Il reato di violenza privata – indice:
- Cos’è
- Gli elementi oggettivi
- La consumazione
- L’elemento psicologico
- L’aggravante
- Circolazione stradale
- Procedibilità
All’articolo 610 del codice penale il legislatore afferma che “Chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa è punito con la reclusione fino a quattro anni”.
La norma definisce il reato di violenza privata ponendo in risalto due fondamentali concetti che riempiono di significato la disposizione: la violenza e la minaccia. Prima di analizzare la struttura del reato infatti si andrà inevitabilmente ad approfondire il significato di questi due concetti.
Si tratta di un reato contro la libertà personale che il codice penale inserisce nel titolo XII del libro secondo fra i delitti contro la libertà morale. Il bene giuridico tutelato infatti è proprio la libertà morale di ciascun individuo che lo stato vuole difendere e garantire che possa manifestarsi come ciascuno meglio ritiene.
Cos’è la violenza privata
La violenza privata è un delitto disciplinato dal codice penale all’articolo 610 fra i delitti contro la libertà morale. Si tratta di un reato sussidiario in quanto la sua formulazione generica spesso viene sostituita da altre fattispecie criminose circoscritte ad interessi giuridici più specifici.
Affinché si configuri il reato la fattispecie deve avere ad oggetto un fatto illegittimo. L’illegittimità è esclusa quando ad esempio la condotta commissiva od omissiva è legittimata da una causa di giustificazione oppure quando interviene uno stato di necessità.
È un reato punito con la pena della reclusione fino a 4 anni salvo si verifichi la circostanza aggravante. Tale circostanza è prevista dal secondo comma dell’articolo 610 del codice penale.
Gli elementi oggettivi del reato: la violenza e la minaccia
Il reato di violenza privata si configura quando le condotte di fare, tollerare od omettere sono compiute con violenza o minaccia. Tecnicamente questi fattori sono gli elementi oggettivi del reato senza i quali la fattispecie criminosa non si verificherebbe.
Sebbene si ritenga che la violenza arrechi un male attuale mentre la minaccia uno futuro, anche la seconda ne arreca uno attuale. Chi minaccia infatti innesca un meccanismo psicologico di turbamento nel soggetto che la riceve, turbamento che pertanto è attuale. In questo contesto tuttavia la violenza e la minaccia costituiscono dei mezzi di coercizione della volontà altrui e in questo senso il loro significato va approfondito.
L’agente può esercitare la violenza o la minaccia anche su un soggetto terzo rispetto a quello che subisce il reato affinché si integri la fattispecie di violenza privata.
La violenza
In senso stretto si ha violenza quando si cerca di vincere un ostacolo reale o supposto impiegando dell’energia fisica. Tale energia può essere utilizzata nel senso suddetto sulle cose o sulle persone. La legge non fornisce alcuna definizione di violenza sulle persone ma rende solo uno spunto per definire meglio il concetto di violenza sulle cose. Lo rende in particolare al secondo comma dell’articolo 392 del codice penale.
In tal sede tuttavia interessa capire meglio cosa in ambito giuridico si intenda per violenza personale e pertanto ci si rifà alle questioni dottrinali ed alle più recenti pronunce giurisprudenziali.
La dottrina distingue la violenza propria da quella impropria, definendo la prima come quella derivante dall’impiego dell’energia fisica e la seconda quella che determina uno stato di incapacità di volere o di agire del soggetto passivo. In questa seconda ipotesi pertanto, che esclude la minaccia, possono essere utilizzati anche mezzi che non comportano la violenza in senso proprio (fisica) come ad esempio l’uso di narcotizzanti o sostanze stupefacenti. La violenza impropria inoltre può derivare anche da una omissione: ad esempio sottrarre le chiavi di casa a qualcuno per indurlo a tenere un certo comportamento.
Tra le più recenti pronunce giurisprudenziali invece si riporta quanto affermato dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 38910 del 2018. Secondo i giudici di legittimità la violenza personale si esercita con “qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l’offeso della libertà di determinazione e di azione, potendo consistere anche in una violenza “impropria”, che si attua attraverso l’uso di mezzi anomali diretti ad esercitare pressioni sulla volontà altrui, impedendone la libera determinazione”.
La minaccia
Si ha minaccia invece quando si prospetta ad un soggetto un avvenimento futuro negativo che dipende dalla propria volontà. Significa cioè che con un’azione od un omissione chi minaccia ha il potere di determinare o meno il verificarsi dell’evento. Se invece manca questa possibilità dell’agente non si ha minaccia ma mero avvertimento.
L’avvenimento negativo che l’agente prospetta alla persona può riguardare la sua integrità fisica ma anche quella morale. E dunque si ritiene minaccia un comportamento volto a limitare la libertà personale per quanto riguarda la propria vita nei vari spetti: integrità fisica e morale, relazioni affettive, patrimonio e così via. L’importante è che l’oggetto della minaccia sia un bene giuridicamente rilevante.
Ai fini del reato in esame tuttavia la minaccia deve tradursi in un mezzo di coercizione e dunque sottoporre il soggetto passivo a compiere una scelta. Ovvero comportarsi come desidera l’agente oppure subire l’eventuale male futuro. Talvolta poi la minaccia è talmente coercitiva che annulla completamente la volontà dell’agente.
Come per la violenza si ritiene opportuno richiamare una fra le più recenti sentenze della Cassazione in cui i giudici hanno fornito una nozione di minaccia. Ai fini del reato di violenza privata la Corte ha ritenuto minaccia “qualsiasi
comportamento od atteggiamento, sia verso il soggetto passivo, sia verso altri, idoneo ad incutere timore ed a suscitare la preoccupazione di subire un danno ingiusto, onde ottenere che, mediante tale intimidazione, il soggetto passivo sia indotto a fare, tollerare od omettere qualcosa”.
Consumazione e configurabilità del reato
Il reato di violenza privata nella sua prima formulazione normativa si considerava consumato con l’uso della violenza o della minaccia per coartare la volontà del soggetto passivo senza che l’intento dell’agente si verificasse. Tale ultima ipotesi costituiva una circostanza aggravante.
Nell’attuale formulazione invece la fattispecie delittuosa è consumata soltanto quando il costringimento a fare, tollerare od omettere si verifica. Al contrario, se non si verifica, si ha soltanto delitto tentato.
Per quanto concerne la configurabilità del reato, la Cassazione ha precisato lo scorso anno nella sentenza n. 10360 che “ai fini dell’integrazione del delitto di violenza privata è necessario che la violenza o la minaccia costitutive della fattispecie incriminatrice comportino la perdita o, comunque, la significativa riduzione della libertà di movimento o della capacità di autodeterminazione del soggetto passivo, essendo, invece, penalmente irrilevanti, in virtù del principio di offensività, i comportamenti che, pur costituendo violazioni di regole deontologiche, etiche o sociali, si rivelino inidonei a limitarne la libertà di movimento, o ad influenzarne significativamente il processo di formazione della volontà”. Nella specie era stato accusato di reato di violenza privata un poliziotto che nello svolgimento delle sue funzioni durante una manifestazione di protesta limitava la libertà di movimento di un protestante.
L’elemento psicologico del reato
L’agente fa uso di violenza e minaccia allo scopo di costringere taluno a fare, tollerare od omettere con la consapevolezza e la coscienza di farlo. Si ritiene pertanto che l’elemento psicologico del reato sia il dolo.
Si tratta inoltre di un dolo generico e non specifico. Come affermato nel paragrafo precedente infatti il reato è integrato soltanto quando il costringimento si realizza.
La Corte di Cassazione ha faticato ad escludere l’esistenza del dolo generico nel caso in cui la condotta del reato di violenza privata sia stata posta in essere per scherzo. A tal proposito sosteneva nella sentenza n. 40488 del 2018 come “l’intento di effettuare uno “scherzo” è idoneo ad escludere il dolo del reato solo qualora la condotta non venga posta in essere con la volontà (o l’accettazione del rischio) di determinare la lesione tipica ovvero quando tale intenzione risulti incompatibile con l’eventuale finalità specifica che caratterizza il dolo suddetto, degradando altrimenti a mero movente dell’agire, di per sé ininfluente ai fini della rilevanza penale del fatto”.
L’aggravante del reato di violenza privata
Il secondo comma dell’articolo 610 del codice penale stabilisce che “La pena è aumentata se concorrono le condizioni prevedute dall’articolo 339”.
La norma individua un aggravante del reato di violenza privata quando viene commesso con le modalità previste all’articolo 339 del codice penale. Tali modalità prevedono che la violenza o la minaccia siano esercitate:
- nel corso di manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico;
- con armi;
- da persona travisata (cioè una persona che ha volontariamente alterato il proprio aspetto al fine di non essere riconosciuta);
- da più persone riunite;
- con scritto anonimo;
- in modo simbolico;
- valendosi della forza intimidatrice derivante da segrete associazioni, esistenti o supposte.
Se pertanto la condotta viene posta in essere con tali modalità la pena (reclusione fino a 4 anni) è aumentata fino ad un terzo se concorrono più di una delle circostanze suddette.
Il reato di violenza privata nella circolazione stradale: i parcheggi
Si riscontrano molteplici pronunce giurisprudenziali sul reato di violenza privata commesso nell’ambito della circolazione stradale.
Al proposito non è infrequente il verificarsi della situazione in cui un soggetto disabile trovi il parcheggio riservato alla sua categoria occupato da un veicolo appartenente ad un soggetto non invalido. Con la sentenza n. 17794 del 2017 la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso di un soggetto condannato al reato di violenza privata per aver parcheggiato il proprio veicolo nel posto riservato a soggetti disabili impedendo ad un soggetto affetto da gravi patologie di parcheggiarvi.
In materia di circolazione stradale inoltre si sono verificate altre ipotesi sempre con riguardo ai parcheggi. Nella sentenza n. 51236 del 2019 la Corte di Cassazione ha affermato che “integra il delitto di violenza privata la condotta di colui che parcheggi la propria autovettura in modo tale da bloccare il passaggio impedendo l’accesso alla persona offesa, considerato che, ai fini della configurabilità del reato in questione, il requisito della violenza si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l’offeso della libertà di determinazione e di azione“.
La procedibilità d’ufficio del reato di violenza privata
Il reato di violenza privata è un reato perseguibile d’ufficio. Significa che dal momento in cui giunge alla Procura la notizia di reato il Pubblico Ministero deve esercitare l’azione penale. Non è necessario dunque che il fatto sia denunciato o vi sia una querela da parte della persona offesa.
Con la procedibilità d’ufficio l’azione penale avviata non è revocabile e non può essere interrotta. A differenza di quanto avviene per i reati perseguibili a querela nei quali invece si ha a disposizione lo strumento della remissione di querela.