia, ecc.), la mancanza di precedenti disciplinari e l’occasionalità dell’evento.
Timbratura del badge: grave violazione del vincolo fiduciario e licenziamento
Su queste premesse la vicenda arriva in Cassazione, con gli Ermellini che – nonostante il fermo ricorso da parte del dipendente licenziato – ricordano come il giudice territoriale abbia agito correttamente.
Nelle proprie motivazioni, la Suprema Corte afferma in primo luogo che occorre premettere come la giusta causa di licenziamento integri una clausola generale che richiede di essere concretizzata dall’interprete mediante la valorizzazione dei fattori esterni sulla coscienza generale e sui principi tacitamente richiamati dalla norma, e quindi attraverso specificazioni che hanno natura giuridica e la cui disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della ricorrenza concreta degli elementi del parametro normativo si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in Cassazione se privo di errori logici e giuridici.
Nelle sue motivazioni, la Cassazione ha poi sottolineato come il giudice di merito investito della domanda con cui si chiede l’invalidazione del licenziamento disciplinare, una volta accertata in primo luogo la sussistenza in punto di fatto, “deve verificare che l’infrazione contestata sia astrattamente sussumibile sotto la specie della giusta causa o del giustificato motivo di recesso e, in caso di esito positivo di tale delibazione, deve poi apprezzare in concreto la gravità dell’addebito, essendo pur sempre necessario che esso rivesta il carattere di grave negazione dell’elemento essenziale della fiducia e che la condotta del dipendente sia idonea a ledere irrimediabilmente la fiducia circa la futura correttezza dell’adempimento della prestazione dedotta in contratto, in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del lavoratore dipendente rispetto all’adempimento dei suoi obblighi”.
Ora, proseguono gli Ermellini, mentre il giudizio di sussunzione è un giudizio di diritto, e in quanto tale è sottoponibile anche alla Corte di Cassazione, il giudizio di proporzionalità fra illecito disciplinare e relativa sanzione è un giudizio di fatto, che non può che essere riservato al giudice di merito, che deve operarlo tenendo conto di tutti i connotati oggettivi e soggettivi della vicenda. Ad esempio, occorrerà tenere conto dell’entità del danno, del grado della colpa o dell’intensità del dolo, dell’esistenza o meno di precedenti disciplinari a carico del dipendente, e così via.
In tale ambito, gli Ermellini evidenziano come la pronuncia della corte di merito abbia correttamente seguito tali principi, accertando infatti la portata oggettiva della condotta assunta dal lavoratore, rimarcandone la gravità, “rammentando che la falsa attestazione della presenza in ufficio, mediante timbratura del badge identificativo ad opera di un terzo, implicava la violazione di fondamentali doveri scaturenti dal vincolo della subordinazione oltre ad integrare fattispecie penalmente rilevante (reato di tentata truffa)”. In concomitanza, la corte territoriale avrebbe anche considerato i riflessi di natura soggettiva della fattispecie, ovvero le già citate condizioni personali del lavoratore, portatore di handicap.